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1985: Aneddoti ateniesi

Creato il 25 marzo 2012 da Sirinon @etpbooks

Era il 1985, prima sosta nella capitale. (tratto da "Da Pericle a Papadimos", terzo assaggio, capitolo primo "Genesi di un amore")

Non solo l’albergo e quanto d’intorno, ma Atene, soprattutto, fu quella volta, l’emblema del disinteressato caos dell'aeroporto, per quella caotica disorganizzazione che trovava tregua solo nelle piccole e seminascoste piazzette ove immancabilmente potevi ritrovare un albero, un tavolino di marmo, un tavli ed una sedia in attesa.

Restò memorabile all’ingresso in città, tra l’altro, un trasferimento in autobus, uno di quelli che stavano cercando di spartirsi, insieme a tram, camion, carretti e autovetture, le intasate corsie delle vie cittadine. Stradette che salvo poche eccezioni, erano figlie o nipoti di antiche dignità di capitale e che nella restante periferia si ammassavano e si intrecciavano in quel saliscendi sregolato che era la crescente urbanizzazione intorno al centro storic, le cui parallele grandi arterie erano ancora in odore di castrum romano. Si snodavano là dove restava dello spazio, spesso a malapena sufficiente al passaggio, tra i terrazzi dei primi piani troppo aggettanti e le auto che già in file disordinate invadevano le carreggiate in virtù di quella abitudine a tutt’oggi rimasta, per cui i marciapiedi di fatto a tutto servono meno che .. a camminare: file di olivi, aranci, mandarini e limoni, cassonetti per l’immondizia sedie di chi abita a piano terreno ed altri orpelli che secondo un antico (mal?)costume vengono lasciati in ogni dove e fanno sì che il pedone sia costretto a circolare … per strada. Ed in quella occasione fu il nostro torpedone, che doveva fra l’altro farci prendere un traghetto al Pireo, a restar piantato tra un’auto posteggiata come se fosse nel proprio giardino privato, un olivo che non avendo trovato sfogo verso il muro retrostante aveva avuto l’ardire di protendersi verso il centro della strada e, come non bastasse, un carretto pieno delle merci più svariate che a fatica veniva trascinato credo da non meno di un paio di generazioni di gambe e braccia, tutte rigorosamente riparate sotto coppole e veli neri. Formiche nere che si aggiungevano al nero brulicare vociante che d’un tratto s’affacciò da ogni finestra, porta e pertugio quando l’autista, stizzito e terminata la ripetitiva litania del caso che qui, in realtà si espleta più con il gesto che non con le parole, ebbe l’ardire di pestare paonazzo sul pomo del clacson il quale, stizzito anch’esso, emise un suono fioco e lamentoso, tutt’altro che degno della feroce rabbia che aveva pervaso il nostro conducente. Ed ognuno - nella città della democrazia non poteva essere altrimenti - ebbe da dire la sua, ebbe da somministrar consigli e avvertimenti, fino a che la colpa non ricadde sul progresso tutto che aveva procreato quegli inutili, grandi e puzzolenti autobus dei quali, in fondo, non c’era un gran bisogno e che comunque da lì non dovevano passare: troppo ingombranti. Il caldo di per sé già soffocante non scoraggiò nessuno e lì d’intorno continuavano ad affluire tutti coloro che anche da lontano si erano accorti del brusio. Tutti meno l’autista dell’auto. Passò una buona ventina di minuti ed anche i vigili si unirono a quella che oramai era la kermesse giornaliera. Tra l’altro ebbero modo di spiegarci che non era la prima volta ed anzi, precisarono come l’autista stesso non fosse nuovo a quella sosta. Come volle la giustizia divina alfine sopraggiunse il proprietario dell’auto, che, tuttavia, prima di provvedere a togliere l’ingombro, ebbe, senza necessità d’essere pregato, di che indicarci con  gesti ampi e svolazzanti, il ramo colpevole d’olivo o il carretto che comunque, almeno d’un mulo avrebbe dovuto premunirsi o, addirittura, in un momento particolarmente esaltante dell’arringa, seguendo i canoni di un crescendo rossiniano, come sarebbe stato necessario, visto il reiterarsi dell’evento, far intervenire il sindaco e la giunta intera affinché tutto potesse alfine finire sui giornali. Giungemmo al Pireo distrutti anche se salvi, con solo una mezz’ora di ritardo; ritardo che una telefonata nel frattempo fatta, sortì il miracoloso effetto di far attendere il traghetto. E fu lì, sul ponte, che ci accasciammo ringraziando il vento. 

Credo che quel corto ma intenso trasferimento cittadino al tempo ebbe a mostrarmi più cose di questo popolo che non tante altre gite o esperienze edulcorate dal fatto di essere turisti, ruolo che tra l’altro, nella sua più deprecabile accezione, in vita mia ebbi a rivestire poi solo in una unica, altra occasione e, tra l'altro, in ben altro luogo del mondo. Certo, sul momento, quella brulicante umanità che si esprimeva come se fossimo in una qualsiasi piazza, senza che nulla ostacolasse il sostare a lungo, nulla ostacolasse l’esprimere un parere, senza che nulla infine impedisse che si formassero i gruppi, fautori gli uni di una tesi, fautori gli altri di opposte istanze, mi lasciò sbalordito tanto che il mio falso modernismo metropolitano mi fece pensare d’essere in chissà quale borgata provinciale. Ma una cosa in comune avevano tutti, ovvero il riconoscimento del sacrosanto diritto a parcheggiare nel mezzo alla strada o dell’olivo, a crescere nel mezzo della via, o ancora del carretto nell’arrancare a passo d’uomo come se la colpa, per legge naturale, dovesse per forza ricadere sull’ultimo arrivato giunto, di fatto, a sconvolgere uno status quo che comunque, scorreva, lento, ma scorreva. O, in ultima istanza ancora, secondo un adagio che secoli di dominazione avevano ben impresso nella loro mente, la colpa era di chi governava, nemico quasi per una naturale consuetudine, per una semplice, ovvia ovvietà. Hanno tentato i greci di mantenere vivo questo modo di pensare e di agire, anche di recente. Sia per la strada che in altri luoghi quali il parlamento. Per la strada inveendo contro un governo come se fosse straniero, in parlamento come se fossero ad esercitare una inutile democrazia piazzaiola, avendo cura, al termine delle arringhe, che tra l’altro vengono normalmente ascoltate in religioso rispetto dai presenti, di lasciare tutto come era stato trovato, dal seggio parlamentare allo stato sociale. Fu dunque in base a questo principio che, allora almeno, il traghetto ci attese, per una ovvia normalità, per quella scala di importanza in base alla quale la solidale amicizia e lo spirito compaesano avrebbero, come al solito, messo una toppa a tutti gli errori della modernità. Era una logica da piccola comunità quella, un modo di fare che ricordava la Taverna di Molivos e non un sistema applicabile alla conduzione di uno stato. E neppure di una città come Atene che stava già all’epoca dilagando per tutta la pianura. Però, era su questo modello comportamentale che si stavano fondando le strutture amministrative dello stato che doveva inventarsi esperto ed efficiente là dove non lo era mai stato perché in fondo, nessuno tra i suoi governanti aveva mai resistito tanto da doverglielo chiedere o, tutt'al più, se ne era mai dimostrato a lungo interessato. Fu dunque una lezione quel contrattempo tutto debordante di sanguigno colore locale, una lezione.

 


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