Magazine Diario personale

Manowar – “Battle Hymns”

Da Giacomo @giacomogbianco

Battle Hymns, 1982Tempo libero. Finalmente ho del tempo libero per fare ciò che mai avevo osato prima: recensire un’intera discografia dall’inizio alla fine. Fantastico, dico io. Ma ne sono davvero sicuro? No perché si tratta di un bel lavorone, di un certo spessore, non di certo come fare una recensione ogni tanto.

Io dico però che ne sono sicuro, anche perché recensirò i Manowar. Sì, proprio loro, il gruppo della (mia) vita, assieme ai Maiden. Anzi, dico fermamente che gli Iron Maiden sono stati il gruppo che mi ha iniziato al metal, come moltisssimi altri ragazzi. Eppure i Manowar, forse per la loro presenza, forse per quella cafonaggine tanto criticata, sono stati coloro i quali mi hanno spiegato cosa voglia dire essere metallari. E’ inutile girarci attorno: loro sono il metal ed il metal se si potrebbe personificare sceglierebbe i Manowar. Perché? Perché è facile: loro scrivono metal puro ed incondizionato dalle mode passeggere, perché loro hanno l’attitudine tanto celebrata del “drink, rock & fuck” e non per ultimo perché loro vivono per il metal. Sì, direte voi, tanta gente vive grazie al metal. Ma qua il discorso è diverso, qua si tratta che DeMaio&soci vivono non grazie, ma PER il metal. Qualsiasi aspetto della loro vita pubblica è costantemente permeato dall’alone dei true defenders, che solo in pochi anno. Chi non vorrebbe essere al loro posto? A capo di una delle band più fottute del pianeta, in cima al mondo solamente a suonare, stare in compagnia con i brothers of metal e andando in moto per le strade del mondo. Fantastico.

Eppure questo atteggiamento è solo possibile per i grandi. Eh già, mica puoi permetterti di suonare in un pub qualsiasi e poi sbrodolare le prime file a colpi di Moët et Chandon riserva, senza scialacquarsi quanto parsimoniosamente risparmiato, oppure far salire la prima tipa tettona che ti capita a tiro, sollevarla e limonarla in posa da guerriero post-ragnarok senza che lei, minimo, ti denunci per molestie.

I Manowar, insomma, sono anche (e forse soprattutto questo): tanta musica, heavy metal, dal più lento e cazzuto a quello prettamente più speedeggiante, ma anche tantissima quanto sana attitudine.

Lascio perdere i cenni biografici, wikipedia esiste per quello, no?

Bando alle ciance, diamo fiato alle trombe perché iniziamo con la recensione vera e propria di Battle Hymns, album d’esordio della band, che si apre con Death Tone, grande canzone che mette in chiaro i canoni del combo di Auburn. Il basso distorto di DeMaio è qualcosa che significa amore a prima vista. Non possono piacerti i Manowar se non ti piace un basso distorto, sempre presente, sopra la chitarra, cazzuto alla morte. Bene, Joey è tutto questo. Ecco che le linee dei versi così come il ritornello sono sovrastati dalla sua potenza bassistica allucinante. Le chitarre di Ross the Boss fanno il loro valido lavoro (specie nei pregevoli soli chitarristici, decisamente hard ‘n’ heavy in questo album). La batteria di Donnie Hamzik è l’unica a pagare un po’ dazio per una produzione non all’altezza, ma solo per quanto riguarda lo strumento in questione: infatti gli altri se la cavano alla grande, ma la batteria soffre un po’ della sindrome della batteria chicco, quella che suona un po’ alla cazzo, perché i suoni sono un po’ debolucci. A dire la verità, però, a me piace comunque un sacco. Sarà perché un po’ vintage, ma è davvero speciale. Menzione a parte per la voce: Eric Adams si presenta come uno dei migliori singer in ambito classic metal, sia per estensione che potenza. Non appena conclusa la prima traccia ecco Metal Daze, autentico inno dell’heavy metal che, con il suo incipit, mette in musica la loro concezione di rock duro:

I hear the sound
In a metal way 
I feel the power 
Rolling off the stage 
Cause only one thing 
Really sets me free 
Heavy Metal 
Loud as it can be

