Magazine Horror

18. Racconto (fuori gara) "Il bene e il male"

Da Angivisal84


Jason
Di davide piazzese
Racconto (fuori gara) bene male
Ho fame, troppa fame, talmente fame che sono schizzato giù in strada senza nemmeno rendermene conto. Un ammasso informe mi sfreccia accanto: case, alberi, automobili… Continuo a correre. Disperato. Ho bisogno di sangue!
Come un guardiano silenzioso, la luna segue i miei movimenti dall’alto dei cieli. Nessuna nuvola, niente vento, l’aria calda e umida mi si appiccica alla pelle.
Mentre attraverso l’incrocio, appollaiati sui bidoni dell’immondizia all’angolo della strada, un gatto bianco e nero e uno grigio stanno cenando con degli avanzi di pizza. I gatti sono la mia ossessione. Di notte ne trovi a centinaia in giro per la città. Girano tranquilli, come se le strade appartenessero a loro.
Mi volto dal lato opposto. Il sangue di gatto è talmente acido che al primo sorso, mi viene il prurito in tutto il corpo. E poi, l’ultima volta che ho acciuffato uno di quei mostri mi sono beccato una zampata sanguinaria in faccia. Continuo a correre.
Tempo fa cacciavo esclusivamente topi. Il sapore è ottimo. Ma in giro non se ne trovano più. L’unico posto dove ce n’è ancora qualcuno, è la discarica. Solo che lì i topi sono troppo magri e dannatamente furbi. In una notte riesco ad acciuffarne al massimo un paio. Di solito rimango affamato, proprio come lo sono adesso.
Quando all’orizzonte appare l’insegna luminosa del McDonald’s, un senso di sollievo mi pervade tutto il corpo. Odio cibarmi di sangue umano, stasera però non posso farne a meno. Ho urgenza di mangiare e l’unica alternativa possibile sono gli scoiattoli e i cani. Ma in città non si trovano scoiattoli e per quanto riguarda i cani, nell’arco di un mese ho fatto fuori tutti i randagi della zona.
Ieri sera, reduce da una estenuante ricerca andata a vuoto, affamato come ero e senza possibilità alcuna di trovare cibo nelle immediate vicinanze, ho spremuto il Labrador del mio vicino fino all’osso. Poi ho seppellito il cadavere a quattro zampe nel parco. Piangevo mentre riempivo la fossa di terra. La fame acceca, s’impossessa della tua mente e ti fa agire in modi terribili. Non pensavo di arrivare fino a tanto. Berny era l’unico amico che io abbia mai avuto. L’unico essere sulla faccia della terra che mi voleva bene. Ci divertivamo assieme. Non riesco ancora a credere di avere fatto una cosa simile.
Ieri sera, quando Berny ha sentito la mia voce è uscito a razzo dalla cuccia. Scodinzolava. Io gli ho sorriso, come solo un traditore sa fare. L’ho accarezzato per un po’ sulla testa, poi ho aperto il cancello e sono corso via. Pensando di giocare, lui mi ha inseguito fin dietro la siepe e, quando mi ha raggiunto, si è rotolato per terra. Era felice. Ma non appena gli ho confidato che non avevo altra scelta, che gli volevo bene e che sarebbe rimasto per sempre nel mio cuore, Berny si è rialzato di colpo e ha preso a fissarmi. I suoi occhietti neri esprimevano incertezza, non più felicità. Ho sentito una stretta al cuore in quel momento. E ho capito che era meglio non indugiare oltre. Così gli ho spezzato il collo. Un movimento rapido di polsi. Non volevo che soffrisse, che morisse agonizzante. E io avevo troppa fame ed ero certo che non sarei riuscito a fermarmi se non dopo averlo svuotato del tutto. E così è stato.
Mi fermo a pochi metri dalle porte d’ingresso del McDonald’s. I tavolini dislocati all’esterno straripano di persone e nemmeno dentro vedo posti a sedere liberi, c’è una fila impressionante alle casse e molta gente mangia in piedi acquattata in qualche angolo. L’aria è impregnata dall’odore di fritture.
Un mormorio incessante condito da sporadiche urla di ragazzini copre di gran lunga la musica divulgata dagli altoparlanti. Di scatto, come fosse uno spettro irrequieto, una donna mora ultra quarantenne vestita di bianco si alza dalla sedia e acciuffa un bambino prima che questi raggiunga la strada. Un cameriere inciampa, e un fiume giallo-marrone si riversa sul marciapiede.
Alcuni minuti dopo, tre ragazze, di cui una mora, una castana e una dai riccioli rossi, escono dal locale in compagnia di due ragazzi, uno biondo e muscoloso, l’altro pelato e magro. Risalgono il marciapiede e si appartano all’ombra della tettoia in legno posta all’estremità ovest del fabbricato, a ridosso del prato, isolati dal caos che c’è tutto intorno. Mi mischio tra la folla e li osservo con interesse.
D’un tratto, come se percepisse nell’aria la mia presenza, il ragazzo biondo e muscoloso si volta e guarda nella mia direzione. Dice qualcosa ai suoi amici, poi afferra per mano la pupa dai capelli rossi che gli sta accanto e assieme si dirigono al cancello per l’uscita pedonale. Il ragazzo magro e pelato gli va dietro mano nella mano con la tipa mora. L’ultimo membro di quel gruppetto, la ragazza dai capelli corti e castani, si incammina da sola verso i parcheggi, posti nella zona posteriore del fabbricato. Ci siamo!
Entro al McDonald’s e, zigzagando tra i tavoli, m’inoltro fino in fondo alla sala. Poi imbocco lo stretto corridoio alla destra del bancone ed esco fuori dalla porta di servizio. Sbuco diritto al parcheggio. È deserto.
La ragazza dai capelli castani svolta l’angolo e mi finisce dritta addosso. «Scusami» s’affretta a dire arretrando di un passo. 

