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“A un tratto il vento”, di Moira Fusco. Un racconto inedito

Creato il 09 novembre 2014 da Lucianopagano

“A UN TRATTO IL VENTO” – Moira Fusco

Stavano cadendo le foglie, le ultime di Ottobre, e con loro se ne andavano i colori caldi dell’Autunno, il giallo paglierino misto al marrone-terra intenso, che sapeva tanto di quella stagione e del suo clima ancora caldo umido e, quasi per caso, un po’ di passaggio.
L’arrivo dell’Inverno non aveva tardato a farsi sentire.
Nina aveva freddo e zero voglia di fermarsi a sistemare l’armadio, i cambi di stagione li aveva sempre odiati, non sopportava l’idea di mettere ordine in quel “caos calmo” di indumenti in cui tutte le volte ritrovava un po’ di sé stessa, seppure in tempi e stagioni diverse.

L’Inverno stava arrivando, e l’unica cosa certa era che le era tornata la voglia di scrivere: una voglia estranea ai suoi impegni quotidiani, che esigeva essere assecondata mentre si faceva strada sicura, e pronta come una voragine a risucchiare il resto.
Doveva scrivere: scrivere di lei, di quei cambiamenti che da mesi la accompagnavano, rielaborare quegli accadimenti segnati da non poco dolore.
Il ritorno dalla “città eterna” non era stato semplice, l’aveva quasi tramortita lasciandole uno strano senso di stordimento e l’ansia di dare un significato a tutto ciò che sarebbe arrivato: ma quel “significato” era difficile da trovare.
Nina raccolse le matite che la sera prima erano rotolate a terra, senza nemmeno chiedersi come ci fossero finite lì, mescolate alla cenere venuta fuori dal camino: le piaceva sedere accanto al suo fuoco caldo, scoppiettante, profondamente accogliente.
Non indugiò oltre con i pensieri, troppo pericoloso il confronto con le emozioni; raccolse tutto, si infilò rapida il soprabito avvolgendosi con uno dei suoi foulard dalle tinte forse un po’ troppo estive, e si diresse fuori senza una meta precisa. Voleva restare con sé stessa, era tanto che non lo faceva. Di quei suoi momenti ne aveva avuto sempre bisogno, le servivano per assestarsi, per riprendersi le sue ombre, rimescolarle e trasformarle in energia vitale e più produttiva.

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Poi d’improvviso, quando ormai la soglia di quel cancello un po’ scolorito era stata varcata del tutto e la sua voglia di tirare fiato era divenuta sempre più invadente, lo squillo stonato del telefono la riportò bruscamente alla realtà, e trasalì di colpo:
«Pronto» disse, senza nascondere il disappunto per quella chiamata giunta in un momento così ricercato. Dall’altra parte però, nessuna risposta, a parte il bip cadenzato della linea interrotta, che si ripeteva snervante come una cantilena.
Nina salì in macchina, girò decisa le chiavi , ed ecco di nuovo, lo squillo del telefono:

«Pronto» rispose in tono più secco stavolta.
«Nina sono io…» ribatté una voce dall’altra parte, tono basso e incerto tanto da farle credere, per un momento, che il suo interlocutore non fosse chi conosceva bene, ma un altro uomo, forse un omonimo con il suo stesso nome: poteva essere?
«Andrea, ancora? Quante volte devo dirtelo? Quante? Abbiamo rotto, stavolta è finita davvero. Non angosciarmi!»
«Nina… ti prego, ripensaci, non adesso, non così» disse quell’uomo di cui nulla sembrava più essere sopravvissuto nel presente, «Te l’ho promesso, cambierà, cambierà tutto, credimi! Non lasciarmi, ho il vuoto dentro…»

