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64. Festival di Berlino: “The little house” di Yôji Yamada (Concorso)

Creato il 15 febbraio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

the-little-house

Anno: 2014

Durata: n. d.

Genere: Drammatico

Nazionalità: Giappone

Regia: Yôji Yamada

Yôji Yamada non è Yasujirô Ozu, anche se ne trae ispirazione da sempre. The Little House (probabilmente candidato ad un premio all’interno della sezione del Concorso), è una gran bella storia. Con la capacità di raccontarci la vita dentro uno spaccato tanto semplice quanto straordinario negli strati di verità che tocca. Basato sul romanzo di successo di Kyoko Nakajima,  ruota attorno alla figura di zia Taki, vecchietta nubile che lascia nelle pagine di quaderno le sue memorie, rivissute dal giovane Takeshi, nipote d’adozione, in una lettura che è flashback visivo, dentro un andar e venire tra presente e passato. Taki , giovane e timida ragazza di provincia, arriva a Tokyo e comincia a lavorare come governante. Dopo poco il caso la introduce nella incantevole piccola casa dalle tegole rosse e nella famiglia Hirai con la quale vivrà un legame di autentica simbiosi,  specie con la giovane Tokiko, moglie e madre, di una bellezza ‘totalizzante’, che unisce interno ed esterno: una bellezza ed una dolcezza che cattura Taki anche nella complicità che instaura e che imbarazza (e destabilizza) il pudore della giovane. Il massaggio alle gambe che con estrema naturalezza Tokiko le chiede le venga praticato, smuove l’erotismo della giovane Taki, troppo timida ed insicura di se stessa per portarlo in superficie e viverlo. Taki è l’ombra attenta e premurosa della famiglia Hirai, ne segue le vicende con assoluta partecipazione, conservando sempre un riserbo in primis verso se stessa e la propria esistenza, naturalmente sacrificata, anzi vissuta di riflesso in quella degli Hirai: il signor Masaki, che commercializza giocattoli, prototipo dell’uomo d’affari giapponese, poco sensibile, poco attraente, con un senso del dovere da capofamiglia e da patriota. Il piccolo figlio della coppia, che subirà l’avvento della poliomenite, e Tokiko, nelle cui vicende sentimentali Taki non potrà non imbattersi con partecipazione e dolore silenzioso,  insieme. Il romantico, sognatore, timido e inetto alla ‘mascolinità giapponese’ Shoji, disegnatore della linea di giocattoli della ditta di Masaki, non potrà non toccare l’animo di Tokiko. L’amore tra i due sboccerà lentamente, tra remore reciproche e un’arrendevolezza necessaria. Nello sfondo, l’arrivo della seconda guerra mondiale, che taglierà anche il legame di Taki con la famiglia Hirai, e con Tokiko, di cui la giovane  porterà dentro il peso di una scelta indispensabile, fatta per amore.

Yamada penetra il racconto con una sensibilità e una raffinatezza in primis introspettiva. Dettagli apparentemente insignificanti, ma che intingono dalla vita ritualità quotidiane (pulire la casa, preparare da mangiare, conversare, festeggiare la fine dell’anno, prendere un tè), universali, così vivide, così maledettamente toccanti. Insieme alla capacità di caratterizzare psicologie, ed è il caso di Taki (interpretata sublimamente dalla giovane Haru Kuroki ), una perla umana di emozioni trattenute, di non detti, di insicurezze, di profondità non aperte. Uno stare fuori dalla vita, vivendo. Peccato che tutto questo venga minato da un meccanismo ‘telenovellante’ (passatemi questo neologismo), che si ingarbuglia in un finale dove dobbiamo per forza andarci a cercare tutte le chiusure di un cerchio, in collegamenti che gettano solo artificiosità, come calce che ingolfa i pori sentimentali e visivi cosi ben aperti. Del destino di Shoji andato in guerra, arrivando all’invecchiato figlio di Tokiko , ad una verità che deve necessariamente venire aperta fino in fondo. Ozu si sarebbe fermato molto prima. L’uso del flashback pure non aiuta: questo ‘dentro fuori’ sfilaccia il flusso di empatia, costringendolo  a ‘tornare alla realtà’, rompersi, in strutture forzate e stranote.

Maria Cera


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