«Non pensavo di…».
Rimango allibito da quanto è bella. Le labbra carnose spiccano sulla pelle chiara del viso e gli occhi, color miele, sono incorniciati da lunghe e folte ciglia. Un nasino all’insù e guance appena rosate arricchiscono il tutto. Avrà venti anni, più o meno l’età che dimostro io, che in realtà ne ho quasi duecento, di anni.
«Stai bene?» mi chiede increspando le sopracciglia.
«Ero uscito per fumare» le imbroglio.
«Ah…» farfuglia pensosa. Estrae un pacchetto di sigarette dalla borsa, ne tira fuori una, me la incastra tra le labbra e l’accende.
Il fumo mi pervade le narici e mi avvolge la gola come uno sciame di insetti pelosi. Tossisco e sputo la sigaretta a terra.
«Ma non eri uscito per fumare?» chiede quando smetto di tossire.
«Odio quella marca di sigarette…» mormoro. In realtà non ho mai fumato.
«Io non fumo» mi confida lei. «Le tengo in borsa per le occasioni speciali…».
Di colpo sento le gambe rammollirsi. Sono troppe ore che non mangio. Ma non ho più voglia di bere il sangue di questa ragazza. È così… perfetta.
Lei sorride. «Mi chiamo June» dice allungando un braccio verso di me.
«Jason». Le stringo la mano e un’ondata di calore mi penetra fin dentro le ossa.
«Caspita!» fa June, sventolando la mano per aria. «Sei ghiacciato!».
Ho un sussulto. Quasi dimenticavo di avere la pelle fredda come quella di un cadavere dell’obitorio. «Il fatto è che…». Dannazione!
June sbarra gli occhi e mi fissa.
È così vulnerabile, così bella, così… Buona! Quando le vedo pulsare una vena sul collo, immagino il gusto dolciastro che deve avere il suo sangue e mi viene l’acquolina in bocca. Cerco di spostare il pensiero ad altro… Ma ho fame, troppa fame. Devo succhiare un po’ della sua linfa vitale.
La ragazza arretra, come se avesse letto nei miei pensieri.
«Non devi aver paura» dico, il tono di voce identico a quello che ho usato con Berny, prima di spremerlo come un’arancia. Sto perdendo il controllo.
June finisce con la schiena su un pilastro in calcestruzzo.
«Posso spiegarti…» la tranquillizzo. Ma sento i canini sporgermi dalle labbra mentre avanzo.
Con frenesia, June armeggia dentro la borsetta. «No…» mormora impaurita. 

«Ti prego. No…». Trema.
Mentre sto per saltarle addosso, in preda all’istinto, incrocio gli occhi color miele di June e mi blocco. In lei rivedo Berny, il mio amico a quattro zampe. Il senso di colpa per ciò che gli ho fatto scuote i neuroni del mio cervello come un vento improvviso smuove parte dei granelli di un castello di sabbia, annebbiandone la forma. Quante volte vivrò ancora questa scena? Il pensiero mi tortura. Sono lo squalo che attacca le prede, il mostro, l’assassino… ma non posso farci niente. È la mia natura.
Mi avvento sulla ragazza, la afferro per le spalle e punto diritto al collo. Urlando, June estrae una boccetta dalla borsa e mi spruzza un liquido puzzolente in faccia. Al contatto con quell’intruglio, mi bruciano dannatamente gli occhi e sento un sapore di aglio ammuffito sulle labbra. Sputo e porto le mani al volto.
«Mi spiace Jason, mi stavi quasi simpatico…» fa June, rinsavita.
In quello stesso istante, qualcosa mi colpisce con violenza alla nuca e crollo in ginocchio. La testa mi fa male e ci vedo sfocato.
«Siamo in ritardo per la festa?» chiede in tono ironico una voce maschile alle mie spalle, mentre mi infilano un sacchetto nero in testa.
«Appena in tempo» risponde June.
Mi afferrano come fossi un sacco di patate, poi perdo conoscenza.