Così disse quella voce tremula e irriconoscibile. Com’era diversa da quella sicura e calda che un tempo l’aveva quasi rapita in un gioco di frasi costruite per ogni circostanza, con la grazia seducente del più attraente tra gli inganni. Quell’uomo l’aveva soggiogata per troppo giorni tra la dolcezza estrema delle sue carezze, e la passione di quelle notti lunghe e irripetibili che le lasciavano il suo odore addosso fino al mattino dopo, tanto da prevalere in modo prepotente sul suo profumo alla vaniglia nera.
La maturità degli anni conferisce forza agli uomini troppo generosamente, Nina questo lo aveva sempre saputo, ma non riusciva più a perdonare quell’uomo, non era disposta a farlo e, forse, ancora meno, perdonava sé stessa. Come aveva potuto essere tanto cieca di fronte all’evidenza assoluta? E per quale ragione, si domandava tormentandosi, non era riuscita a padroneggiare quel turbinio di emozioni che l’avevano invasa senza nemmeno la grazia di un preavviso, lasciandole uno strano vuoto al quale non sapeva più assegnare un nome.
Era giunta alla conclusione, di come nella vita esistessero due tipi di dolore: quelli provocati da noi stessi, dirette conseguenze del nostro agire e, quindi, evitabili con la doverosa coscienza e sano raziocinio; e quelli agiti dall’”alto”, per conto forse di un Dio impietoso o, semplicemente, risultato di un destino immeritevole. Questi ultimi erano, sicuramente, i più difficili da superare, e la capacità di non cristallizzarli in dei traumi permanenti dipendeva dalle risorse interiori che una persona possedeva e dalla forza che aveva sviluppato nel corso della sua stessa vita; i primi, invece, corrispondevano a qualcosa che volendo si poteva evitare, o per lo meno, “aggirare” con dovizia di coscienza e pensiero. E dov’era finito il suo? Quando Nina se lo era chiesto, aveva compreso di averlo smarrito nelle oscillazioni costanti delle sue giornate. “Rassicurante “quella storia non lo era mai stata, di certo, non per lei.

«È finita Andrea, non una parola, basta!» fu questa la sua ultima frase a cui seguì lo spegnimento del telefono.
Accese la macchina e affondò il piede sull’acceleratore tra un misto di rabbia e orgoglio da difendere, consapevole di essere libera da tutti quei giochi viziati, dalle bugie e dai tentennamenti, dalle illusioni di quell’amore terribile dal sapore dolce-amaro che si fondeva con i suoi moti interiori desiderosi di quiete, una quiete che tardava ad arrivare, o che, forse, lei stessa rendeva difficile assecondare.
Stava già camminando da un po’, a velocità fin troppo accelerata e aveva attraversato tutte le colline: Firenze alle sue spalle era ormai fin troppo lontana, non era più percepibile a occhio nudo e con lei, la voglia di ritornare indietro. Cominciava a piovere, l’odore della pioggia diventava tangibile con le goccioline che stavano cospargendo a macchia d’olio il vetro della sua macchina, con il benestare dei tergicristalli ormai troppo vecchi e poco d’aiuto.

