9. Un taccuino

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Se la tristezza lo aggredisce, Cesare non sa che fare. Ha letto molti libri sulla gestione dei pensieri, ma ora gli sembrano carta straccia, da bruciare nel camino. In effetti, la serata è fredda e la Candelora deve attendere: solo al suo arrivo, forse, dell’inverno semo fora, come ricorda la saggezza popolare. Ma lui, della saggezza, ne ha abbastanza: il gelo gli penetra le ossa e gli assidera il cuore. Deve scrivere, ma non sa più dove rintracciare il materiale. Non crede ai repertori, ai trucchi elencati dai manuali: per lui la scrittura nasce dalla vita, ma se la vita è ferma, come riuscirà a cavarsi dagli impicci? La rivista scalpita: ha bisogno di un racconto, un romanzo a puntate, per pagargli lo stipendio. L’ultimo che ha consegnato trattava di un uomo in crisi col lavoro, l’azienda colabrodo, i collaboratori inetti, il disorientamento esistenziale. Il protagonista cercava sollievo in passeggiate protratte ai margini della città, come se sommare un passo dopo l’altro potesse rompere la scorza del nulla, entrare in un mondo ordinato dove ritrovare un senso al quotidiano. Aveva preso un appunto, come sempre faceva, in cui fotografava lo stato d’animo del dirigente, la voglia di riscatto; gli pareva un buon punto di partenza, e infatti il romanzo si era andando formando, a poco a poco, con personaggi che intrecciavano i destini in un castello in cui ogni stanza era l’inizio di una storia e bastava aprire una porta perché le angosce, i desideri, le speranze, s’incontrassero e inventassero prospettive sorprendenti, perché la vita è questo e ogni volta che aveva l’impressione di sentire un rumore dietro l’angolo, di vedere un’ombra passare veloce come il vento, come una donna in bicicletta, era scosso da un sussulto e scriveva un altra nota sul taccuino; ma ora che il taccuino è vuoto, come riuscirà a farsi pagare lo stipendio?