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UE: sicurezza, terrorismo e le sfide del sistema Schengen

Creato il 21 aprile 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Claudio Giovannico

In seguito agli attentati di Parigi dello scorso 7 gennaio, temi controversi quali la libertà di espressione, il rapporto con l’Islam, la validità dei modelli di integrazione culturale e il mantenimento della sicurezza sono nuovamente tornati al centro del dibattito pubblico europeo, ponendo interrogativi su quali politiche adottare al fine di rispondere alla minaccia terroristica. Il dibattito in proposito si sta attualmente concentrando sulle modifiche a “Schengen” e ai relativi meccanismi di raccolta dati – il Sistema Informativo (SIS) e l’adozione di un Passenger Name Record (PNR). Entrambi gli aspetti non possono tuttavia non tener conto del quadro di cooperazione in materia di affari interni e giustizia in essere.

L’accordo di Schengen, del quale il prossimo 14 luglio ricorrerà il trentennale [1], permise l’abolizione di controlli sistematici alla frontiera, i quali rallentavano la mobilità, tra Paesi confinanti e interdipendenti. L’abbattimento delle frontiere interne altro non rappresentava che la materiale attuazione del principio di libera circolazione e stabilimento dei cittadini dell’UE, in ossequio al processo di integrazione europea, il quale trovò definitivo compimento, nel 1999, con l’inserimento dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione, per mezzo del Trattato di Amsterdam.

Tale processo, rivolto all’affermazione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG) trova fondamento normativo nel TUE, così come rivisto dopo il Trattato di Lisbona [2]. Lo spazio comune europeo, nato dall’esigenza politica di raggiungere la pace fra gli Stati sovrani, dopo il secondo conflitto mondiale, inizia il proprio percorso di formazione con la istituzione del mercato unico. Tale mercato comune segna, a tutti gli effetti, l’avvio per la costruzione di un primo abbozzo di “spazio pubblico comune”, in grado di superare le rigidità delle frontiere statali. Ciò prendeva le mosse dalla convinzione secondo cui, nella creazione di uno spazio comune chiamato “mercato” vi fosse molto di più di un mero scambio di merci. L’intento che ne stava alla base era la realizzazione di relazioni fra persone e ordinamenti giuridici, non più rigidamente confinati in una impermeabilità dello Stato territoriale. La realizzazione dello SLSG, sorto proprio con l’intento di superare la frammentazione in materia di “cooperazione nel settore della giustizia e affari interni”, finisce, inevitabilmente, per scontrarsi con problemi di sicurezza interna e di immigrazione, quest’ultima, nel frattempo, divenuta, dopo il Trattato di Amsterdam, materia comunitaria. In particolare, dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 e quelli di Madrid (2004) e Londra (2005), le tematiche della gestione delle frontiere, del controllo dell’immigrazione e della lotta al terrorismo, risultano fortemente collegate tra loro, al punto che le relative policy vengono considerate parti di uno stesso problema espresso nella formula della c.d. border security. Tuttavia, per quanto ambiziosa, questa strategia scontava il dualismo della governance interna dell’Unione che vede alcune politiche gestite nel quadro comunitario (immigrazione e gestione frontiere) ed altre in quello intergovernativo (pubblica sicurezza), con tutte le problematiche e i limiti che ne derivavano. Sebbene con il Trattato di Lisbona si ottenga la soppressione dei regimi differenziati di decisione, i c.d. pilastri, e, pertanto, la generalizzazione del metodo comunitario, permangono forti criticità nella gestione di queste politiche a causa delle resistenze degli Stati nel cedere l’esercizio della propria sovranità in ambiti ove l’interesse nazionale non sempre coincide con quello degli altri Stati europei. Il tema della sicurezza infatti resta in parte ancora sotto il controllo delle sovranità nazionali e tende ad impegnare quello che si può definire “ordine pubblico europeo”, in riferimento ai problemi inerenti ai rapporti fra i diversi ordinamenti degli Stati membri.

