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“A Émile Zola, Aix en Provence, luglio 1900” di Loretta Geslao

Creato il 11 agosto 2010 da Silviamaestrelli

“A Émile Zola, Aix en Provence, luglio 1900” di Loretta Geslao

Da "A GRANGOLA!", cerimonia di premiazione del concorso letterario di Villa Petriolo 2010 La gaia mensa


Terzo dei racconti segnalati al concorso letterario di Villa Petriolo “La gaia mensa” è "A Emile Zola Aix en Provence, luglio 1900" di Loretta Geslao (Teramo).
Loretta scrive di sé:
“Sono un’avvocatessa abruzzese amante della scrittura. Scrivo storie e racconti da quando sono piccola ed è il mio espediente catartico alle brutture della vita. Sono Dottore di ricerca in Diritto pubblico e collaboro con la cattedra di Diritto pubblico dell’Università di Teramo. Amo molto viaggiare, nuotare, ridere, disegnare e dipingere, raccontare barzellette”.
Nelle parole di Enrico Ghezzi il giudizio espresso dalla giuria: “A Emile Zola Aix en Provence, luglio 1900. Dove si scopre, e a tratti direttamente vi si assiste, il lavoro del colore, i pigmenti che passano di sostanza in sostanza, di corpo e terra in tela e in parola”.

“A Émile Zola, Aix en Provence, luglio 1900” di Loretta Geslao

Da I piatti de LA GAIA MENSA. Concorso letterario Villa Petriolo 2010


Terzo racconto segnalato
“A Émile Zola, Aix en Provence, luglio 1900” di Loretta Geslao

