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I 10 anni dell’Akp

Creato il 08 agosto 2012 da Istanbulavrupa

I 10 anni dell’Akp(ripropongo un mio articolo dell’anno scorso, pubblicato su Espansione in forma redazionalmente modificata, a beneficio dei nuovi arrivati. i due studiosi e intellettuali che ho intervistato NON sono dei sostenitori dell’Akp)

Lampadine, twitter, spot in tv. La campagna elettorale per le politiche del 12 giugno in Turchia è stata un’immersione nella modernità. Nella modernità del Partito della giustizia e dello sviluppo – l’Adalet ve Kalkınma Partisi o Akp, etichettato in modo pressoché intercambiabile come “conservatore”, “d’ispirazione islamica”, “islamico-moderato” – guidato dal premier Recep Tayyip Erdoğan, capace di vincere tre tornate nazionali e due amministrative di seguito e di sfiorare la soglia del 50% dei consensi qualche mese fa. Una salda maggioranza, un partito egemone che già guarda – è stato questo lo slogan principale suggerito dagli spin doctors – agli obiettivi fissati per il 2023, nel centenario della Repubblica voluta da Mustafa Kemal Atatürk: l’ingresso nell’Unione europea, la conquista almeno della decima piazza tra i paesi più ricchi per Pil al mondo, l’integrazione economica e la cooperazione politica anche coi vicini balcanici e mediorientali, il consolidamento di una posizione d’influenza globale. La priorità è il futuro, non le tradizioni immutabili.

L’Akp è stato fondato appena dieci anni fa, il 15 agosto del 2001: un’evoluzione in chiave democratica e liberista del movimento della “visione nazionale” (Millî Görüş) e del disciolto Partito della prosperità (Refah partisi) – dichiaratamente islamisti – creati da Necmettin Erbakan. Il suo simbolo è dal principio una lampadina gialla bordata di nero, che emana sette raggi di luce: sette come le macro-regioni della Turchia, rischiarate dalla vivacità, dalla virtù, dalla speranza (il giallo), rafforzate dal potere, dall’autorità, dai legami di coesione (il nero). Niente mezzelune, niente simboli religiosi. E agli irrinunciabili comizi, festoni e manifesti con abbondante contorno di lampadine, l’Akp ha aggiunto un uso massiccio dei social neworks – Erdoğan e il presidente Abdullah Gül sono presenti in tempo reale su Facebook e twitter – e una inedita e capillare offensiva televisiva: animazioni tridimensionali per illustrare i più importanti progetti infrastrutturali – autostrade, ferrovie ad alta velocità, porti, viadotti – che intende realizzare per mettere il paese al passo coi tempi globalizzati, video di impeccabile fattura per definire anche visivamente il modello di società inclusiva – i simboli di partito insieme a quelli nazionali, persone appartenenti a una pluralità di contesti etnici e socio-economici – che propone per la Turchia del XXI secolo. Una Turchia più aperta ed estroversa – già diventata la sedicesima potenza economica al mondo, membro del G20 – che accetta senza paure le diversità.

L’Akp non è un partito islamista, o comunque confessionale; “è un partito laico e repubblicano”, che non rompe con la tradizione kemalista ma la rinnova, introducendo un “laicismo non militante ma tollerante verso tutte le religioni” – così ha esordito il professor Ahmet Insel, politologo ed economista, docente presso l’università francofona di Galatasaray in riva al Bosforo. Gli abbiamo chiesto quali sono i motivi della prorompente affermazione elettorale dell’Akp. Non solo i successi economici – grazie a galoppanti tassi di crescita (+ 8,8% nel secondo semestre del 2011), il reddito medio pro capite è passato dai 3500 dollari del 2002 agli oltre 10000 di oggi (con proiezioni a salire) – e una propositiva visibilità in politica estera che soddisfa l’orgoglio nazionale: la ragione principale del successo del partito di Erdoğan – secondo il professor Insel – è quello di “aver rovesciato i rapporti di forza tra le élites tradizionali autoritarie e altezzose – che pretendono di avere un mandato perenne a governare – e quelle di origine popolare – dinamiche e rampanti – dell’Anatolia”, di aver “riportato in ambito politico la sensibilità conservatrice musulmana rendendola compatibile con la modernità”.