All’interno di tale complesso quadro istituzionale, l’input all’agenda europea sulle misure anti-terrorismo da adottare in risposta agli attacchi di Parigi, arriva dal “Riga Joint Statement” [3], prodotto in occasione del meeting informale dei Ministri di Giustizia e degli Affari Interni dello scorso 29 gennaio, il quale, nel tracciare le priorità delle politiche anti-terrorismo, avanza le proposte relative all’implementazione e consolidamento di sistemi informativi tecnologici di identificazione di soggetti, cittadini europei e non, basati sulla raccolta di dati conservati e trattati in banche dati, in un più ampio quadro di rafforzamento delle attività della cooperazione intergovernativa in materia di sicurezza.

La gestione integrata delle frontiere [4]

Sull’onda emotiva di quanto accaduto in Francia, la possibilità di ripristinare nell’immediato il controllo delle frontiere interne è sembrata essere la strada più facilmente e concretamente percorribile da parte dei singoli Stati membri dell’UE. Tale condotta è, d’altro canto, espressamente prevista dallo stesso sistema di Schengen, così come recentemente modificato dal Regolamento (UE) n. 1051/2013 [5].

Invero, durante questi trent’anni, si sono già verificati casi di sospensione degli accordi di Schengen. Basti pensare alla Norvegia che, dopo i fatti di Oslo del 2011, sospese per 7 giorni, nel luglio del medesimo anno, l’applicazione dell’accordo di Schengen. Lo stesso fu fatto in Italia, per ben due volte: entrambi i casi in corrispondenza dei G8, di Genova nel 2001, e dell’Aquila nel 2009.

Tuttavia, ripristinare i controlli lungo le frontiere interne potrebbe avere l’effetto di vanificare quel criterio di affidamento, alla base del principio di solidarietà [6], che incide nell’ambito della corretta gestione integrata delle frontiere, attraverso l’obbligo per gli Stati membri di condividere le responsabilità e i costi delle politiche comuni, tra cui la stessa cooperazione di Schengen.

Il rischio è che, dietro al dibattito relativo a Schengen, avanzato da buona parte dei Paesi del nord Europa, si possa celare l’intenzione di rivedere l’intera politica di cooperazione europea sull’immigrazione, in modo tale da impedire che chi entra via mare nei Paesi mediterranei, come Italia e Spagna, possa poi raggiungere altri Stati. È quanto ribadito più volte dall’Austria, la quale ha già minacciato la sospensione temporanea di Schengen, con maggiori controlli alla frontiera con l’Italia.

Dallo stesso Riga Joint Statement è giunta la considerazione per cui ulteriori lavori dovrebbero basarsi su strumenti comunitari esistenti accelerando e amplificando la loro attuazione, e presentare nuove iniziative per aumentare la loro efficacia. Anziché proporre la sospensione o revisione degli accordi, sarebbe, probabilmente, più opportuno pensare a come adeguarli alle nuove esigenze, rafforzando gli strumenti di controllo delle frontiere esterne e di collaborazione tra gli Stati.

Il Sistema di Informazione Schengen (SIS e SIS II)

Il superamento delle frontiere fisiche all’interno dell’Unione Europea, quale effetto degli accordi di Schengen, ha avuto come conseguenza la creazione di sistemi di controllo di tipo tecnologico rappresentati da database a larga scala con scopi identificatori.

Con la Convenzione di Implementazione di Schengen [7] del 1990 venne previsto, quale misura complementare e compensatrice all’abbattimento delle frontiere interne, il SIS (Sistema di Informazione Schengen), per mezzo del quale poter condividere le informazioni tra le autorità dei Paesi aderenti in merito a persone [8] ed oggetti segnalati [9]. Il SIS rientra, pertanto, all’interno di quei sistemi di scambio delle informazioni che avviene tra Paesi membri e Istituzioni europee, e consiste in un database centrale raccordato a punti nazionali [10]. Esso è la misura sulla quale si basa il principio di libertà di movimento e rappresenta una vera e propria pietra angolare [11] della strategia di sicurezza interna all’UE per la gestione dei fenomeni migratori.

