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2 Nepal, Where are the money?

Creato il 19 settembre 2015 da Cren

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Per ricostruire il Nepal sono arrivati oltre 4 miliardi solo dai donatori istituzionali (oltre al circa 1 miliardo annuo per lo sviluppo) che, fino ad ora, non sono stati utilizzati per aiutare famiglie,  scuole e villaggi per rimettere a posto costruzioni pubbliche e private. I bambini fanno lezioni in strutture provvisorie, spesso capanne di bambù coperte da teloni di plastica. Non sono allo studio progetti per ricostruire templi e case nei centri storici della Valle e nei distretti terremotati. A livello istituzionale (governo e Nazioni Unite) tutto è fermo.

A livello privato (onlus, associazioni, gruppo di amici) fin dai primi giorni, sono stati raccolti un sacco di soldi, spesso ustai per  interventi inutili, materiale abbandonato e non utilizzato, voli in elicottero, sprechi vari. Non  conoscendo bisogni, realtà ne programmando) . Vedi post

Come per le istituzioni così come per i singoli donatori versare soldi non dovrebbe bastare. È altrettanto importante verificare come sono stati utilizzati e se gli interventi fatti hanno avuto effetti positivi sui beneficiari. Se no si rischia, come descritto in questo post, di foraggio re solo burocrati e sprechi.

La somma (a livello planetario e italiano) per cercare di ridurre povertà e disastri è, dunque, rimasta più o meno immutata. Chiaro che la domanda è: questa massa di denaro è ben investita, cioè produce risultati decenti per i beneficiari? Risposta apparentemente facile, più soldi ci sono più gli interventi dovrebbero produrre risultati positivi per i derelitti di mezzo mondo (questo dicono i burocrati dell’industria). Purtroppo non è così, almeno ce lo dicono studi e analisi fatte in tutto il globo, oltre che la nostra piccola esperienza. Partiamo dal generale, dal macro. Altra domanda ma donare fà la felicità più del donatore o del beneficiario? (fuori gara gli operatori delle varie organizzazioni che sono i più felici). Vediamo un pò.

In media ogni anno oltre USD 110 miliardi finisce nei paesi poveri nel nome della cooperazione allo sviluppo e questo (+o-) da oltre 50 anni. Gli studi dicono che per la maggior parte dei paesi africani (che sono fra i maggiori beneficiari degli aiuti) hanno visto la crescita del reddito pro-capite pari a zero. In più è stato rilevato che la mal gestione di questo denaro da parte dei burocrati (privati e pubblici) dell’industria dell’assistenza ha provocato effetti negativi nei sistemi economici dei beneficiari (e quindi nella vita delle persone che si vorrebbero aiutare). Elementi segnalati sono: diminuzione degli incentivi alla produzione (specie agricola e relativo calo della produzione), disencentivi all’innovazione, distorsione dei consumi (favorendo le elites metropolitane), aumento delle disparità sociali ed economiche, consolidamento di oligarchie e e sistemi politico-affaristici (corruzione). E’ stato inventato il termine “dutch desease” per dimostrare che gli aiuti internazionali (mal gestiti) producono una diminuzione delle esportazioni dei prodotti a più alta intensità di lavoro (tessile, manifatturiero povero) In other words, aid tends to make a country less competitive (reflected in an overvalued exchange rate) which in turn depresses the prospects of the more exportable sectors. Nel nostro piccolo avevamo notato qualcosa per Cambogia e Nepal, paesi fra i più aiutati del mondo. (gli studi citati sono di  di Maren 1971, Bauer 200, Svensson 2000, Knack 2001 e 2004, Djankov 2006).

Ovvio che il fiume di soldi qualche miglioramento lo genera, se non altro aumentando i redditi e i consumi dei privilegiati nei paesi poveri, ma l’impatto dell’investimento sui risultati farebbe chiudere qualsiasi azienda privata. Abbiamo citato in altri posts (e nei docs) anche rapporti degli stessi operatori che, di fronte all’evidenza, indicano in più della metà i progetti falliti. Donatori e beneficiari (si parla delle burocrazie governative e delle elites locali che gestiscono la cooperazione) hanno interessi diversi da quelli dei beneficiari diretti (cioè i cittadini). Il potere e benessere dei primi è dato da tre elementi: aumento costante dei fondi (struttura e apparente intervento); poco lavoro e impegno; burocrazia (giustificare l’utilizzo dei fondi). Ovviamente i processi di selezione del personale devono rispondere ai requisiti di questa triade (a cui s’aggiunge nepotismo e clientelismo) e dunque ciò moltiplica l’inefficienza. Ovvio che parliamo a livello di sistema e generalizzando, anche se molti dei pochi operatori buoni che abbiamo conosciuto hanno preso la porta.