Del resto, il boom economico dell’era Akp – per Insel – è stato reso possibile principalmente dalle precedenti misure di risanamento volute dal ministro Kemal Derviş (nel biennio 2001-2002) e dalla stabilità politica del monocolore in carica ormai da nove anni, oltre che da una congiuntura internazionale favorevole e dalle prospettive europee: condizioni propizie che l’Akp – questo il suo merito maggiore – ha saputo sfruttare al meglio, impostando inoltre un processo di riconversione verso la produzione di beni intermedi, avviando iniziative per ridurre la dipendenza energetica dalle fonti fossili col nucleare e le energie rinnovabili, assicurando con una politica estera incisiva e accorta – almeno fino alle crisi con Israele, con Cipro, con la Siria – preziosi mercati di sbocco per le esportazioni e gli investimenti diretti, garantendo conti rigorosamente in ordine. Ma perché la metà esatta degli elettori turchi – non tutti islamicamente conservatori, nella più recente ricerca demoscopica il 16% degli elettori del partito di Erdoğan si è dichiarato kemalista – vota per l’Akp? Le risposte sono state secche e illuminanti: “per la popolarità di un leader che per la prima volta viene realmente dal popolo, perché le opposizioni kemalista (Chp) e nazionalista (Mhp) non sono in grado di offrire un’alternativa credibile, perché l’Akp ha raggiunto gli obiettivi dichiarati e non ha fatto errori gravi o dato vita a scandali, per un senso di rivincita nei confronti delle forze armate autrici di colpi di stato anti-democratici a ripetizione, per aver offerto anche in situazioni clientelari – e sono frequenti – standard elevatissimi nei servizi essenziali”.

Fuat Keyman, docente di relazioni internazionali – di formazione canadese e statunitense – della prestigiosa università Sabancı e direttore dell’Istanbul Policy Center, è dello stesso avviso nell’interpretare la parabola decennale dell’Akp come una success story. Definisce il partito della giustizia e dello sviluppo “partito dominante, dalla visibilità globale”: da una parte, è destinato – in assenza di crisi dirompenti – a confermarsi il partito di maggioranza almeno relativa nel prossimo decennio o forse oltre, anche grazie a una spiccata abilità nel costruire alleanze sociali (nuovi e propulsivi ceti industriali inclusi); dall’altra, ha saputo proiettare la propria reputazione vincente all’esterno, proponendosi come potenza mediatrice e stabilizzatrice nelle sue turbolente periferie e come “esempio da imitare” ai paesi della primavera araba che aspirano alla democrazia. Una democrazia laica, come ha specificato Erdoğan – dopo un’accoglienza da rockstar in aeroporto, tra le proteste della vecchia guardia dei Fratelli musulmani in effetti fuorviati dalla traduzione (la stessa parola per secolarismo e ateismo) – a settembre in visita ufficiale al Cairo; un modello che ha tre capisaldi, come illustrato all’inizio di ottobre a Istanbul – nel corso di un seminario con attivisti ed esponenti politici arabi di primo piano – da Ibrahim Kalın, consigliere del premier e direttore dell’ufficio per la diplomazia pubblica: progressiva democratizzazione del sistema politico-istituzionale con l’inclusione di tutti i partiti, trasformazione economica che punta sulle classi medie, integrazione regionale. Un modello che in Turchia si è rivelato vincente, che in Medio oriente è oggetto di attento e costruttivo dibattito.

Il professor Keyman ha avuto parole di elogio per una politica estera ambiziosa e propositiva che vuol fare della Turchia il pivot geopolitico della regione afro-eurasiatica pur salvaguardando la salda partnership con gli Usa, per la determinazione nell’aver neutralizzato le abusive e dannose intromissioni delle forze armate – custodi dell’ancien régime – nella sfera politica, per aver affrontato con coraggio – e col linguaggio della riconciliazione nazionale – la determinante questione curda; le critiche sono per aver “creato tensioni con troppi attori simultaneamente” sullo scacchiere mediterraneo, per aver imposto una configurazione statale eccessivamente centralizzata che mina la qualità della democrazia. In sintesi, il ruolo trasformativo dell’Akp in politica estera e nella modernizzazione della Turchia ancora non ha assicurato un consolidamento delle istituzioni in senso democratico: il banco di prova sarà la redazione della nuova costituzione, necessaria a superare gli ultimi residui del regime autocratico kemalista. Una nuova costituzione che dovrà basarsi su di una definizione civica – e non più etnicamente turcocentrica – del concetto stesso di cittadinanza.



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