Tale network di informazioni costituisce, dunque, uno dei principali strumenti utilizzati per garantire le varie policy sottese all’attuazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, per mezzo di strumenti e canali di scambio di dati e informazioni tra le competenti autorità statuali ed europee.

Così come era stato originariamente inteso, il SIS ospitava prevalentemente informazioni di carattere alfanumerico. A tali dati potevano accedere, nei limiti delle proprie aree di competenza, le autorità di polizia, le autorità di  controllo  alle  frontiere,  le  autorità  doganali  e  le autorità giudiziarie nei procedimenti penali. Le interrogazioni alla banca dati SIS funzionano secondo un sistema denominato “hit/no hit”; si ottiene un “hit”, cioè una segnalazione  positiva,  quando le indicazioni relative ad  una persona od oggetto corrispondono a quelle di una segnalazione esistente. Ottenuto un “hit” positivo le autorità competenti possono rivolgersi, per ottenere informazioni supplementari, agli uffici della rete SIRENE (Supplementary Information Request at the National Entry), strumento ausiliario del SIS costituito da rappresentanti delle forze di polizia nazionali e locali, di frontiera e forze di polizia giudiziaria.

In seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre del 2001, e di quelli più recenti di Madrid e Londra, ragioni di politica della sicurezza hanno condotto ad un’evoluzione del sistema SIS, da strumento finalizzato a semplice border control, a ciò che è stato definito un vero e proprio reporting and investigative system [12], pensato all’interno di un’ottica di rafforzamento della procedura di scambio delle informazioni nella lotta al terrorismo [13]. Tale ampliamento (i più critici parlano di distorsione) delle originarie funzioni attribuite al SIS, è stato definito dalla dottrina nell’ambito della teoria della function creep, per cui le finalità relative all’utilizzo dei dati superano quelle originariamente previste. Lo scopo generale del SIS II viene ora definito in senso più ampio: “assicurare un elevato livello di sicurezza nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, dell’Unione Europea, incluso il mantenimento della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico e della salvaguardia della sicurezza nel territorio degli Stati membri e applicare le disposizioni della parte terza, titolo IV, del trattato CE relativo alla circolazione delle persone in detto territorio avvalendosi delle informazioni trasmesse tramite tale sistema” (art. 1, co.2, dec. 533/2007).

Con Regolamento CE n. 1987/2006 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20.12.2006 e successiva decisione 2007/533/GAI del Consiglio del 12.06.2007 viene istituito il sistema d’informazione Schengen di seconda generazione, il SIS II. Sebbene non sia ancora operativo [14], esso pone alcuni interrogativi in merito ai profili di protezione dei dati personali di coloro i quali sono soggetti ai controlli [15] e, in particolare, circa i relativi strumenti di tutela.

Un sistema che colleziona le informazioni sensibili dei singoli individui, inclusi dati biometrici [16] (es. DNA, impronte digitali, scansione dell’iride), alimenta dubbi, non solo in merito alla privacy degli stessi, ma ne avanza altri in ordine a questioni di trasparenza e sicurezza. C’è il rischio che una simile rete di dati, per quanto segreta, resti comunque esposta ad illecite attività di furto o vendita dei dati stessi. Risulta evidente, invero, l’interesse che una organizzazione criminale può nutrire a riguardo. La protezione dei dati appare, dunque, non essere sufficientemente adeguata.

La stessa Convenzione di Schengen non prevede alcun riferimento alla protezione della privacy, così restando a tutela del cittadino le norme previste dai singoli ordinamenti nazionali. A questo si aggiunge l’ulteriore problema dei differenti gradi di tutela previsti dalle singole legislazioni nazionali, con il risultato paradossale che all’interno dell’area Schengen possono esistere cittadini più protetti di altri.

