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A 25 anni dalla pace, il Centroamerica si interroga sul suo futuro

Creato il 15 agosto 2012 da Eldorado

Si sono celebrati il 7 agosto scorso i venticinque anni dalla firma degli accordi di Esquipulas II. Data e posto sono oggi sconosciuti ai più, ma quell’incontro nella cittadina guatemalteca tra statisti dalla visione lungimirante, determinò

l’inizio del processo di pace nella regione centroamericana, a quel tempo minata dai conflitti interni e dagli interessi geopolitici delle grandi potenze. Una pace che sorse improvvisa ed inaspettata, grazie al ruolo precipuo di due protagonisti di quei giorni, Vinicio Cerezo, allora presidente del Guatemala e del suo collega costaricano Óscar Árias, quest’ultimo premiato con il Nobel per la pace proprio quell’anno (era il 1987). Osteggiato dagli Stati Uniti di Ronald Reagan, che fecero di tutto per sabotarlo, il processo –che durò un decennio- riuscì a porre termine allo stillicidio di vittime (quasi 350.000) ed alle guerre, chiudendosi con i negoziati di pace di El Salvador (1992) e del Guatemala (1996). Il prezzo pagato andò ben oltre il sacrificio di migliaia di vite umane. Le guerre centroamericane negarono i più elementari diritti ad almeno un paio di generazioni ed obbligarono all’arretratezza e alla povertà intere province che ancora soffrono le conseguenze delle tragedie di quei giorni.

A 25 anni dalla pace, il Centroamerica si interroga sul suo futuro
Ricordare Esquipulas è obbligatorio per chi ha vissuto quel dramma eppure, i presidenti dell’area, incontratisi a Managua, hanno dato vita ad una celebrazione zoppa, a testimonianza di come, sebbene i tempi dei conflitti armati siano terminati, le divergenze e le frizioni tra i vari Paesi centroamericani continuino ad essere vigenti. Con Daniel Ortega a fare gli onori di casa per il segretario generale dell’Osa, il cileno José Miguel Insulza, c’erano il presidente dell’Honduras, Porfirio Lobo e quello salvadoregno Mauricio Funes. Assenti invece Otto Pérez, ufficialmente impegnato nella discussione della nuova Costituzione guatemalteca e Laura Chinchilla, da tempo indisposta verso il governo di Managua.

Le divergenze e le controversie possono ancora oggi più della concordia. Il Centroamerica, a differenza di altre aree geografiche che, partendo dalle affinità culturali hanno saputo sviluppare relazioni ed alleanze, mantiene ancora oggi viva una disputa, che è fondamentalmente ideologica e che si è imposta come un ostacolo insormontabile per lo sviluppo integrale dell’area. Il tentativo di creare un organismo comune sul modello dell’Unione europea è fallito più volte, tradito dai nazionalismi e da rivalità che spesso hanno come denominatore antichi e anacronistici pregiudizi. Delle due istituzioni che nacquero dal trattato di Esquipulas II, il Sica (Sistema de Integración Centroamericana) funziona a singhiozzo ed il Parlacen (il Parlamento centroamericano) è una figura prettamente ornamentale. È proprio questa debilitazione nell’istituzionalità a pregiudicare le relazioni e a fare del Centroamerica un caso praticamente unico in un’epoca in cui le nazioni appartenenti ad una stessa area geografica cercano di avvicinarsi invece di amplificare le differenze.

La celebrazione dell’anniversario è quindi stata non solo l’occasione per tracciare un quadro dei risultati ottenuti dalla regione –che dispone comunque, a differenza di quei giorni bui, di governi e strumenti democratici- ma anche per denunciare i punti deboli di un sistema che, in molti casi, non ha saputo liberarsi di vecchi e logori usi e di consuetudini che ne minacciano costantemente l’efficacia.

La corruzione e la penetrazione delle mafie internazionali –il Centroamerica è e rimarrà, se non cambiano le regole, il corridoio naturale delle rotte della droga- rappresentano l’emergenza maggiore per le istituzioni, ma anche la politica e la società sono chiamate ad un maggiore impegno per poter ridurre emarginazione e povertà che si mantengono oltre il livello d’allarme. Secondo la Fao, la metà dei centroamericani –venti milioni di persone- è povera. Un numero che, invece di decrescere, è destinato ad aumentare per il costante incremento del costo degli alimenti a cui non corrisponde un equo rinnovamento del mercato del lavoro. Il tasso di violenza, che è tra i più alti al mondo (35 omicidi ogni 100.000 abitanti, ma in Honduras questo numero raggiunge quota 86) è il risultato della deficienza delle politiche sociali e di un neo-liberalismo che ha affrontato il compito dello sviluppo solo dal punto di vista degli affari e della crescita economica, dimenticando però l’importanza di considerare la società come parte integrale di questa crescita.

La scommessa per i prossimi venticinque anni nasce proprio dal considerare questa prima tappa solo come un inizio. Nel Centroamerica odierno, prigioniero delle contraddizioni, c’è ancora molto da fare.


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