Magazine Diario personale

Eternauta

Da Marcopress @gabbianone

Ho smesso di guardare il basket italiano da tre anni. Fine della Snaidero (lavoro divertente), fine di tutto. Non posso criticare il basket italiano, semplicemente non lo conosco più, non so cos’è, non so se giocano ancora.
Un distacco tale che pensavo che Giuseppe Guerrieri, detto Dido, fosse già morto. E invece no, se n’è andato oggi, e che strano rendersi conto che la disciplina sportiva che più ho amato (giocare) oggi è altro da me, Sixers a parte.
Ho iniziato a sentir parlare del Professore (lo chiamavano proprio così, prima dell’inflazione di oggi) nel 1978, quando Aldo Giordani fondò la più bella rivista sportiva italiana di sempre, Guerin Sportivo a parte. A novembre di quell’anno uscì il primo numero di Superbasket, non ne persi uno per un decennio.
I “pallini” del Jordan erano Twitter 30 anni prima. E c’erano i tabellini Nba, Internet era ancora Ufo. Vari giornalisti in carriera, su tutti Chiabotti, prima firma del basket oggi in Rosea. Su quelle pagine iniziai a leggere di Guerrieri, un attimo prima che arrivasse a Udine ad allenare l’Apu. Ragazzino (io), lo vidi spiegare pallacanestro. Per quello che ne capivo, fu una folgorazione.
Prima aveva allenato l’altra Milano, non la storica Simmenthal ma la Mobilquattro, una Milano periferica, operaia. Un contrasto più o meno come Juve-Toro. E proprio a Torino, città che di basket nulla sapeva, Guerrieri ha costruito la sua storia di allenatore Davide contro Golia Peterson. Allenò anche Dawkins, proprio lui. Andò tre volte in semifinale scudetto, come se i granata arrivassero in Champions. Scrisse anche per Superbasket, Dido. E fu pure secondo di Rubini in Simmenthal. Perché aveva tutto per vincere, oltre che per insegnare.



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