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…favola assurda di un colibrì innamorato e di un giorno di pioggia, quando non puoi uscire e rimani così serafico, a raccontarla ai tuoi pidocchi…

Creato il 03 aprile 2012 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

colibri

Camillo Lopez, "Colibrì" (2009) - olio su tela

“Pensavo di emigrare in un paese dell’Est ma nessuno volle darmi un passaggio !!!”

Iniziava così un articolo del giornale di ieri, buttato lì, tra le siepi del giardino di casa De Donno in via D’Aurelio angolo via Panarese, a metà strada della vecchia stazione e della Casa del Popolo di corso Puzzovio. Vi è nascosto tutto un intero mondo tra un platano ed una magnolia, in una squinternata siepe di una qualunque via a metà strada di qualsiasi posto pensavo, mentre volavo fuori dal nido della magnolia per cercare di sfamare me ed i piccoli. Un’altra, ennesima lite accaduta pochi minuti prima con Becchina mi avevano tolto il sorriso e la voglia di fare in quella giornata discutibilmente nata male e proseguita peggio.

Pensavo che emigrare, in qualsiasi posto del mondo che fosse diverso da questo, sarebbe stata la migliore soluzione. Abbandonare tutto e partire da soli, in quel posto lontano dell’Est, a rifarsi una vita. Cancellare di botto tutte le traversie, Dio mi aiuti, a cui mi costringeva mia moglie.
Ero a conoscenza, ormai era fatto noto, che da un bel pezzo lei frequentasse una maga, o qualunque altra strega del genere “te lo dico io come va il mondo”, che non faceva altro che consigliarla maleficamente, riuscendo, le venisse un accidente, a mettermi contro la mia compagna su qualsiasi cosa io dicessi o facessi o addirittura pensassi riguardo ad essa e alla sua di vita. Ma ne ero troppo innamorato per volare via, per uscire definitivamente dalla sua vita. Cercavo, di conseguenza, di far finta di niente. Di soprassedere. Non fosse altro che per amore dei figli, teneri piccoli da sfamare e quindi finivo, ogni volta che litigavo, per darle ragione, per quieto vivere e rimanere.  E non ci riuscivo ad abbandonare tutto!! Non riuscivo a dimenticare i tanti momenti felici vissuti assieme, tutti quei ricordi che condividevamo, che gelosamente custodivo nella mia memoria e far finire tutto solo per stupido orgoglio o per vattelapesca cosa ci fosse altro.

Nel momento che mi alzavo in volo, nel momento stesso che perlustravo solitario la radura nella pineta dinanzi al nido amavo, in effetti, ricordare spesso il giorno del mio matrimonio.
Quel giorno invitammo tutti gli usignoli a suonare un’overture, mia madre appoggiata sul becco di mio padre a piangere lacrime di gioia, lacrime tanto copiose che quasi tutti eravamo con le zampette umide. Vi erano tutti quelli del bosco. Tutti invitati. Trecento uccellini tutti, a modo loro, contenti ed emozionati. Ricordavo che le campanule selvatiche scampanavano note festose in nostro onore, le rose rosse con gli alti steli ripiegarsi verso terra e creare un favoloso tappeto rosso e le felci che intrecciandosi creavano degli archi strepitosi che solo il passarci in mezzo faceva rimanere senza fiato. Ricordavo il vestito bianco di Becchina confezionato dalle leggiadre zampette delle sorelle api, tutto ricamato con semi di cicoria e con una stola lunga dieci e più battiti d’ala. Ripensavo a quel velo che ricopriva quel dolce viso, al bouquet di orchidee secche che le sue tenere ali a stento trascinavano, alle pennine della sua meravigliosa testolina tenute dritte da spine di cardo giallo. E poi i ricordi mi riportavano alla memoria il nostro volo di nozze: planammo prima allo zoo che poi visitammo gabbia dopo gabbia per un intero pomeriggio, poi le chiese del paese, le tegole dei tetti pieni di umido nevischio, i caldi comignoli delle calde case, le finestre con i gerani e i ciclamini, le gocce del vapore dei camini sui vetri delle mansarde, le lancette dell’orologio della torre di un giallo superbo e poi ancora i gradoni della basilica pieni di becchime con i bimbi che si divertivano a rincorrerci.

Adesso, purtroppo, mi toccava guardare in faccia la realtà, realtà che aveva una visione meno romantica, una realtà che mi spingeva a scegliere, cioè capivo che non mi rimaneva che prendere al più presto una decisione. Ero ancora stramaledettamente innamorato di Becchina, quello era più che sicuro, volevo molto bene ai piccoli, anche questo era più che sicuro, per amor del vero io speravo, in cuor mio, che lei si stancasse prima o poi di santi e santone e riportasse nel nido quella pace familiare che mancava oramai da tanto. Però ero anche convinto che non fosse una questione proprio semplice da sistemare, non era affatto così facile come mi auspicavo. Però, volente o nolente, mi toccava decidere, anche se non riuscivo, nonostante tutto, a darmi nessuna spiegazione concreta su quello che ci stava succedendo.

Mentre pensavo tutto questo, si era già fatta ora di rincasare, visto anche il fatto non trascurabile, che stava diventando buio e dovevo portare da mangiare ai piccoli. Pensavo tutto questo, dicevo, quando all’improvviso udivo uno sparo violento, sentivo che le ali diventavano pesanti ed il respiro diventava affannoso e un gran bruciore, terribile e violento, che mi squarciava il petto… poi non sentivo più nulla e non ricordavo più nulla….


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