Aveva percorso chilometri senza chiedersi dove stesse andando, in una corsa che aveva dato il là alla rassegna analitica dei suoi anni romani, avvolti da perché che non avrebbero mai ricevuto risposta. I ricordi l’avevano soggiogata tra stati d’animo agli antipodi, sospesi nel limbo del non senso, spudorati nella capacità di ferirla in ogni lembo di pensiero.
Tra quei sentieri della maremma toscana, fatti di macchie verdi fitte, evidentemente estranei da tempo a qualsiasi forma di presenza, Nina aveva percorso a ritroso lei e Andrea, in tutte le sfumature di cui avevano saputo contornarsi in quasi quattro anni di vita insieme. E le era tornata alla mente proprio quella mattina così simile a tante altre, quando con l’Estate già vestita d’Autunno, se n’era andata rapida come il più brusco degli Inverni. Aveva seminato il panico in quella stanza da letto che le era stata sempre fin troppo grande, fino al corridoio del bagno, rovesciando tutto ciò che le si presentava facile e a portata di mano.
Si era svegliata e, per la prima volta, davanti allo specchio, quello preferito da sua madre riservato al rituale del mattino, si era guardata stentando a riconoscersi in quei suoi 36 anni volati via tutti d’un fiato: quando anche tutte quelle notti si fossero consumate, cosa le sarebbe rimasto se non la presenza fissa della nostalgia? Una nostalgia terribile, di quelle che non riesci ad acquietare, che ha il sapore di una rinascita fin troppo breve da lasciarsi apprezzare.
Quante volte le loro parole avevano fatto l’amore scivolando l’una tra la bocca dell’altra? Troppe volte si erano tirati contro tutte le ragioni per cui non si poteva continuare quell’amore che sembrava una variabile impazzita, per poi ritrovarsi uniti, in una stretta che la sua pelle ricordava ancora.
Eppure da quelle braccia Nina aveva deciso di fuggire, senza voltarsi mai indietro per non rischiare il peso della nostalgia che sapeva bene attanagliarle il respiro, al pari delle loro bocche quando si univano per ore, e il tempo non era più una questione che apparteneva all’uno o all’altro ormai persi nell’altrove.
Partire per un dove forse non ancora stabilito; partire per salvare sé stessa prima ancora di salvare quell’amore che riusciva a consumare e piegare al pari di un pianto disperato, il piacere della sensualità era un prezzo alto da pagare.
Stavolta Nina aveva deciso di scegliersi davvero, e finendo l’ultima sigaretta, in quella che per anni era stata la loro casa, su un pezzo di carta usato su un lato, recuperato dal vecchio tavolo in cucina che Andrea aveva ristrutturato come tra i più cari dei suppellettili antichi, lei aveva scritto:

La fine segna il mio inizio…
Tra tutte le alternative possibili
Scelgo lo spazio che ora ci separa.
Lo affondo nel blu di queste lettere composte
E lo riaffido a te; perditi in esso, e se ci riesci, inventa nuove parole.
La donna che ero è la donna che ancora sono.
C’è stato un tempo in cui l’avevo scordato.
Per fortuna ho fatto un corso di tecniche di memoria.

E poi si era firmata: Nina.

Così era andata quella fuga sulla strada di un non ritorno, e non le restava altro se non viverlo in tutto il peso che comportava.
Le note di “I ve got see you again” con quella linea di violino malinconica, sulla voce di Norah Jones, la riportarono alla lucidità del momento, e alla sua macchina che sembrava perdere energia quasi quanto lei.
Nina si riguardò bene intorno, forse si era persa:
L’hai fatto di nuovo – si rimproverò – mai un freno alla tua impulsività! E adesso? Possibile che non ci sia ombra di segnaletica? Figurarsi, in queste strade dimenticate da Dio! È la volta che ci rimani tra questi quattro tornanti circondati dal nulla, e finalmente ti passerà il bisogno introspettivo di solitudine… donna testarda che sei! -
Parlare a voce alta era qualcosa che si portava dietro da bambina, un tratto di cui non riusciva e non voleva liberarsi: lo faceva senza prestarci attenzione, andava in automatico ogni qualvolta si presentava una situazione particolare, quella modalità di riflettere riusciva sempre a procurarle un ché di serena rassicurazione.
Poi d’un tratto, quasi al confine del lato destro della strada, le sembrò di intravedere una sagoma, forse un uomo, tra quella pioggia che si era fatta ancora più fitta non era facile mettere a fuoco nulla.
Rallentò e accostò piano, mentre quella figura iniziava a scorgersi in modo sempre più netto: immobile, sotto una pioggia che non dava cenno di tregua, un uomo era lì, come se stesse aspettando qualcosa o qualcuno, mantenendo sotto il suo braccio destro uno strumento che sembrava essere un violino.
Nina frenò davanti a lui, non si poteva credere che fosse lì immobile, e a giudicare dal suo aspetto, completamente fradicio, chissà da quanto tempo!
Abbassò il finestrino della macchina un po’ diffidente, e poi chiese:

«Che ci fai sotto questo diluvio? Vuoi una mano?»
I suoi occhi incontrarono quelli del ragazzo, penetranti e scuri, così sereni nonostante quell’atmosfera dai colori grigi, preludio di un altro temporale in arrivo: quegli occhi la fissavano nella semplicità più disarmante, facendola sentire più piccola che mai.
Il ragazzo ci mise qualche secondo per risponderle, un tempo che a Nina parve interminabile.