La proposta del PNR (Passenger Name Record)

Un altro esempio delle misure avanzate in ambito europeo, in risposta agli attacchi terroristici, è rappresentato da un sistema di PNR europeo che raccolga i dati di tutti i cittadini e residenti che viaggiano in aereo all’interno dell’Unione Europea.

A differenza del SIS, la proposta del Passenger Name Record (PNR), consiste nello scambio di informazioni effettuato tra Stati membri e privati, nel caso di specie compagnie aeree, nella trasmissione dei dati dei passeggeri dei voli internazionali. I dati PNR sono costituiti da tutte le informazioni che i passeggeri forniscono ai vettori aerei al momento della prenotazione e del check-in, a partire dai nominativi dei clienti, passando attraverso il metodo di pagamento prescelto, il tour operator consultato, le specifiche del bagaglio, dell’itinerario e dei dati di volo e dei biglietti, nonché estremi di contatto e numero di posto.

Il Parlamento Europeo in passato si è fermamente opposto alla proposta di una direttiva in materia, producendo nel novembre del 2008 una Risoluzione critica relativa alla bozza di decisone-quadro sull’uso del PNR avanzata dalla Commissione, in quanto vi intravedeva un’infrazione della privacy dei cittadini, in mancanza di vantaggi concreti dal punto di vista della prevenzione di atti terroristici. Tuttavia, le resistenze starebbero progressivamente diminuendo.

Recentemente la Commissione europea si è impegnata nella modifica della precedente proposta avanzata sul PNR al fine di raggiungere un accordo in Parlamento. I punti controversi ruotano, principalmente, attorno alla riduzione del periodo massimo di conservazione dei dati, la determinazione di limiti più rigidi per potervi accedere, la dichiarazione esplicita dei diritti dei passeggeri di conoscere e controllare le informazioni sul proprio conto. Con una Risoluzione approvata a larga maggioranza, il Parlamento europeo, riunito a Strasburgo nella giornata dell’11 febbraio 2015, si è dichiarato disponibile a trattare sul sistema europeo di raccolta dati dei passeggeri aerei, purché non ne leda i diritti e la privacy.

Ciononostante permangono forti i dubbi a riguardo, poiché la raccolta dei dati dei passeggeri mal si concilierebbe con l’esistente normativa sul salvataggio dei dati e con la pronuncia della Corte di Giustizia del 30 maggio 2006 [17]: questa si esprimeva negativamente in merito al sistema del PNR, abrogando gli accordi sul trasferimento di dati personali di passeggeri aerei, ivi compresi i dati dei passaporti biometrici (PNR) tra Commissione europea e il Bureau of Customs and Border Protection degli Stati Uniti. La sentenza ha riguardato due casi che hanno visto opposti il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea (Caso C-317/04) e il Parlamento Europeo e la Commissione europea (Caso C-318/04). In entrambi i casi la Corte ha dato ragione al Parlamento Europeo ed ha cancellato gli accordi in essere.

In particolare, è la diffusione dell’uso della biometria ad aver sollevato numerose obiezioni e preoccupazioni. Le principali riguardano l’intrusività di questi sistemi e il rischio che la creazione di grandi banche dati biometriche possa costituire una minaccia per la privacy. Un simile utilizzo di tali informazioni potrebbe condurre all’identificazione di un individuo come “pericoloso” sulla base di meri profili comportamentali o di caratteristiche fisiche e/o psicologiche.

