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A Obama servono gli uomini di Bush per combattere il Califfo

Creato il 12 settembre 2014 da Danemblog @danemblog
(Pubblicato su Formiche)
L’amministrazione Obama ha richiamato dalla pensione il generale John Allen, per pianificare e coordinare lo “sforzo internazionale” contro lo Stato Islamico. Allen, generale a quattro stelle del corpo dei Marines, è un militare tosto ma anche un uomo capace di relazioni diplomatiche: una lunga carriera (l’ultimo incarico a capo del contingente ISAF in Afghanistan nel 2011), culminata con l’incarico di comandante supremo della Nato nel 2013, per il quale all’ultimo momento fu costretto a ritirarsi perché finito in mezzo all’incredibile vicenda che travolse l’allora capo della Cia David Petraus e la sua amante.
Allen fu uno degli elementi chiave nel coinvolgimento delle tribù irachene sunnite (il Sunni Awakening) studiato da Petraeus e George Bush per contrastare al-Qaeda nel 2007 – esperimento, per altro, riuscito.
Il piano di Obama, chiaro anche dal coinvolgimento dello stesso Allen, è adesso quello di ferire lo Stato Islamico non solo militarmente, ma anche dal punto di vista del sostegno, dell’economia e delle finanze, colpendo quelle che sono le statehood dell’IS – insomma, combatterlo come uno Stato vero e proprio e non come un semplice gruppo di terroristi.
La coalizione è ampia e contorta (in mezzo, con ruoli diversi, ci sarebbero una quarantina di Paesi), dalla Francia che ha già dato l’ok per raid aerei – i francesi sono in piena fase anti-jihadista, e giorni fa hanno anche ventilato la possibilità di ampliare l’operazione “Barkane” dal Mali alla Libia del sud – fino alla Siria. Il paese di Assad in realtà – per ovvie ragioni – non fa parte ufficialmente del gruppo, ma sarà necessario un qualche coordinamento per evitare controversie legali dietro a eventuali attacchi sul territorio di Damasco (questione su cui si è messa di mezzo anche la Russia); aree dove, inoltre, sarà necessaria concentrazione e precisione estrema per colpire le unità del Califfato, “dribblando” le forze governative e quelle dei ribelli “amici”. Assad, ancora una volta, si propone come spalla affidabile contro il terrorismo, “corteggia” il nuovo inviato Onu De Mistura e annuncia di avere strumenti adeguati e conoscenze specifiche sull’IS – ma poi bombarda Ahrar al-Sham, uno dei gruppi ribelli più forti e attivi contro il Califfo, sterminandone le figure chiave. Assad è ambiguo: l’Occidente non può certo fidarsi – di nuovo – di un regime doppiogiochista e feroce.
Altro passo importante della strategia per bloccare Khalifa Baghdadi, sta nell’intercettare i rinforzi di uomini che continuano ad arrivare da fuori. Il portavoce della Cia Ryan Trapani, ha annunciato giovedì che le forze del gruppo erano state sottostimate: dalle analisi dei rapporti del periodo maggio-giugno, si conterebbe un numero variabile tra i 20 mila e i 31 mila combattenti. Il numero che girava, era invece di 12 mila. Ma non si sarebbe trattato di un errore: secondo Trapani ci sarebbe stato un effettivo incremento dei “reclutamenti” conseguente alla vittoriosa campagna dei primi di giugno, che ha raggiunto il picco assoluto dopo la proclamazione del Califfato. Dunque nonostante le pressioni – e i bombardamenti – l’IS continua a rinforzare il suo esercito.
Forze locali, ma anche molti foreign fighters: per bloccare questi flussi, è fondamentale la collaborazione degli stati dell’area. La Turchia ha annunciato di aver espulso 830 stranieri diretti in Siria e Iraq con l’obiettivo di arruolarsi tra le file dell’IS (a questi, secondo Ankara, se ne aggiungerebbero altri 2000 arrestati, in quanto cittadini turchi). Ma allo stesso tempo il paese di Erdogan ha scelto di sfilarsi, almeno per il momento, dalla coalizione dei dieci paesi arabi che combatterà il Califfo. John Kerry inviato in Medio Oriente, incontrerà il presidente personalmente per cercare di raggiungere un accordo, ma intanto ha incassato l’appoggio definitivo di Arabia Saudita e Qatar (fondamentali per controllare i passaggi di denaro verso l’IS, attività che coinvolgono prevalentemente questi due paesi) e poi quello di Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Giordania (centrale per il coordinamento di intelligence), Libano, Oman, Kuwait ed Egitto – oltre l’Iraq, ovviamente.
Il ruolo di questi stati, sarà non solo fornire basi di appoggio e coordinamento – e attrezzature se necessarie – e stoppare i rinforzi ai jihadisti, ma anche quello di lavorare socialmente sui sunniti (iracheni). Senza l’appoggio delle tribù locali, sarà difficile portare a casa qualche risultato. Serve – e qui torna in primo piano il ruolo di Allen – quello che fu fatto nel 2007. Il grosso del lavoro il generale lo fece proprio nella provincia di Anbar – luogo problematico costato sforzi e vite agli americani, perché già infestato dai prodromi dell’IS. Ai tempi le garanzie di protezione e quelle finanziare ai potenti sceicchi sunniti, in cambio di un aiuto nel respingere le fazioni radicali,avevano funzionato. Servirà ripetersi, se sarà possibile – dato che le politiche settarie di Maliki hanno sconvolto il paese.
Ora il generale avrà un incarico meno operativo, non scenderà sicuramente sul campo, ma le sue relazioni saranno un punto necessario per il coordinamento della nuova coalizione – anche nella gestione dei rapporti con “paesi difficili” come Turchia e Arabia Saudita. A Obama servono uomini in grado di gestire un’ampio spettro di soluzioni: perché la pressione militare dall’alto, da sola non basta e non basterà – a dirla tutta, servirebbe anche un Petraeus.

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