«Hai visto che spettacolo?» le chiese d’un tratto.

Come che spettacolo? Com’era possibile una simile osservazione, interamente fradicio, tra quelle strade che sembravano un labirinto sfacciato senza via di fuga.
Nina stava per salutare in fretta, premere l’acceleratore e proseguire con un misto di sgomento e angoscia dovuta al timore di non riuscire a tornare indietro, quando lui la incalzò nuovamente, sorprendendola, quasi avesse letto la sua ansia di andare:

«Hai mai pensato» le disse «che quando la pioggia cade così forte, trascina con sé ogni peso che ci portiamo dentro? Ti sei mai fermata ad ascoltarla, ad ascoltare il suo ritmo intendo: è simile a quello di una danza, sembra quasi la danza dell’anima. Lo senti? Quando cade sulle pietre rimbalzando e colpisce ciò che trova intorno, il suo ritmo cambia e si fa a singhiozzo; poi ritorna lo stesso, ordinato e perfetto come un meraviglioso tempo in quattro quarti! Non sono pazzo sai?» sorrise, sollevando leggermente il lato destro della bocca, lasciando scivolare le sue parole come la più ovvia delle verità «Ho solo la musica dentro!»
Nina non riusciva a mettere a fuoco ciò che stava accadendo, sapeva solo che il suono di quella voce era ancora peggio di quegli occhi irruenti.

«Sali dai» disse senza esitare «sei completamente fradicio!»
Ormai era andata e non aveva voglia di pensarci troppo; quel ragazzo e il suo modo surreale di parlare la attiravano peggio di una calamita.
«Sto lavorando al mio ultimo spartito» disse il ragazzo rompendo il silenzio e l’imbarazzo che accompagnano l’arrivo di uno sconosciuto, «ho bisogno di ascoltare i suoni “puri”, le assonanze e dissonanze che ci sanno svelare solo gli eventi naturali, quelli che non sappiamo più decifrare».

«Sei un musicista? Come ti chiami? Hai un modo strano di comporre, sai! Mi hai spaventata a vederti lì, sul ciglio della strada, fermo quasi fossi un sasso. Il mio nome è Nina e a quanto pare sono una scrittrice distratta, che perde facilmente le coordinate temporali fuori dal suo studio. Mi sono persa mentre cercavo di ritrovarmi, è curioso, no?»
«Affatto!» le rispose il ragazzo «Io mi perdo più volte in uno stesso giorno, e ogni volte che ho a che fare con un nuovo ensemble di note! È la parte più affascinante della mia ricerca: per tendere al nuovo bisogna essere disposti a perdere qualcosa, ma la ricompensa è così dolce che ne vale il prezzo! Ah, mi chiamo Mauro».

Quelle parole la colpirono: Nina fermò la macchina che iniziava a dare cenni di sofferenza, era troppo vecchia per reggere il peso di tanta pioggia e temeva che si sarebbe spenta da un momento all’altro, proprio lì nel mezzo dei tornanti che avrebbero dovuto ricondurla alla sua amata Firenze.

«Dobbiamo fare una sosta o rischiamo di rimanere qui non so quante ore, sarebbe terribile!»

Pronunciò queste parole così in fretta da lasciar trapelare l’imbarazzo che le accompagnavano: era un imbarazzo insolito, nel quale non si riconosceva; del tutto inaspettato carico di una sensualità che la sconcertava e non concedeva il tempo della pausa di un respiro.