Parlamento e Corte di Giustizia hanno espresso, inoltre, ulteriori preoccupazioni in ordine alla conformità di tali misure di raccolta dati rispetto al principio di proporzionalità, secondo cui tale misura sarebbe legittima solo laddove il grado di identificazione risultasse proporzionato agli scopi dell’applicazione e alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. Inoltre, l’uso eccessivo di sistemi di sorveglianza e monitoraggio su larga scala di cittadini europei rischia di violare le regole di Schengen e, pertanto, lo stesso principio di libertà di movimento che ne sta alla base.

Infine, è doverosa un’osservazione in merito alla rilevanza dei “viaggi” e degli “spostamenti”, i quali non sembrano assumere grande peso all’interno delle strategie di lotta al terrorismo laddove si vada a considerare che gli stessi autori degli attentati di Parigi erano presenti sul territorio francese, in maniera stabile, già da anni e che gli stessi erano ben noti alle autorità di sicurezza di alcuni Stati membri, compresa la stessa Francia, e degli Stati Uniti. Di conseguenza, appare poco chiaro come ulteriori informazioni sui viaggiatori e sui loro spostamenti avrebbero potuto evitare gli attentati di Parigi e potrebbero prevenire futuri attacchi [18].

Verso un servizio di intelligence europeo?

Un ulteriore argomento di discussione, seguito agli eventi di Parigi, riguarda i servizi di intelligence. Numerose sono state soprattutto le critiche avanzate nei confronti del meccanismo di scambio delle informazioni di intelligence, giudicato, e di fatto dimostratosi, carente nell’opera di prevenzione e di reazione alla situazione di emergenza.

Attualmente, ogni servizio di intelligence nazionale agisce, di fatto, indipendentemente, e a volte con sospetto verso i servizi dei Paesi alleati. Eppure, i recenti avvenimenti hanno evidenziato i limiti del coordinamento attuale fra le forze di polizia e di intelligence dei diversi Paesi membri dell’UE, ponendo nuovamente l’accento sull’importanza di rafforzare la cooperazione in materia. Ancora oggi, la “EU Intelligence Community”, che dovrebbe essere il Centro di incontro e fusione degli Agenti d’Intelligence presenti a Bruxelles, rimane un’entità informale, in quanto la “National security” resta competenza esclusiva degli Stati membri.

Precedentemente noto come SITCEN (EU SITuation CENter), l’attuale centro di analisi d’intelligence europeo (EU INTCEN) [19], sebbene rappresenti la più importante fonte di intelligence dell’UE, mostra, tuttavia, evidenti limiti nel processo di raccolta dati che non consentono di classificarlo, a tutti gli effetti, quale “centro di intelligence”. Nello specifico, l’attività svolta è connotata da una carenza di autonomia e dall’impossibilità di procedere alla raccolta diretta delle informazioni.

Gli ostacoli da superare, in vista della realizzazione di un’agenzia di intelligence europea, sono, principalmente, due. Innanzitutto, da un punto di vista strettamente tecnico-giuridico, si dovrebbe procedere con una modifica dei Trattati, i quali, attualmente, prevedono che la sicurezza nazionale nel complesso, e pertanto l’attività di intelligence, sia di competenza esclusiva degli Stati membri. Ciò, dovrebbe, altresì, essere accompagnato da un superamento delle resistenze che gli stessi Stati nazionali conservano in merito all’interscambio di informazioni di intelligence. Il primo obiettivo da raggiungere, dunque, nel processo di consolidamento delle attività di collaborazione, è l’abbattimento della barriera rappresentata dalla sfiducia derivante dai diversi interessi politici tra gli Stati.

All’interno di un simile quadro, appare evidente che sistemi di raccolta dati, quali il SIS o il PNR, per quanto utili ed efficaci, non saranno sufficienti ad arrestare un fenomeno complesso come quello del terrorismo internazionale nella misura in cui non verranno inclusi all’interno di un apparato sistemico di intelligence, di raccolta ed elaborazione dati e di cooperazione tra Istituzioni europee e Stati membri in tema di immigrazione, asilo e lotta al terrorismo e alla criminalità transfrontaliera.

