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Creato il 23 febbraio 2015 da Filmedvd

A poche ore dalla conclusione della 87° edizione degli Academy Award (qui l'elenco completo dei vincitori), svoltasi al Dolby Theatre di Los Angeles, sulla Hollywood Boulevard, possiamo analizzare gli aspetti più rilevanti di una serata che ha riservato solamente qualche sorpresa, ma che nel complesso ha confermato molti dei pronostici della vigilia.

CONDUZIONE DELLA CERIMONIA ED ESIBIZIONI

Dopo aver condotto gli Emmy e i Tony Award, al poliedrico Neil Patrick Harris è stata affidata la presentazione della serata, ereditando il pesante fardello della comica Ellen DeGeneres, autentica mattatrice della scorsa edizione, che con il selfie in platea assieme ad altre star raggiunse un incredibile successo mondiale, raggiungendo il record di due milioni di retweet in poche ore. Al di là di quel successo mediatico, bisogna riconoscere che, da questo punto di vista, la conduzione di Harris si è differenziata notevolmente; il co-protagonista di How I met your mother ha mostrato le proprie doti canore - memorabile l' opening con Anna Kendrick e Jack Black, che ha ricordato molto quelle di Billy Cristal - e ha assunto un ruolo meno centrale all'interno dell'evento. Lo stile apprezzabile di un grande performer tuttavia non ha riscaldato granchè l'ambiente sfarzoso del Dolby Theatre - nemmeno quando, citando una scena di , si è presentato in slip sul palco.

Ecco perché la cerimonia, lunga circa quattro ore, è risultata decisamente noiosa, in certi frangenti. Tra gli artisti che si sono esibiti durante la serata, citiamo Lady Gaga che ha cantato un brano da Tutti insieme appassionatamente, scrutata dalla straordinaria e commossa Julie Andrews, e il duo di Selma - La strada per la libertà, Common e John Legend con Glory, che ha commosso fino alle lacrime David Oyelowo, protagonista nel ruolo di Martin Luther King, in una storia che racconta un passato molto più attuale di quello che sembra. A suggellare la serata anche la coreografia sulle note di Everything is awesome e l'esibizione di Tim McGraw. All'interno della cerimonia anche l'omaggio ai vincitori dei premi alla carriera, tra cui il maestro Hayao Miyazaki, e il toccante discorso della presidente dell'Academy, Cheryl Boone Isaacs.

BIRDMAN E LA PREVEDIBILE VIRTÙ DELL'AUTOCELEBRAZIONE

Da settimane aspettavamo di sapere chi sarebbe stato il vincitore nel lungo duello tra Birdman di Alejandro González Iñárritu e di Richard Linklater. Chi si aspettava uno split come l'anno scorso è rimasto deluso perché l'Academy ha premiato il virtuoso e avvolgente dramedy teatrale del regista di Babel, con gli Oscar al miglior film e al miglior regista, quest'ultimo il secondo consecutivo per un messicano. Ha vinto l'autocelebrazione, ha vinto la scelta più convenzionale e, se vogliamo, anche più ipocrita, laddove si è deciso di premiare una pellicola che affronta il binomio controverso cinema / teatro con proverbiale cinismo, che porta sul piedistallo l'ego di un attore bisognoso di appartenere ad un'identità artistica che finora gli è stata negata, soffocata dal suo alter-ego cinematografico, Birdman, e soffocata dai progetti di quella stessa industria hollywoodiana che ieri ha deciso per l'autopremiazione. Un tentativo dell'Academy nemmeno troppo velato di mostrare al mondo del cinema che anche lo sfarzoso pianeta hollywoodiano sa essere autoironico ed è perfettamente consapevole delle proprie contraddizioni.

In fondo alla cerimonia rimane comunque la sensazione di riconoscimenti più che meritati per una pellicola coinvolgente e impreziosita da uno dei più bei piani sequenza degli ultimi anni, che ha fatto passare in secondo piano anche l'eccessiva spavalderia scenica di Iñárritu - per il quale il premio alla regia era altrettanto scontato - in un'annata che non presentava dei veri e propri capolavori sulla griglia di partenza. Spianata la strada a Birdman anche per l'Oscar alla miglior sceneggiatura originale ad Alejandro Gonzalez Inarritu, Alexander Dinelaris Jr, Armando Bo e Nicolas Giacobone, mentre la quarta ed ultima statuetta gli è stata assegnata per la meticolosa fotografia di Emmanuel Lubezki, al suo secondo Oscar consecutivo dopo quello, decisamente meno meritato, per Gravity lo scorso anno. Anche in quest'edizione non abbiamo assistito ad una razzìa di premi da parte di una sola pellicola, ma l'imprevedibile virtù dell'autocelebrazione artistica ha giovato al talentuoso regista messicano.