Mauro rimase in silenzio, senza un minimo cenno di risposta la guardava quasi assorto. Ora che, di colpo, era diventato taciturno e quasi assente solo l’elettricità che le sue mani sapevano sprigionare offriva il segno della sua presenza. Quelle mani Nina non riusciva a smettere di fissarle, tra mille pensieri che la attraversavano, proprio come stava facendo la pioggia in ogni forma che li circondava.
Non ci si poteva fidare di mani come quelle, erano mani che sapevano suonare la musica, fare volare le note e la fantasia al pari dei fumi dell’alcool. Non ci si poteva fidare di una mente come quella, in grado di superare la realtà con l’attimo rubato di un battito di ciglia.

«Se vuoi ti faccio ascoltare la mia musica; non sono bravo con le parole… è lei il mio linguaggio. Tu però promettimi di restare per pochi secondi sospesa con il pensiero… Ce la fai?»

Si erano fermati nel bel mezzo di una strada poco agibile: l’acqua si era raccolta in delle pozzanghere terra marrone che le ricordavano tanto le strade del paesino in cui aveva trascorso i suoi anni più belli, tra i racconti di donne che usavano riunirsi verso l’imbrunire dei caldi pomeriggi d’estate, quando le strade si riempivano di sedie pazientemente trasportate dagli angoli delle cucine ancora calde e in fermento. Insieme, fedelmente raccolte come una promessa, quelle donne si ritrovavano nella afosa calura salentina per raccontarsi la loro storia quotidiana, mescolando verità a piccole fantasie cucite a regola d’arte per ogni circostanza e ogni personaggio ignaro di quanto stesse accadendo. Nina le guardava e ascoltava, aspettando inquieta il momento del caffè, quel profumatissimo caffè nero bollente: prenderlo assieme alle altre donne segnava una linea di confine significativa, che preannunciava il passaggio verso l’età adulta, verso quell’essere donna che così tanto la incuriosiva in ogni dimensione che schiudeva. Il tintinnio dei cucchiaini e la voce di sua nonna che si confondeva a quella delle altre donne, in una piccola stradina bianca di passaggio, che tante storie aveva accolto e tante altre ancora ne avrebbe restituite.

Il suono vibrato del violino di Mauro la fece trasalire, interrompendo di colpo quel legame con il passato, e irrompendo con scale in minore che le raggiunsero rapidamente l’anima.
«Ora ti ascolto» disse Nina, tradendo nella voce il peso dell’emozione resa più vulnerabile dalla nostalgia del ricordo.

Era la stessa emozione che precede il tempo della scoperta, quella che accomuna gli amanti nei loro rituali d’amore, fatti di giochi sottili e tecniche di seduzione lente, leggere, in un desiderio sfiorato prima ancora dalle menti che dalla voluttà dei corpi.
E così quel violino iniziò a suonare, in complice accordo con il cadere della pioggia, si faceva strada tra le linee dei pensieri di Nina, deciso a riempirli tutti di colpo.
Era davvero la musica dell’anima, quei suoni aprivano spazi dapprima sconosciuti, colmavano silenzi, quei silenzi in grado di liberare dal superfluo ripercorrendo la strada dell’inconscio: filari secchi di piante di tabacco e Sole mediterraneo in cui i piedi di Nina si perdevano, raccogliendo profumi che si sarebbe portata dentro per sempre, rendendola la donna dalle mille angolazioni sfumate che ora era. Le note suonavano in moto perenne, lo stesso di quel mare che tante volte Nina aveva guardato, e poi attraversato perdendosi dentro, nelle sue giornate di nostalgia e di ricerca di senso. In quelle onde rapide Nina si era tuffata più volte, e più volte aveva scelto di risalire.
La musica di Mauro era per Nina un viaggio dell’io nel profondo, un io affacciato su di esso che riusciva a fissarlo in modo imbarazzante, senza ammissione di menzogna; un viaggio da cui non si poteva tornare, nel quale i pensieri correvano il rischio di apparire simili a specchi spaccati al centro, poco credibili in ciò che restituivano alla vista; la sua vita in una melodia intrisa di accenti, di un pentagramma che il ragazzo aveva disegnato in modo imprevedibile nella sua mente. Era lei ancora di fronte alle sue scelte, nel bene o nel male erano state fatte tutte, e ora non le rimaneva che proseguire, stringendo forte l’amore di sua madre, intenso come il profumo dei ciclamini rossi che le aveva lasciato sulla finestra, mai sarebbe passato, né mai l’avrebbe lasciata.