Più chiaro di così si rischia la morte. Pompanti i versi, intrigante il bridge, bell’assolo e chorus davvero catchy. Fantastica canzone, che trova nel live una dimensione difficilmente replicabile.
Entriamo così nella parte centrale dell’album con Fast Taker, una delle canzoni che, se vogliamo proprio trovare un difetto, può risultare tra le meno belle. Ma porca miseria, questo è un grandissimo album nonché godibilissimo e quindi anche Fast Taker si pone come un sano heavy metal, delimitato da un basso roboante quanto da un chorus che ti entra subito in testa. Il riffing dei versi è pur sempre molto valido. Tuttavia, a pensare al brano in questione ed al successivo mi sorge un po’ l’impressione che siano due brani “poco pubblicizzati” dalla band stessa. Si arriva così a Shell Shock, altro onesto lavoro metal, con un verso un attimino più calmo e meno rumoroso del solito, che probabilmente lo pone come l’episodio meno riuscito dell’album. Onesto, come ho già detto, ma nulla più. Siamo però sempre su livelli molto alti.
La musica cambia col seguente, cazzutissimo, manifesto della band. L’omonima Manowar è semplicemente un inno, dove loro, sin dal lontano 1982, già decantavano i loro futuri successi, sicuri di raggiungere qualsiasi obiettivo potessero porsi. L’inizio è da capogiro, da presa sulle folle che scapocciano senza sosta, il riff del verso è sparato e martellante, il bridge è armonioso, fantastico, con una soluzione melodica molto carina. Il ritornello, inutile a dirsi, è un anthem spaccaculi, perché loro sono La band. Solo di chitarra bellissimo, da lacrime l’ultima parte dello stesso. Canzone che si chiude in modo incommensurabile, epico e patriottico (anche se l’inno americano è un tantino distorto). Da sola vale l’acquisto dell’album. Ma piano a cantare al miracolo. Ci sono altre tracce da ricordare, per Giove!

Il successivo brano è Dark Avenger, nel quale troviamo la collaborazione del grande Orson Welles, attore/regista/sceneggiatore americano che stabilì con i Manowar una serie di interessanti collaborazioni. Dark Avenger è certamente un brano diverso da cosa ascoltato fino ad ora. In questa canzone si possono scoprire i primi vagiti di quell’epic metal che tanto sarà celebrato con i futuri lavori del combo statunitense. I ritmi infatti si fanno decisamente meno veloci, ma più cadenzati, quasi da marcia militare, con la voce narrante di Welles a conferire solennità nell’intermezzo del brano. Anche il minutaggio sembra risentirne del cambiamento, ma non abbiamo ancora finito di apprezzare la variazione ritmica che la canzone ci riporta su lidi decisamente speed metal, con la batteria sparata che sorregge basso e chitarra arrembanti. Adams sfiora vette mai toccate, la sua voce si sforza, urla a più non posso ma riesce sempre e comunque a mantenere l’intonazione.

Il brano dopo è un topos dei Manowar: l’assolo di basso. Piccola – e doverosa – nota: dei Manowar sovente si critica l’egocentrismo di DeMaio, così come i suoi assoli di basso. Ok, alla lunga si può sfociare nella noia, ma considerando la canzone in questione, tutto si può dire tranne che susciti noia. William’s Tale è uno dei più bei assoli di Joey, realizzato con un piccolo bass senza distorsione, pulito e limpido nel suono, giusto un po’ di riverbero a dare più profondità alle note.

Chiudiamo l’album con Battle Hymn, la canzone che da il nome all’album. Non ho voglia di scrivere molto a riguardo. La canzone è senza senso, stupenda. La loro composizione più riuscita, epica allo sfinimento, potente ma anche toccante e melodica. Se mi chiedono “fammi un esempio di epic metal” dico semplicemente Battle Hymn. Dall’intro realizzata col basso a 8 corde, agli stacchi imponenti ed epici, passando per il verso cavalleresco, arrivando al ritornello semplicemente spiazzante, in quanto a decisione e potenza. L’intramezzo è solo il preludio ad uno degli assoli di chitarra più riusciti dei Manowar. Semplicemente deliziosa. Scusatemi se mi ripeto, ma la canzone per me rappresenta la summa dell’epic metal.

Battle Hymns è l’album d’esordio dei Manowar. Tuttavia non si può dire che pecchi di inesperienza, perché sapevano già tutti fin troppo come comportarsi. Di bello c’è la varietà degli stili musicali: se all’inizio a prevalere è l’heavy metal classico (da Death Tone a Shell Shock), è poi l’epic metal a salire in cattedra, prima a poco a poco (Manowar), poi sempre di più (Dark Avenger, Battle Hymn). Sarà proprio dalle basi più epiche che partiranno i futuri lavori di questa grandissima band.

Molto bello, consigliatissimo a chiunque ascolti rock duro.

PS: Faccio notare che nel novembre 2010 è stata fatta uscire una nuova versione riregistrata dell’album (con una produzione nettamente più moderna), denominata Battle Hymns MMXI.

Tracklist:

  1. Death Tone – 4:48
  2. Metal Daze – 4:18
  3. Fast Taker – 3:56
  4. Shell Shock – 4:04
  5. Manowar – 3:35
  6. Dark Avenger – 6:20
  7. William’s Tale – 1:52
  8. Battle Hymn – 6:55

Voto:

4-stelle-e-mezza



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