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La Venere di Urbino e Olympia a confronto

Creato il 21 agosto 2015 da Valeria Vite @Valivi92

Questo mese confronteremo due opere che sono state icone di erotismo e sensualità femminile per secoli: la Venere di Urbino di Tiziano Vecellio e Olympia di Manet.

La Venere di Urbino è conservata agli Uffizi di Firenze, presso la sala 83 di Tiziano, ed è stata ultimata nel 1538 per il Duca di Urbino Guidobaldo II Della Rovere. Tiziano Vecellio si è ispirato alla Venere dormiente dell’amico e maestro Giorgione, realizzata nel 1510; sembra che Tiziano stesso abbia portato a termine l’opera al posto del maestro.

La Venere di Urbino e Olympia a confronto

L’opera rappresenta una giovane donna nuda distesa su un letto che osserva provocatoriamente lo spettatore e nasconde il proprio pube con una mano, mentre stringe nell’altra dei fiori; indossa un prezioso bracciale ed un anello nero, il colore chiaro della sua pelle e delle lenzuola sono in contrasto con le tinte scure circostanti. Ai piedi della donna dorme un cagnolino mentre alle sue spalle, oltre una parete con un panneggio verde che divide in due il quadro e pone in risalto il pube di Venere, si intravedono inoltre due ancelle che cercano in alcune cassapanche dei vestiti per la signora; oltre una finestra con una colonna di marmo si trovano una pianta in un vaso e un mirto.

Fatta eccezione per la nudità, dulla nella bella e seducente castellana rinascimentale ricorda la dea Venere: soprannominare col nome della dea dell’amore i propri soggetti era un espediente adottato dagli artisti per giustificare la rappresentazione di scene erotiche.

Il dipinto è un’allegoria del matrimonio e doveva insegnare le virtù di una brava moglie a Giulia Varano, la consorte quattordicenne del duca. L’erotismo del soggetto rappresentato avrebbe dovuto ricordare alla giovane i suoi doveri coniugali mentre il cagnolino, simbolo di fedeltà, avvisava alla sposa che avrebbe dovuto riservare tali favori solo al proprio marito. Anche i fiori che Venere stringe in una mano hanno un significato, infatti rammentano che la bellezza è destinata ad appassire; la serva che osserva la bambina frugare nella cassapanca è invece un augurio di maternità. La pianta di mirto, sacra a Venere, è simbolo di verginità e purezza e veniva utilizzata dai romani per adornare i capi delle spose.

Abbiamo scoperto online un’interessante analisi dell’opera di Jozef Grabski che non propone l’interpretazione tradizionale che tutti conosciamo, il link è il seguente: http://www.repubblica.it/repubblicarts/venere/testo_ita.html .

La Venere di questo dipinto divenne un’icona di bellezza del Rinascimento e fu considerata un capolavoro per secoli. Trecento anni più tardi venne proposta una nuova Venere, più spregiudicata e provocatoria, ma soprattutto coerente con la rivoluzione artistica di quel periodo storico.

La Venere di Urbino e Olympia a confronto

Nel 1863 Edouard Manet riprende in Olympia il soggetto della Venere di Urbino, reinterpretandolo con lo stile provocatorio e rivoluzionario che caratterizza Colazione sull’erba (terminato pochi mesi prima) e citando La Maja Desnuda di Goya. L’opera è stata realizzata in sole tre sedute.

Olympia è sdraiata nella medesima posizione di Venere: il capo, con gli occhi che incontrano sfacciatamente quelli dello spettatore, è alla sinistra della tela e i piedi sono a destra; con una mano la donna nasconde il proprio pube e con l’altra afferra il lenzuolo su cui giace (la Venere di Tiziano stringeva invece dei fiori). Alle sue spalle una parete con un tendaggio verde divide a metà il dipinto. Olympia tuttavia non è una nobildonna, ma una prostituta sdraiata nella camera in cui lavora: ce lo rivelano il nome tipico delle etere che l’artista ha scelto per lei, la posa comune nelle fotografie pornografiche dell’epoca, la cameriera nera che le porge i fiori di un ammiratore e sostituisce le ancelle della Venere di Urbino e il gatto con la coda tesa che simboleggia la vita sregolata della donna (ma anche la libertà e l’emancipazione che le donne iniziavano ad acquisire in quegli anni) che è in contrasto con il cagnolino addormentato. Manet sfida inoltre le convenzioni dell’epoca rappresentando una donna che, pur essendo molto sensuale, non è bellissima come la Venere di Urbino, ma è troppo magra per i canoni dell’epoca: si tratta della modella Victorine Meurent, presente anche in Colazione sull’erba.