GLI OSCAR ALLE INTERPRETAZIONI... MALATE

Tra le premiazioni più attese da sempre in assoluto, quelle dedicate alle migliori interpretazioni quest'anno in realtà avevano ben poco da raccontare già da diverso tempo. Nella categoria per il miglior attore protagonista il giovane attore britannico Eddie Redmayne, protagonista nello straziante ruolo del fisico Stephen Hawking de La teoria del tutto, si è aggiudicato la prima statuetta in carriera battendo il suo reale concorrente, il bravissimo Michael Keaton, novella Araba Fenice del cinema, che dalle ceneri di Batman è rinato attraverso lo spauracchio di Birdman. Partendo da un livellamento pressoché evidente per quanto riguarda le interpretazioni, il duello si sarebbe dovuto giocare sulla valenza simbolica delle due performance: premiare la complicatissima rappresentazione di una malattia devastante per il corpo ma non per la mente oppure dare ulteriore lustro ad un grande ritorno al successo di un attore finito da anni nel dimenticatoio delle produzioni d'alto livello, insomma, uno di quei ritorni che ad Hollywood piacciono eccome. La vittoria - sacrosanta, intendiamoci - di Redmayne conferma la bizzarra (ma ormai nota da tempo) tendenza dell'Academy di considerare meritevole di un Oscar l'avvicinamento e/o l'immedesimazione di un attore rispetto all'universo struggente di un male, in confronto ad altre tipologie di performance legate ad altri contesti.

La conferma arriva anche dall'Oscar alla miglior attrice protagonista, la sublime Julianne Moore, che a cinquant'anni suonati e alla quinta nomination della sua carriera mette finalmente le mani sulla statuetta tanto ambita; anche in questo caso la scelta, senza discussioni, è caduta sull'interpretazione di una donna realizzata che improvvisamente viene colpita da una forma d'Alzheimer presenile in Still Alice. Impossibile non premiare la Moore con un Oscar, anche se viene da chiedersi come mai sia stata nominata per il film di Richard Glatzer e Wash Westmoreland invece che per l'altrettanto grandiosa interpretazione in Maps to the stars di David Cronenberg. La malattia scenica come passaporto per gli Oscar?

Pochi dubbi anche sulla vittoria dell'Oscar al miglior attore non protagonista per il grandioso J.K. Simmons, professore di musica inflessibile e rigoroso nel serratissimo di Damien Chazelle: un grande traguardo per un attore di notevole talento, conosciuto soprattutto per i suoi ruoli a Broadway e in Tv ma decisamente poco utilizzato sul grande schermo, a torto; con un Oscar in tasca a 60 anni le cose potrebbero anche cambiare... noi ci speriamo. Infine celebriamo l'unico riconoscimento per Boyhood, in cui Patricia Arquette, premiata con l'Oscar alla miglior attrice non protagonista, interpreta la madre separata di Mason. Una buona interpretazione che tuttavia difficilmente avrebbe raggiunto il riconoscimento dell'Academy se costretta a scontrarsi con candidature più adeguate. Forse Emma Stone, nonostante il ruolo abbastanza convenzionale in Birdman, per la sua bravura e per il livello della sua performance avrebbe potuto ambire a qualcosa di più.

GRAND BUDAPEST HOTEL E MILENA CANONERO

La vera minaccia per Birdman alla fine si è rivelata la stupefacente pellicola del geniale Wes Anderson, che con la sua nutrita banda del Grand Budapest Hotel ha pareggiato il numero di statuette del film di Iñárritu, portandosi a casa ben quattro Oscar, tra cui quello forse più discutibile alla miglior colonna sonora; primo riconoscimento quindi per il compositore francese Alexandre Desplat, candidato anche per The imitation game. Non è un caso che tre dei premi riguardino la fiabesca messa in scena di Grand Budapest Hotel, ricca di colori e minuziosamente composta dai bravissimi Adam Stockhausen e Anna Pinnock, capaci di ricreare scenari incantati dell'Europa dell'Est ispirandosi agli opulenti centri termali dei primi del Novecento, e coadiuvati da Frances Hannon e Mark Coulier e dalla nostra leggendaria costumista Milena Canonero, assemblando magistralmente dei veri e propri quadri cinematografici.

