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Il feeling di mio nonno con Madre Natura

Creato il 02 marzo 2013 da Greeno @greeno_com

Mio nonno non sapeva fare il vino. In compenso a novembre nelle nostre case arrivava l’aceto nuovo. Me ne ricordo ancora. Mio nonno aveva tre figli e sei nipoti, tra i quali io ero il più grande. E proprio perché ero il più grande mi immaginava come il depositario ultimo delle tradizioni di famiglia. Mi spiegava come stendere i teli sotto agli ulivi nel periodo della raccolta, mi mostrava dove andavano piantati i pomodori e persino come allevare le lumache, quelle marroni e saporite che in estate si ficcavano sotto terra ed andavano in letargo tappandosi il buco con una patina bianca che sembrava un’unghia. Mi diceva che bisognava avere rispetto per la terra, che dava sempre i suoi buoni frutti a chi la sapeva trattare.

Fu attorno ai tredici anni, quando già aveva iniziato a farmi bere un dito di vino a tavola con lui e la nonna, che iniziai a chiedermi perché, se lui era così buono e premuroso con la sua terra, il suo vino faceva così schifo. Ovviamente lo pensavo senza dirglielo, e lo stesso facevano mio padre e i miei zii. Mia nonna non so, forse si era talmente abituata a bere quel vino che aveva smesso di chiedersi se era buono o meno. Lo prendeva come un medicinale, come prendeva la soluzione Schoum, di cui non si può dire se sia buona o cattiva. Il guaio era che mio nonno non avrebbe mai accettato che gli si dicesse la verità sul suo vino. Lui era convinto che fosse buono, altrimenti vatti a spiegare perché se lo portava con sé quando qualcuno dei figli lo invitava a pranzo la domenica. Lui e il suo fiaschetto. Nome e cognome.

“Aaaah, che meraviglia” diceva “come il mio vino proprio non ce n’è”.

Come se ne avesse provati chissà quanti altri. Ecco, una cosa ancora non capisco, e cioè come in tanti anni non gli sia mai venuto il dubbio che quella cosa fosse imbevibile. Neppure lo zio Gianni lo assaggiava. Neppure lo zio Gianni! Ma come avremmo mai potuto dirglielo. Una giorno, ricordo, arrivò tutto raggiante a casa nostra con due damigiane rosse. “Eccolo, eccolo” urlava “il primo dell’anno”. Mio padre, appena se lo trovò davanti, non fece in tempo a prepararsi al gioco e, siccome il vino del nonno in casa nostra come dappertutto veniva utilizzato solo per condire l’insalata, la sua testa gli suggerì di dire l’infelice frase “papà, ne abbiamo già tanto di acet…”.

Neanche allora il nonno capì, neppure quel singhiozzo di verità immediata gli rivelò la congiura.

“Il vino, il vinooooo! Quale aceto, il vinooo! È arrivatoooo!” gli rispose, con l’aria rassicurante del filantropo. Del resto ci aveva portato il vino, mica l’aceto…

Quando si sposò mia cugina, mia nonna ottenne di non fargli portare al ricevimento il fiaschetto di vino al seguito. Pareva brutto. Ma mio nonno era un osso duro, e accettò solo dopo un faticoso negoziato. Ma ad una condizione: non si sarebbe presentato col suo fiaschetto, ma lo avrebbe portato con sé in macchina e lo avrebbe preso solo se il vino del ristorante fosse stato cattivo. Figurarsi…

“Anna”  iniziò a dire a mia nonna dopo nemmeno cinque minuti  “lo senti? Sa di tappo”.

Per intenderci, il vino era un eccezionale Barolo del 2008. Tirò avanti con questa manfrina dell’assaggiarlo e di fare le smorfie di disgusto per un’ora buona, finché mia nonna, incazzata stavolta, gli concesse di andare a prendere l’amico fiaschetto dalla Panda. Non c’era ormai da stupirsi. Nemmeno degli effetti di quel vino. Puntualmente il nonno era k.o. con due bicchieri e soffiava bordate di etilene da galleria del vento. Mi faceva ridere il pensiero (tutto mio) che lui dicesse “il mio obiettivo è stordirmi”. Chiaro, non lo ha mai detto, ma io talvolta me lo immaginavo giovane come me, che diceva questa frase disinvolto e corsaro, al matrimonio di mia cugina o al battesimo del figlio della vicina. Mi faceva ridere tantissimo.

Comunque, rimase fedele al suo vino sempre. Perché, sosteneva, lo aveva fatto lui e solo lui sapeva come lo aveva fatto. Difatti noi ce lo chiedevamo come diavolo lo avesse fatto. Una volta, sarà stato un Santo Stefano, eravamo tutti a casa sua e la nonna aveva invitato anche una sua cugina zitella. Fu colpa sua, o forse nostra perché non l’avevamo avvisata. Il fatto fu che mio nonno le offrì il suo vino. E lei, dannazione, lo assaggiò. “Mmm” fece passandosi la lingua sulle labbra come se avesse leccato un limone “scusa se te lo dico, compare Raffaele, ma preferisco quello di Michelino”.

Lo zio Michelino era il fratello di mio nonno. Erano due mondi lontani, che raramente si facevano visita, nonostante abitassero accanto. Ma soprattutto erano educatamente nemici da quarant’anni, da quando avevano litigato per un pezzo di terra da dividersi. E si sa, con la vecchiaia certi dissapori si incancreniscono invece che scemare. Perciò, non potendo fare di peggio, si sfidavano a chi aveva l’orto più bello.

Immaginarsi quale putiferio scatenò quella sventurata. Il povero nonno ribolliva. Noi tutti restammo a bocca aperta,  come paralizzati, chi smettendo di masticare e chi rimanendo con la forchetta a mezz’aria. Sapevamo che le avrebbe risposto per le rime, e sapevamo in fondo che era giusto così. Perché ormai, anche per noi dopo tanti anni, il suo vino era il migliore di tutti. Sulla fiducia. E quando il nonno parlò, poco ci mancò che tutti applaudissimo.

“Ma cosa ne sai tu!!!” urlò “il mio vino è il migliore! E lo sai perché? Eh, lo sai perché? No che non lo sai il perché. Perché è come lo vuole la natura. E io non mi permetto a cambiarla, come invece fa Michelino che mette le medicine nel vino!”.

Quel giorno il nonno non mangiò più e non proferì più parola.

Mi manca mio nonno, soprattutto quando cammino nel suo giardino. E oggi ho come l’impressione che avesse sempre avuto ragione. Solo gli mancava la tecnica.


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