“In un contesto normativo segnato dall’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ordinamento dell’Unione, il rafforzamento della cooperazione tra le autorità di intelligence degli Stati membri risponde alla duplice esigenza di garantire una gestione comune dei controlli delle frontiere esterne a fronte della soppressione di quelle interne, da un lato, e di contrastare efficacemente le potenzialità offensive del crimine transnazionale, alimentate anche dal suddetto abbattimento delle frontiere nazionali, dall’altro lato” [20].

Occorrerebbe, pertanto, privilegiare l’attività di individuazione e investigazione delle attività terroristiche e della criminalità transfrontaliera, nonché di cooperazione tra servizi preposti alla gestione delle frontiere. Questo potrebbe costituire non solo una valida fase iniziale di orientamento della cooperazione tra gli Stati membri, ma anche lanciare all’esterno un chiaro segnale di coesione, attraverso la realizzazione di una struttura comune, veloce ed efficace per comprendere le complesse mutazioni sociali e politiche, intercettare i nuovi fenomeni e prevederne i probabili, futuri sviluppi. 

* Claudio Giovannico è OPI Contributor

 

[1] Schengen è il nome della città Lussemburghese dove si è raggiunto l’omonimo Accordo. Ai Paesi firmatari (Lussemburgo, Belgio, Olanda, Francia e l’allora Germania Ovest) si aggiunsero, in seguito, le adesioni di Italia, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Spagna, Portogallo, Grecia, Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia, Slovacchia. L’accordo di adesione diede vita alla Convenzione di Schengen (Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen firmata il 19 giugno 1990), eseguita dal 1995. Successivamente, vi aderirono altri quattro Paesi fuori dall’UE: Norvegia, Islanda, Svizzera e Liechtenstein. Va, altresì, considerato che, in via indiretta, attraverso Francia e Italia, vi aderiscono, di fatto, anche il Principato di Monaco, San Marino e il Vaticano.

 [2] Ai sensi dell’art. 3, co.2 del TUE, nella versione consolidata dopo Lisbona, si afferma che: “L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima”.

[3] Fonte: https://eu2015.lv/images/Kalendars/IeM/2015_01_29_jointstatement_JHA.pdf

[4] Vale a dire: l’attività di controllo di frontiera (verifica e sorveglianza di frontiera); l’attività di individuazione e investigazione della criminalità transfrontaliera; l’applicazione di un modello di controllo dell’accesso articolato su quattro livelli; la cooperazione tra servizi preposti alla gestione delle frontiere e la cooperazione internazionale; il coordinamento e la coerenza (nell’ambito delle diverse attività o azioni) degli Stati membri, delle istituzioni e degli organi dell’Unione Europea.

[5] Cfr. art. 25 del Reg. UE n. 1051/2013 di modifica del Reg. CE n. 562/2006 al fine di introdurre norme comuni sul ripristino temporaneo del controllo di frontiera alle frontiere interne in circostanze eccezionali.

[6] Il terrorismo costituisce, infatti, motivo di attivazione della “clausola di solidarietà”, per l’assistenza di altri Stati membri con propri mezzi a disposizione. La clausola di solidarietà, introdotta dall’articolo 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), prevede la possibilità per l’Unione Europea e i suoi Stati membri di prestare assistenza a un altro Stato membro vittima di un attacco terroristico o di una calamità naturale o provocata dall’uomo. Prevista in origine dalla convenzione europea, essa è stata attuata anticipatamente in seguito agli attacchi terroristici di Madrid nel marzo 2004.

[7] Conosciuta anche come Secondo Accordo Schengen, è stata firmata il 19 giugno 1990 dagli stessi Stati firmatari il primo accordo di Schengen.