A Émile Zola
Aix en Provence, luglio 1900

“Carissimo Émile,
Puoi pensarmi senza un ritratto? Sono due giorni che non mi lavo le mani, sono imbrattate di tempera, mangio pere succulente e patate e poi dipingo. Molti anni sono trascorsi da quando noi eravamo amici. Cupo come mi credono tutti, ho ragionato a lungo sulla nostra storia, sotto «il pino sulla riva dell’Arc». «Ti ricordi il pino sulla riva dell’Arc, che protendeva la testa chiomata sopra l’abisso che si apriva ai suoi piedi? Quel pino che copriva i nostri corpi dalla luce arsa del sole…». Avevo diciannove anni, ma la scena era sempre la stessa, stesi sul telo a fumare, a pescare, a fantasticare di donne e di proibiti accoppiamenti, negli anni di Pastorale. Quello stesso canovaccio deve aver vestito anche Abramo alle querce di Mamre, quando comandava «tre staie di fior di farina, da impastare e farne focacce» per la mensa della Trinità di Rublëv. Io intanto rassetto i resti del pasto, e il loro disordine e mi sembra di avere intorno una bellissima natura morta, cose ben disposte sulla tavola assieme alle bottiglie ed alla stravagante frutta autunnale, quando l'aria brucia ed è estate. La stuoia di straccio l'abbiamo distesa sul prato, al dèjeuner sur l’herbe, con Victorine Meurent, insieme a Gustave Manet e allo scultore olandese Ferdinand Leenhoff, ed è diventato panno che copre la tavola, alla colazione del ristorante Fournaise con Aline Charigot e Angele, la modella e conoscenti ed amici, Lestringuez, Lhote, Caille-botte e gli altri canottieri, con Renoir, vicino alla Senna a mangiare pappa alle canocchie, sarde, acciughe e alici ripiene, anguilla allo spiedo e baccalà, gamberi alla menta e poi erbe aromatiche, timo, ginepro, e semi di finocchio e spezie e droghe: pepe bianco, nero, rosa, cannella, paprica e zenzero, cardamomo e germogli di «Mamao»... e su tutto chartreuse e vin brulé. Mi è tornata alla mente, mezzo ubriaco, la mia pittura. Così ho preso il mantile di lino e cotone e l'ho teso su un telaio di legno, un metro e mezzo per uno all'incirca, vi ho sparso colla di coniglio e poi due mani di imprimitura, l'ho gessato, vi ho posto insieme miele e olio di lino e l'ho fatto asciugare. Passeggiavano le idee aux beaux jours, all’ombra dei giardini in fiore, nel VII Arrondissement. Ho pittato colori fra i ricordi del Pomeriggio a Napoli, due giovani impegnati nelle fatiche d’amore e un servo nero. Ho usato la stessa tinta buia per i portatori di cibo, nel medesimo harem esotico dell’Oriente di Sardanapalo, della Cartagine di Salammbô, un “altrove” nel regno dell’orgia, della sfrenata liberazione dei sensi nel cibo e nel sesso. «Una grande ondulazione colorata, un abisso in cui l’occhio sprofonda, una sorda germinazione», desiderio e sensualità, una ridondanza di carni, di corpi, di argenti, di teli fastosi, come banchetti africani ai tempi della gloriosa Cartagine. «Accadde a Megara, quartiere di Cartagine, nei giardini di Amilcare». Ho schizzato il «velario di porpora a frange d’oro, disteso dal muro delle scuderie alla prima terrazza del palazzo», ho tratteggiato il palazzo «di marmo numidio screziato di venature gialle», disegnato «gli schiavi delle cucine, seminudi», i «crateri pieni di vino, anfore piene d’acqua» e perfino i piatti d’ambra gialla». «Una mistica lascivia si diffondeva nell’aria; già le fiaccole cominciavano ad accendersi in fondo ai boschi sacri; nella notte si sarebbe svolta una prostituzione generale; tre navi avevano portato cortigiane dalla Sicilia, e ne erano arrivate dal deserto». «La grande ampolla dorata al centro della composizione, e l’anfora azzurra a destra e i frutti sparsi sulla tavola poi grandi ampolle di elettro, anfore di vetro blu, grappoli d’uva con le foglie e limoni, melograne, zucche e cocomeri». Ho disperso sul tavolo tutte le mie arance rosse e rosa. Cibi afrodisiaci, sedano che accresce il desiderio sessuale, ostriche crude e banane che stimolano l’erezione, avocado, pianta dei testicoli, mandorle, mango, pesche e fragole, uova, fegato e fichi con cioccolato. Apparecchiatura di colore bianco, piatti dai bordi di perle, ceppi d’avorio, blocchi di neve che si sciolgono nei vassoi, carni sistemate su conchiglie, vassoi da cui si alzano colombe in volo. Forse ho ritratto anche dell’amore. «Sotto il melo ti ho svegliata; là dove ti concepì tua madre, là, dove la genitrice ti partorì» (Cantico dei Cantici 8, 5) «Qual melo tra gli alberi del bosco, così tra i giovani è il mio diletto, all’ombra sua, bramata, io m’assidio, dolce al palato il frutto suo» (Cantico dei Cantici 2,3) e poi mele, che cadono dal cielo sofficissime sulla tavola di neve. Zampilli d'acqua all’origine di tutte le cose. Esiodo e Talete di Mileto. «Madre-Acqua» a cui le donne si rivolgevano per avere figli; l’acqua della nascita, passaggio dall’indefinito al definito. «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Genesi 1,1), l’acqua «matrice di tutte le possibilità dell’esistenza». E un’altra mela color verde e oro, del tutto perfetta. Ricordo del paradiso perduto: la mela reale piena di succo, come il grembo di una donna, corre rotolando sulla mensa e raggiunge Eva. La sua tentazione.
La tovaglia, allora, diventa lenzuolo.
Storie di baci, accarezzi, palpeggi, spogli... Allora la dura tavola rende il piacere audace e crudele. Ma c’è pure del riso, della gioia: dalle più vaghe tenerezze alle più acrobatiche contorsioni dei corpi, il desiderio non sa mai in anticipo ciò che sarà spinto a fare. Si rallenta il passo, si abbassa la voce di colpo. Come sui gradini di una chiesa. Come dinanzi all’altare. Il linguaggio muto dei corpi. La secrezione. Quanto vi è di più segreto. Il piacere. Immagini affamate. I sette peccati capitali. Ogni angolo della tavola deve avere il sapore di un’opera d’arte, c’è il pane con granelli del caviale e le coppe di cristallo, filetto Strogonoff e salmone Pojarski. I nostri tempi effimeri e dorati, compendio concluso di gola e lussuria. Pasti afrodisiaci per erotici baccanali. I miei poeti Balzac e Flaubert, figurati in bianco e in giallo, stesi sopraffatti sul desco, discinti e ottenebrati. Tra i convitati ebbri, il duca Des Esseints, costernato per aver fallito l’amplesso fra le braccia dell’amante, cena in nero, listato a lutto, sorseggiando vino nero, per pietanze nere con salse nere, disposte a tavola da «negri ignudi». A destra, nel voluttuoso abbraccio di un mercenario, Cleopatra di Gautier, fatale, peccaminosa e sommamente crudele, che assaggia «murene ingrassate con carne umana, lingue di fenicottero e cinghiali ripieni di uccelli vivi». Quasi volando in fondo alla stanza incede il cuoco Escoffier che, al Petit Moulin Rouge, offre cavalli morti in battaglia alle erbe di campo, innaffiati d’assenzio. Dalle nuvole si sporge il giovane musico Bach. Suo è il suono del «clavicembalo ben temperato», 48 preludi e fughe e tutta la moltitudine delle scale, degli intervalli e delle tonalità in onore dell’anziano maestro Buxtehude che lo voleva suo successore all’organo della Marienkirche, a condizione, però che sposasse la poco avvenente figlia Anna Margaretha. Né Händel nè Mattheson, dopo aver visto Anna Margaretha, avevano accettato l’offerta. Anche Bach rifiutò. Ma gli dispiacque. E io l’ho issato sulla nuvola come uno stilita a sputare di sotto. Come me, con i suoi contrappunti, riflessivo e malinconico, nel preludio e nella fuga, austero e meditativo. Ci sei tu, con le tue parole di pietra, voltato di spalle e il tuo artista fallimentare Claude Lantier, che non sei riuscito a somigliarmi. Come lui, ninno la mia tela circonfusa di luce, fantastica e fiabesca. Sento tutti i profumi «.... e anche l’odore delle gocce, quando cadeva la pioggia, la sera, in agosto. Grazie a dio, siamo vivi!». Il bianco abbagliante mi colpisce sul viso - il sole, le nuvole, le cose dorate, me e il nostro destino. «Siamo in vita, amico mio!»… Paul Cezanne.”

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