***  Sollevo a fatica le palpebre. La testa mi pulsa e ho lo stomaco sottosopra. Non riesco a muovermi: sono legato su di un’asse inclinata a quarantacinque gradi. Un odore nauseabondo di bruciato impregna l’aria e a parte una sottile lama di luce che penetra dal soffitto e disegna una striscia luminosa sul pavimento, è tutto buio.
«Ben ritrovato, Jason» esordisce June rompendo il silenzio.
Scorgo tre sagome scure a pochi metri da me.
«Dove mi avete portato?».
«Tra poco lo scoprirai» risponde aspra. «Dennis… apri!».
Strascicando, la lamiera sul tetto inizia a spostarsi e la lama di luce proiettata sul pavimento si allunga verso di me come un tappeto luminoso. Dall’oscurità riemergono le pareti annerite di un magazzino. Cumuli di materiale carbonizzato sono sparsi qua e là sulla pavimentazione industriale.
«Stop!» urla June.
Il tappeto luminoso si ferma a sfiorarmi i piedi.
June tiene un accendino in mano. Alla sua destra c’è la ragazza dai riccioli rossi e alla sua sinistra, la tipa dai capelli lunghi e neri. Alle loro spalle, dalla porta situata nella parete in fondo al magazzino, ne viene fuori il ragazzo biondo. Si avvicina a passo svelto. Ha una tanica in mano.
«Cosa volete da me?» chiedo preoccupato.
Nessuno risponde. Il biondo mi raggiunge e, sotto lo sguardo consenziente delle ragazze, mi versa il contenuto della tanica addosso: benzina. Mi scivola addosso e m’impregna i vestiti.
«Perché fate questo?» urlo, mentre provo a divincolarmi. Più che avermi legato all’asse, ho la sensazione che mi ci abbiano saldato.
June si solleva la maglietta: una vistosa cicatrice le attraversa il ventre e un’altra le scende giù dal seno per poi scomparire dietro i jeans.
«Due anni fa, un vampiro ha ucciso i miei genitori e la mia sorellina di tre anni» dice. Una lacrima le riga il viso, le labbra carnose tremano. «Io l’ho scampata!».
La sua rabbia mi esplode in testa come il colpo di un cannone.
Il biondo lancia la tanica vuota in un angolo e si avvicina a June: la bacia. Lei accende una sigaretta e mi fissa.
«Dennis…» sbraita il biondo. «Friggiamo questo stronzo!».
La lamiera sul tetto riprende a muoversi e il tappeto di luce mi risale velocemente il corpo. Al contatto con i raggi solari, provo una sensazione di calore così forte che non riesco a trattenere le urla. Vedo nuvolette di fumo sempre più consistenti innalzarsi da sotto i vestiti.
«Basta così!» fa di colpo il biondo.
Tranne la testa, il mio corpo è immerso nel sole. La pelle mi brucia come se fosse trafitta da migliaia di aghi. Urlo ancora più forte, contorcendomi. Per ogni istante che passa, il dolore si fa più insopportabile.
«Addio, Jason» grugnisce June. Si toglie la sigaretta dalle labbra e la lancia sulle mie gambe. La benzina di cui sono impregnato si trasforma in una vampata arancione bollente e mi avvolge.
«È proprio vero che il fumo uccide» dice una voce alle mie spalle.
Tutti ridacchiano. Io invece brucio.
Mentre il fuoco divora la mia carne, centinaia di creature danzano al ritmo dei miei ricordi, dentro la mia mente. Bevendone il sangue ho assorbito la loro essenza. Li ho privati della vita. Li ho imprigionati in me.
«Berny…» provo a dire, ma la lingua mi si è attaccata al palato. Lembi di pelle mi si staccano dalle guance. Ho le mani fuse allo stomaco. Non vedo niente e non sento più alcuna risata. Poi il dolore svanisce e il mio corpo esplode in migliaia di pezzi.
Perdono…

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