 Un lavorone della Williamson (The role of Incentives and information) illumina sui sintomi dell’inefficienza del sistema, derivanti, scrive lei, dal letargo burocratico e dall’assenza d’incentivi del personale sia fra i donatori che fra la burocrazia beneficiaria. La Williamson segnala che la mancanza d’incentivi e controlli sostanziali ai burocrati  dell’industria dell’assistenza provoca:  duplicazione di progetti (e di spese inutili), una burocrazia distante dai bisogni dei beneficiari e impelagata in una ragnatela di obiettivi immaginari. Cita un Rapporto delle Nu sui MDGs che propone 54 indicatori, per 18 obiettivi, 36 raccomandazioni per 449 interventi. Ricorda che un funzionario medico delle NU consuma, per riempire le richieste burocratiche, stilare reports, e relazione fra il 50 e il 70% del suo tempo.

Il meccanismo che guida l’assistenza internazionale (sia pubblica che privata) è politico e burocratico: burocrazia, procedure, certificazioni, reports, protocolli che impediscono trasparenza ed efficienza. In Nepal nelle scorse settimane c’è stata la solita riunione dei donatori da cui sono emerse le conferme agli studi citati duplicazione di progetti e perdita di controllo dell’utilizzo dei fondi. Gli stessi burocrati del governo hanno dovuto riconoscere in dichiarazioni pubbliche The country’s dependency on foreign aid has not only been restricting the country from utilising its resources back home, but such innumerable international projects have also been failing to yield satisfactory outcome. Ha dichiarato Dinesh Kumar Thapaliya, portavoce del Ministry of Local Development. Aggiunge Indu Ghimire (dello stesso ministero), nessuno have any special records of development progress from the foreign aids. Worse, the National Planning Commission and the Ministry of Finance too have not maintained the record of total foreign aids given to Nepal and development statistics”. Insomma nessuno sà dove vanno a finire i soldi. O meglio: “Every year, the same road is repeatedly made, which is the misuse of loans” finisce Thapaliya, aggiungendo che oltre il 15% delle somme sono spese per consulenti stranieri invece che locali. L’Himalayan Times chiude l’articolo citando “A representative of a donor agency, on condition of anonymity, admitted the ineffectiveness of foreign grants that has been fuelling dependency and misuse of development budget”.

A Doti (west Nepal), ogni anno ci sono decine di morti per diarrea, manca l’acqua potabile. Qualche mese fa, in pompa magna, donatori e funzionari governativi hanno inaugurato un progetto idrico. Oggi leggiamo The locals claim that the government employees of the concerned office had taken 20 to 40 per cent commission for approving the project. The consumers also claimed that millions of rupees were spent on such projects designed without proper studies. Infatti l’acqua non arriva.  Solo a Kathmandu operano più di 20 ONG per i bambini di strada ma il fenomeno, a detta dei reports delle stesse, è in crescita. In Cambogia, grazie alle pressione dei contadini, la World Bank si è accorta che il suo progetto di USD $ 38.4 milioni, iniziato nel 2002, e diretto to disseminate land titles and create an “efficient and transparent land administration system for the Kingdom, è fallito e ai contadini viene sottratta la terra sotto il loro naso.

Scendiamo fra noi. In Italia sono donati ogni anno circa 6 miliardi di euro dai privati (300 milioni da aziende, circa 45.000) per la solidarietà. Il 14% và alle associazioni di ricerca medica ed assistenza, il 20% agli aiuti internazionali\emergenze, il 3% ad associazioni per l’adozione a distanza. In Italia ci sono circa 20 milioni di donatori con una media di versamenti di euro 180 annue che mantengono in vita un sistema di 21.000 ONP (organizzazioni no-profit) con oltre 1.000.000 di operatori. 239 ONG ricevono fondi anche dallo stato (pochi) e dall’UE e mantengono 5500 operatori.

Questo sistema ha un passato eroico (in molti casi),  nasceva da un esigenza diffusa di solidarietà, di partecipazione e si è formato, infatti, all’interno della sinistra e del sindacato. Quando quest’ultimi si sono strasformati (sintetizziamo) in sistemi politico-affaristici votati all’automantenimento, il sistema dell’assistenza  ha patito la stessa involuzione. Come il sistema dei partiti, l’industria dell’assistenza ha messo da parte  ideali e passione per diventare uno dei tanti serbatoi di potere e clientele, di creazione di consenso, insomma un  business politico ed economico. Parole e immagine, come per i partiti (di cui molte ONG sono, di fatto, emanazione),  la  trasparenza  reale (dettaglio dei bilanci, attività, etc.) è inferiore persino a quella dell’industrie private, comprese le famigerate banche ed assicurazioni.

Non per niente, l’Eurisko (in una generica indagine sul settore) ci dice che la ragione più importante per l’abbandono della donazione non è la mancanza di soldi ma quella di informazioni e trasparenza. Le normative che regolano il settore sono vecchie e tagliate per piccole entità. Oggi vi sono ONLUS che fatturano centinaia di milioni di euro e sarebbe necessario che fossero stabiliti criteri particolari per redigere i bilanci. Non bastano le dichiarazioni come quella in cantiere dell’ Agenzia delle ONLUS (massimo 30% dei fondi per la struttura) se non vi sono obblighi di dettagliare l’utilizzo del restante 70%. La stessa Agenzia è simile alle altre Authority italiane, grandi dichiarazioni, controlli sulla carta, assenza d’analisi, cifre sul settore, proposte sensate.


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