All’improvviso Mauro si fermò, forse si accorse di come Nina lo stava guardando, o forse del vento che si era alzato a un tratto, quasi a voler insistere sulle sue mani: scoprì lo sguardo attento di Nina e afferrò la sua mano con fermezza: come era calda quella mano di donna! Un calore che lui non conosceva bene, o forse aveva dimenticato; una mano profumata della vita che Nina portava con sé, come si porta una valigia che ha i segni del tempo e delle stazioni nelle quali è passata, fatta di sguardi di passeggeri che la incrociano tra i binari diretti verso mete destinate a schiudere il nuovo.
Mauro avvicinò le sue labbra a quelle di Nina, erano belle e pronte a sottrarsi alla prima occasione lecita, cosi che nessuno avrebbe potuto obiettare loro nulla, nemmeno l’accenno di un torto subito. Nina sentì la pelle di Mauro già troppo vicina alla sua, e fece un passo indietro per ritrarsi, in fondo era ancora in tempo, perfettamente in tempo per scappare:
«A volte mi sento una scheggia impazzita, troppo rapida perfino per me stessa» gli disse di colpo, sperando di mascherare quell’imbarazzo che poco si spiegava, «Tu hai le dissonanze dei tuoi accordi, io il mio vissuto che disegna il futuro a suo piacimento; è lui a decidere dove vuole che io lo segua: il problema è capire se si tratta dell’ennesimo giro di giostra o di un salto nel cristallino…»
«Forse dovresti ascoltarti e basta, e affidarti alla musica che ti suona dentro, è difficile che lei menta. Sono venuto qui ad ascoltare il rumore della pioggia perché solo lei poteva restituirmi il ritmo della musica che stavo perdendo. Sono giorni che viaggio, voglio attraversare la Maremma intera e forse tra queste macchie un po’ perse riuscirò a terminare la mia opera, la più complessa di tutte… ma tu non mi hai ancora detto dove stai andando?»

Nina distolse lo sguardo per affondarlo nel verde degli alberi che li circondavano come in un abbraccio, poi sentì la mano di Mauro sfiorarle il collo e scostarle i capelli con una dolcezza che aveva scordato: in un’altra dimensione, in un posto non definito e nello stesso istante, lei e Mauro erano insieme, intenti a bere una tazza di the caldo, in un antico casolare di fronte a un fuoco rosso come le vibrazioni che accendevano ogni loro gesto a dispetto degli anni trascorsi. In un’altra dimensione, Nina e Mauro erano al passo, senza limiti temporali viaggiavano su onde di condivisione che sfuggivano alla quotidianità dell’ovvio: lei lo accarezzava al ritmo di una musica che non conosceva i contorni delle pause.
Mauro sembrò leggerla tra i pensieri, si avvicinò a Nina stringendola forte di colpo. I loro corpi si unirono in quella pioggia che non voleva arrendersi, affondarono l’uno nell’altra tra i piaceri delle bocche che per tutto il tempo non smisero di assaporare i respiri più rapidi e caldi, finché anche le loro menti finirono per fare l’amore. Istantanea di un’unione che sapeva fare a meno dei dettagli della descrizione, Nina stava facendo l’amore come non le capitava da tempo, tra i giochi di luci e di ombre in cui Mauro riusciva a trascinarla senza sforzo; senza difese da fare scattare, le rimaneva il piacere puro mescolato all’incoscienza degli anni che da lui la separavano, ma a quello ci avrebbe pensato in un momento ben diverso.