Tra poetica surreale e Art Nouveau, a metà tra Gustav Klimt e Stanley Kubrick, all'interno delle variopinte inquadrature del film si muovono magistralmente gli interpreti, capitanati dal raffinato concierge, Monsieur Gustave H, nelle cui vesti è entrato alla perfezione lo straordinario Ralph Fiennes, ingiustamente escluso dalla cinquina come miglior attore. Il successo di Grand Budapest Hotel è la vittoria di quel tipo di cinema che sa contemporaneamente divertire, ammaliare e stupire senza mai perdere nemmeno un briciolo di sapiente e visionaria tecnica cinematografica, con uno stile che solo Wes Anderson è capace di regalare, nonostante, a nostro avviso, non raggiunga comunque i livelli di completezza di altri suoi lavori (vedi il mirabile Moonrise Kingdom). Ed è anche grazie a Wes ,"il nostro direttore d'orchestra", che la straordinaria Milena Canonero ha potuto raggiungere il suo quarto Oscar, in una carriera mostruosa che l'ha vista premiata per film indimenticabili come Barry Lyndon di Stanley Kubrick nel 1976, Momenti di gloria di Hugh Hudson nel 1982 e Marie Antoinette di Sofia Coppola nel 2007.

I PREMI TECNICI E I MIGLIORI FILM D'ANIMAZIONE E STRANIERO

La sorpresa più grande di quest'edizione probabilmente ha riguardato la categoria per il miglior film d'animazione. Dopo l'inspiegabile esclusione di The Lego movie, il frontrunner era indubbiamente Dragon trainer 2, sequel del film campione d'incassi della DreamWorks Animation. Ad esultare nella pancia del Dolby Theatre ieri sera è stata invece la Disney, che ha vinto con il premio al miglior lungometraggio d'animazione, e con Feast quello al miglior cortometraggio d'animazione. Nessuna novità dalla sezione dedicata alle migliori pellicole straniere: a succedere a La grande bellezza di Paolo Sorrentino è il dramma polacco in bianco e nero , diretto da Pawel Pawlikowski. Primo Oscar nella storia per la Polonia, che vanta da decenni una serie di grandi cineasti, come Andrzej Wajda - premiato nel 2000 con l'Oscar onorario - e Krzysztof Zanussi. Abbiamo parlato prima di Whiplash e il successo della pellicola di Chazelle agli Oscar è decretato anche dai due premi nelle categorie tecniche, ovvero quelle riservate al miglior montaggio e al miglior sonoro, mentre un altro grande escluso, Christopher Nolan, deve accontentarsi di veder premiato il meraviglioso Interstellar con il solo premio ai migliori effetti speciali. Stessa sorte capitò nel 1969 ad un certo Stanley Kubrick con 2001: Odissea nello spazio ...

Ha suscitato polemiche la poca considerazione dell'Academy per Selma - La strada per la libertà, dramma a sfondo storico di Ava DuVernay con David Oyelowo nei panni di Martin Luther King. Un piccolo riscatto proviene dall'Oscar alla miglior canzone originale, abbastanza prevedibile e scontata, con la vittoria di Glory, cantata da Common e John Legend, che suona quasi come un risarcimento dovuto. Il documentario di Laura Poitras Citizenfour, con la testimonianza scomoda di Edward Snowden, si è aggiudicato il premio al miglior documentario mentre, come da pronostici, l'Oscar al miglior cortometraggio è andato a The phone call mentre quello al miglior corto documentario è stato assegnato a Crisis hotline: veterans press 1. Breve considerazione su due film tra i più sopravvalutati di quest'annata, La teoria del tutto e The imitation game: quest'ultima pellicola, per la quale inspiegabilmente Morten Tyldum ha soffiato la candidatura al ben più meritevole David Fincher, ha vinto l'Oscar alla miglior sceneggiatura non originale, adattamento di Graham Moore della biografia Alan Turing. Due biopic convenzionali, che tanto piacciono in quel di Hollywood, ma che hanno trovato anche fin troppo riscontro da parte dell'Academy; soprattutto il film con Benedict Cumberbatch, la cui sceneggiatura è sembrata decisamente debole. Inconcepibile come ad un magnifico film come di Mike Leigh - candidato solamente nelle categorie tecniche - siano stati preferite pellicole di buonissimo livello ma nulla più.