La modernità dell’opera non è dovuta solo al tema: il mazzo di fiori offerto dalla cameriera di colore è stato infatti realizzato con una tecnica impressionista in quanto è costituito da macchie indefinite di colore, realizzate con pennellate rapide e piccole, perciò assume un aspetto realistico solamente se viene osservato da lontano. L’opera è stata realizzata mediante il contrasto tra tinte chiare e scure, tra colori caldi e freddi. Le forme sono tondeggianti ed appiattite a causa dei colori e dei contorni scuri che richiamano l’arte giapponese.

Il dipinto venne presentato alla manifestazione del Salon del 1865: la perplessità del pubblico per la volgarità del tema fu tale che gli operatori della mostra ritennero opportuno spostare il dipinto in un punto più alto per evitare che venisse ammirato con attenzione. Manet rimase profondamente ferito da tali critiche negative ricevute, di seguito sono riportate quelle più significative, di cui abbiamo azzardato una traduzione.

La vue de cette toile défierait la mélancolie la plus intense, la douleur la plus exaltée; il faut rire en la regardant…” (La vista di questo dipinto sfiderebbe la malinconia più intensa, il dolore più esaltato; fa ridere, guardandolo) Leroy.
Je dois dire que le còte grotesque de son exposition tient a deux causes: d’abord à une ignorance presque enfantine des premiers elements du dessin, ensuite, a un parti pris de vulgarité inconcevable” (Devo dire che il lato grottesco della sua mostra ha due cause: in primo luogo in un’ignoranza quasi infantile dei primi elementi del disegno, quindi un pregiudizio volgare inconcepibile) (Chesneau, “CL” 1865).
lci. il n’y a rien, nous sommes fachés de le dire, que la volonté d’attirer les regards a tout prix” (non c’è nulla, ci dispiace dire, oltre che il desiderio di attirare l’attenzione a tutti i costi) (Gautier. “MU” 1865).
Infinela celebre critica di Paul de Saint-Victor (“PR” 1865): “La foule se presse comme a la Morgue devant l’Olympia faisandée de M. Manet. L’art descendu si bas ne mérite pas qu’on le blame” (La folla si raduna come alla camera mortuaria davanti all’Olympia di Monsieur Manet. L’arte scesa così in basso non merita la colpa.

Ferito nel profondo, Manet sfoga le proprie frustrazioni in una lettera indirizzata all’amico Baudelaire, che gli risponde con severi rimproveri per spronarlo ad avere coraggio seguendo l’esempio di altri pittori che non sono stati accolti positivamente nell’immediato dalla critica. Qualche giorno dopo, Baudelaire scriverà a Champfleury: “Manet a un fort talent, un talent qui resisterà. Mais il a un caractère faible. Il me parait désolé et étourdi du choc- Ce qui me frappe aussi, c’est la joie des imbéciles qui le eroient perdu” (Manet ha un forte talento, un talento che resisterà. Ma ha un carattere debole. Sembrava dispiaciuto e stordito dallo shock – Ciò che mi colpisce anche, è la gioia degli imbecilli che lo credono perso).

Alla morte di Manet l’opera fu messa all’asta ma nessuno la comprò. Nel 1889 fu esposta al Palais de Beaux-Art dell’Exposition Universelle e attirò l’attenzione di un collezionista d’arte americano, ma gli impressionisti volevano esporla al Louvre. Il pittore Sargent avvertì Monet, che organizzò una sottoscrizione affinché l’opera fosse destinata allo stato. L’iniziativa ebbe successo e l’opera fu esposta al Musée du Luxembourg, per essere esposta al Louvre solamente dopo il 1907. Oggi è possibile ammirare il dipinto presso il Museo d’Orsay.

Fonti

Questo  articolo verrà pubblicato in “Are you art?”  N.7 (Settembre 2015)


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