[8] Ai sensi della Convenzione di Schengen gli Stati membri potevano segnalare cinque categorie di persone: 1) persone ricercate per l’arresto ai fini di estradizione (art. 95); 2) cittadini di paesi terzi ai fini della non ammissione (art. 96); 3) persone scomparse (art. 97); 4) testimoni e persone citate a comparire dinnanzi all’autorità giudiziaria (art. 98); 5) persone sottoposte a monitoraggio in quanto costituenti minaccia per la sicurezza (art.99).

[9] Informativa su veicoli soggetti a monitoraggio straordinario per le loro caratteristiche di costituire una minaccia per la sicurezza pubblica o la sicurezza dello Stato, documenti ed armi da fuoco persi o rubati, banconote registrate.

[10] Il SIS è costituito da centri nazionali (N-SIS), presenti in ogni Stato membro dell’area Schengen, i quali inviano informazioni al sistema centrale (C-SIS), con sede a Strasburgo, che a sua volta riceve e trasmette le informazioni ricevute alle stazioni di polizia presenti alle frontiere dell’area Schengen.

[11] Joanna Parkin, The Schengen Information System and the EU Rule of Law, Inex Policy Brief No. 13, Giugno 2011, in www.ceps.eu, pag. 2 ss.

[12] Annaliese Baldaccini, Counter-terrorism and the EU Strategy for Border Security: Framing Suspects with Biometric Documents and Databases in European Journal of Migration and Law, 2008, pag.39.

[13] Regolamento del Consiglio n. 871/2004 del 29.04.2004 “relativo all’introduzione di alcune nuove funzioni del sistema d’informazione Schengen, compresa la lotta contro il terrorismo” e decisione del Consiglio 2005/211/GAI del 24.02.2005 “relativo all’introduzione di alcune nuove funzioni del Sistema d’informazione Schengen, anche nel quadro della lotta contro il terrorismo”.

[14] In tal senso Joanna Parkin, (The Schengen Information System and the EU Rule of Law, Inex Policy Brief No. 13, Giugno 2011, in www.ceps.eu, pag. 2), mostra come il SIS sia diventato sinonimo di politiche inefficienti: il progetto, risultato notevolmente fuori budget, è stato rallentato nell’attività dalle forti tensioni esistenti tra gli Stati membri e la Commissione.

[15] Ai sensi dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, “Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni”. Il successivo articolo 8 stabilisce che: “Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica.Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente”.

[16] In senso generale, il termine biometria indica un insieme di tecniche di ricerca e di logiche interpretative applicate ai più diversi campi di indagine scientifica su fenomeni quantitativi della vita. La biometria quindi comprende vari metodi di misurazione di caratteristiche legate alle proprietà anatomiche e di comportamento di un individuo.

[17] http://archivio.rivistaaic.it/cronache/giurisprudenza_comunitaria/diritti_passeggeri/index.html

[18] In tal senso, The EU Counter-Terrorism Policy Responses to the Attacks in Paris: Towards an EU Security and Liberty Agenda, CEPS Paper in Liberty and Security in Europe, n. 81/February 2015, pag. 12.

[19] L’EU INTCEN si occupa di intelligence “civile”, mentre la dimensione “militare” è affidata al Dipartimento di intelligence dello staff militare dell’Unione Europea, con il quale collabora secondo l’accordo funzionale Single Intelligence Analysis Capacity (SIAC), del 2007. L’attività dell’INTCEN prevede la raccolta e l’elaborazione delle informazioni che saranno poi utilizzate dall’Alto Rappresentante, dal SEAE (Servizio Europeo per l’Azione Esterna) e dalle Istituzioni europee interessate, e che verranno rese note a tutti i Ministeri degli esteri e i servizi di intelligence degli stati membri.

[20] Federico Decli – Gabriella Marando, Le banche dati dell’Unione europea istituite per finalità di sicurezza e giustizia in Cooperazione informativa e giustizia penale nell’Unione europea, a cura di Francesco Peroni – Mitja Gialuz, 2009, pag. 106.

Photo credits: Nicholas Belton

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