GLI SCONFITTI: BOYHOOD E AMERICAN SNIPER

Come ogni edizione che si rispetti, anche la numero 87 ha riservato delle profonde delusioni. Boyhood è sicuramente il grande sconfitto della serata; presentatosi con sei candidature, il film di Richard Linklater si è dovuto accontentare della sola statuetta per Patricia Arquette come miglior attrice non protagonista. Dopo la partenza sprint nelle prime settimane dell' award season e acclamato portabandiera e strafavorito per la critica d'Oltreoceano, Boyhood ha poi progressivamente perso terreno, favorendo il sorpasso di Birdman, aiutato dalle preferenze pressoché unanimi delle Guild, con in testa il Directors e i Producers. Girato dal regista di Austin in poco meno di dodici anni filmando solamente per qualche giorno all'anno, l'originale romanzo di formazione con al centro la crescita dall'infanzia all'età adulta del giovane Mason ha resistito fino alle battute finali ma poi è crollato, anche nelle categorie dove sembrava potesse prevalere, come in quella riservata al miglior montaggio.

Seppur lacunoso nella sua realizzazione e non privo di passaggi a vuoto, a nostro avviso Boyhood avrebbe meritato di trionfare, laddove Hollywood avrebbe avuto l'occasione di poter premiare un cinema capace di sperimentare, al di là dei difetti, capace di ricercare, d'innovare e scoprire nuove strade. Ma come abbiamo raccontato, le scelte dell'Academy di quest'anno, fin dalle nomination in realtà, sono sembrate alquanto discutibili e, in troppi casi, convenzionali. Uno sconfitto meno evidente e chiacchierato ma comunque deluso è American sniper, discusso war-movie di Clint Eastwood, campione d'incassi negli States e maggior successo di sempre al botteghino per il Clint regista. La tragica storia di Chris Kyle, leggendario cecchino dei Seals, impersonato da Bradley Cooper, diviso tra il contradditorio senso patriottico, l'amore per la famiglia e la salvaguardia del Paese. Nominato in sei categorie, il film ha ottenuto solo la statuetta per i migliori effetti sonori; ma d'altronde, come ha riferito ai microfoni un giornalista americano prima della cerimonia: " American sniper non potrà mai vincere, nessun liberale ad Hollywood voterà mai per il film di Eastwood". Ce ne siamo accorti.

(S)MEMORIAL SENZA FRANCESCO ROSI

Come ogni edizione, anche quest'anno l'Academy ha voluto ricordare i grandi cineasti, tra attori, registi e altre figure, che sono scomparsi durante l'ultimo anno. Purtroppo un'altra grande pecca l'abbiamo dovuta riscontare nella mancata citazione dello straordinario Francesco Rosi, regista che tra l'altro agli Oscar fu pure nominato, per il miglior film straniero nel 1982, con Tre fratelli. Gravi dimenticanze, in cui l'Academy spesso incappa, come quando lo scorso anno dimenticò di citare uno dei maestri della Nouvelle Vague, Alain Resnais, salvo poi rimediare ieri sera. Tra i grandi che sono stati ricordati anche Robin Williams, Lauren Bacall, Ruby Dee, James Garner, Mickey Rooney, Richard Attenborough, Luise Rainer, Mike Nichols, Paul Mazursky e la nostra Virna Lisi, la quale ai tempi rifiutò di lavorare ad Hollywood perché non soddisfatta dei ruoli che le volevano assegnare.

DICHIARAZIONI DA RICORDARE

Tra commozione e felicità sono state molte le dichiarazioni che hanno lasciato il segno in questa 87° notte degli Oscar. Patricia Arquette: "Più le donne invecchiano, meno guadagnano. È imperdonabile, andiamo in tutto il mondo a parlare di parità di diritti per le donne negli altri paesi". Ovazione per lei da parte di Meryl Streep e Jennifer Lopez. Toccanti e drammatiche le parole di Graham Moore: "Ho cercato di suicidarmi a 16 anni e ora sono qui. Vorrei dedicare questo momento a qualsiasi ragazzo che, là fuori, si senta non appartenente a nessun luogo. In realtà, non è così. Rimani strano. Rimani diverso, e quando sarà il tuo turno e sarai in piedi su questo palco, tramanda questo stesso messaggio".

John Legend dopo l'Oscar per la canzone Glory: "Diciamo che Selma è adesso, perché la lotta per la giustizia ha luogo in questo momento. Sappiamo che il diritto di voto per cui abbiamo combattuto 50 anni fa è stato compromesso proprio ora in questo paese. Sappiamo che in questo momento la lotta per la libertà e la giustizia è reale. Viviamo nel paese col più alto numero di detenuti del mondo. Ci sono gli più uomini neri sotto controllo correzionale oggi di quanti non fossero in schiavitù nel 1850″. La chiusura è per il grande vincitore del 2015, Alejandro González Iñárritu: "Non riesco a immaginare il perché ho fatto quello che ho fatto in Birdman. Penso che la paura sia il freno maggiore della vita e finché si ha paura non si è in grado di godersi la vita".

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