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Da Baby Jane a Carlotta: i Parenti Serpenti di Robert Aldrich

Creato il 29 aprile 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Da Baby Jane a Carlotta: i Parenti Serpenti di Robert Aldrich

Per filmare una compilation d'angherie di una donna ai danni di una consanguinea (anch'ella colpevole di un grave misfatto) senza cadere nella misoginia o sei un funambolico cineasta che sa mantenere l'equilibrio su una corda tesa tra i palazzoni degli studios o sei Robert Aldrich. Parleremo della prima ipotesi a metà di questo articolo poiché cronologicamente il film che la sviluppa è successivo. Nel primo caso, quindi, Robert Aldrich (se ci fosse una classifica dei registi sottovalutati l'americano andrebbe a medaglia) decide di scampare il pericolo di trovarsi contro orde di femministe tentando addirittura il colpaccio che nobilita una carriera e lo consegna alla storia del cinema.

Prende così due delle icone più splendenti della cinematografia statunitense degli anni Trenta e Quaranta, due star in quel momento quasi cadute nel dimenticatoio (tanto da costringere una delle due a mettere questo annuncio su una rivista: "Madre di tre bambini di 10, 11 e 15 anni, divorziata, americana, trent'anni di esperienza come attrice cinematografica, versatile e più affabile di quanto si dica, cerca impiego stabile a Hollywood"), e costruisce attorno alle attempate ex dive una corrosiva storia sui destini oscuri di alcuni esponenti dello show business. Gira, insomma, nel 1962 Che fine ha fatto Baby Jane? (il titolo poteva anche essere benissimo Che fine ha fatto Shirley Temple?). Aldrich fornisce la risposta alla domanda che ognuno di noi almeno una volta nella vita si è posto pigramente spaparanzato sul divano circa il destino di uno dei fenomeni televisivi che per un dato periodo ha imperversato indefettibile sulle nostre TV.

Il film comincia con un prologo. Nel 1917 Jane Hudson era una bambina prodigio che riempiva i teatri di vaudeville con uno di quegli spettacoli sempliciotti dove l'unica attrattiva consiste nella carineria di un angelico faccino che canta già (mediocremente, ma ai provinciali tanto basta) alla maniera degli adulti. Il talento precoce può restare tale e non crescere assieme al resto del corpo: è questo il caso. Da grande Jane diventa un'attrice ma solo per gentile concessione della più dotata sorella. L'affermata Blanche, infatti, impone nel contratto-capestro la clausola che ad ogni suo successo lo studio faccia corrispondere un film di Jane. A questo punto Aldrich inserisce l'elemento dell'incidente di Blanche e della conseguente perdita dell'uso delle gambe per tornare nel 1962 ed immaginare la convivenza tra le due sorelle. E qui sta il colpo di genio della pellicola: ad interpretare le due fittizie reduci dell'industria dei sogni sono due attrici realmente detronizzate dal trono dall'età che avanza e che ad Hollywood spesso non fa prigioniere: Bette Davis e Joan Crawford.

Che fine ha fatto Baby Jane? al loro apparire diventa una cinica disquisizione metacinematografica sulle conseguenze psicologiche del successo su animi incapaci di gestirne la terribile provvisorietà. Un altro parallelismo tra verità e finzione scenica amplia la riflessione fino a farla diventare un esperimento cinefilo. La celebre e ostentata rivalità tra la Davis e la Crawford ha finalmente il suo corrispettivo su schermo con la lotta delle sorelle Hudson. Le due dive, dal canto loro, si prestano al massacro accantonando i passati arrivismi e fornendo due magistrali interpretazioni. La Crawford recita seduta su una sedia a rotelle puntando tutto sulla luminosità del suo viso devastato pian piano dalle sofferenze patite.

Ma è Bette Davis a fornire una performance indimenticabile che solamente per la sua bravura non cade mai nel kitsch nonostante gli eccessi grotteschi. L'attrice statunitense carica perfino i minimi gesti (la postura sciatta, il ciabattare strascinato, la perenne accigliatura) e si impiastriccia il viso con una decina di strati di trucco fino a farlo sembrare una maschera di cartapesta. Costrette ad una convivenza forzosa ma anche morbosa (nessuna delle due nel corso degli anni ha mai provato ad allontanarsi dall'altra), le sorelle Hudson sono legate indissolubilmente dalla solitudine e dalla comune paralisi, quella fisica di Blanche e quella mentale di Jane.

Il sorprendente finale confermerà l'inestricabile legame tra le due donne (e tra le due dive): entrambe carnefici, entrambe vittime dei lustrini hollywoodiani. "Allora vuoi dire che per tutti questi anni saremmo potuto essere amiche?", chiede Jane/Bette. "Sì, se tu non mi avessi preso in giro a quella festa e io non ti avessi rubato il marito", avrebbe potuto rispondere Blanche/Joan.

Due anni più tardi, nel 1964, Robert Aldrich torna sul set con l'intenzione di dare un seguito al fortunato Che fine ha fatto Baby Jane? gradito sia dal pubblico che dalla critica. Piano... piano, dolce Carlotta è tratto anch'esso da un omonimo racconto di Henry Farrell ed ancora una volta è sceneggiato dal fido Lukas Heller. Poco prima delle riprese però, per una pretestuosa malattia, Joan Crawford abbandona il progetto e il film si trova a dover operare qualche cambio in fase di sceneggiatura, soprattutto sui personaggi. La cornice metacinematografica non trova così il proprio motivo di esistere ed Aldrich si accontenta di inscenare un altro scontro parentale tra la Davis e la nuova arrivata, la rediviva Olivia de Havilland (memorabile coprotagonista di Via col vento).

Bette Davis è poco convincente nella parte della vittima isterica, forse non eccitata da un confronto attoriale che sa di aver già vinto in partenza. A rubarle la scena arriva invece, abbastanza insospettatamente, la fenomenale caratterista Agnes Moorehead nella parte dell'arcigna domestica Velma Cruther. Piano... piano, dolce Carlotta inasprisce maggiormente il carattere gotico della storia, ambientato com'è in un'opulenta e decadente magione della Louisiana, e reitera il meccanismo dell'horror psicologico con alcune trovate particolarmente truculente come la mano mozzata e il corpo acefalo dell'innamorato.

Il plot risulta meno intrigante rispetto al predecessore e dalla seconda metà in poi si limita a ricalcare il colpo di scena de I diabolici (1954) di Henri-Georges Clouzot senza arrivare a toccarne i vertici ansiogeni. La motivazione economica dell'intrigo divide troppo nettamente i cattivi dai buoni, lasciando per strada la sottile ambiguità del primo film. Meno invettive femministe e minore ferocia massmediale: in questa occasione, insomma, il regista equilibrista prende il posto dell'autore Robert Aldrich. Peccato.


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