Quando il piacere estremo raggiunse entrambi, i loro occhi si incrociarono ancora scoprendo il blu intriso al buio:
«“E quando l’ultima nota suonerà, il tuo pensiero avrà sondato l’ultima zona del mio essere e, perdutamente, in te annegherò i miei sensi e ancora ti verrò a cercare… Che donna sei Nina? Quanto sei disposta a lasciarti cercare?». Così disse Mauro, spiazzandola di colpo «Quanto concedi di te a chi ti sfiora incrociandoti di passaggio?»
«Non c’è passante che mi faccia fermare» rispose Nina passandosi una mano tra i capelli, un gesto che faceva spesso con una sinuosità quasi inconsapevole «il mio viaggio non conosce la parola fine Mauro, né ha una città d’arrivo. Sono nomade forse più di te. Sono il tempo che mi è scivolato addosso e le distanze abitate dei miei anni trascorsi. Ho il fuoco dentro che brucia, e conservo il segreto del divenire e del ricordo nel loro continuo alternarsi, aspettando che uno lasci il posto all’altro. Sono la forza e il coraggio di mia madre iscritti al tramonto di una terra che profumerà sempre di Sole; sono ciò che la mia terra mi rimanda in archetipi che hanno concorso alle nostre esistenze, condannandoci a una ricerca di quiete che non vedrà mai fine. Sono la donna che ti ha soccorso sotto la pioggia, fiume in piena dei miei sogni dorati, sospesi nel luogo dell’altrove dove ogni cosa ha la sua ragione d’essere e dove il mio io sfaccettato si nutre della dolcezza eterna del sentire autentico, armonioso e dissonante proprio come la tua musica».

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Nina sembrava quel treno in corsa senza fermate che aveva descritto: Mauro le accarezzò il volto in un gesto colmo del suo sentire, conosceva bene la sensazione di perdersi e il coraggio di osare in quella ricerca di cui quella donna gli stava parlando, ma ora ogni cosa appariva diversa: quella donna riusciva a farlo vorticare come foglia nel ciclo del vento. Al pari della sua musica lui l’aveva denudata, e ora lei le restituiva il colpo, riassestandolo con eleganza sottile. Entrambi si erano dati, e il risultato era stato la contaminazione di due mondi tanto imprevedibili quanto rapidi come un “giro di giostra”; due esistenze a confronto con il loro viaggio di auto-scoperta e di esplorazione.
La musica di Mauro non sarebbe stata più la stessa, sarebbe suonata diversa: Nina gli era entrata dentro, aveva finito per insinuarsi tra le note dei suoi accordi, puntuale e inevitabile come un abbellimento su uno spartito.

Mauro era lì, la guardava con gli occhi sgranati colmi di coraggio e della sfrontatezza tipica dei vent’anni: non se ne andava, non spostava di un solo millimetro il suo corpo da quello di Nina, la teneva stretta in quell’abbraccio che aveva ricevuto la grazia della misericordia, consapevole che se avesse abbassato lo sguardo Nina avrebbe svicolato in velocità e preso la strada del ritorno. Lui non voleva: la voleva ancora e ancora desiderava oltrepassare quello sguardo di donna pregno di ricordi, di indizi sfumati di una vita trascorsa tra innumerevoli volti, tra i tetti di una Roma raccolta tra le voci del Mercatino dei Fiori, a un passo da Trastevere.
Nina lo guardò ancora, di nuovo padrona di sé stessa, aveva infilato il golf un po’ umido: lo spazio di uno pausa li separava, una piccola pausa nera segnata su un pentagramma che lui aveva già scritto e deciso, dirigendo l’inizio e la fine della sua musica; ma lontano da essa, lontano dal suo strumento, che direzione avrebbe scelto di dare a quel loro incontro?
Così Nina decise di riconoscersi e di scegliersi ancora, di tessere un’alleanza profonda con sé stessa, prima ancora che con il mondo esterno. E in quel patto interiore dalla forma così personale, ritrovava tutto ciò che aveva costruito e che ora era pronta a dare. I profumi dell’anima sarebbero rimasti tali ovunque il suo sguardo si fosse arrestato e l’avrebbero preceduta in ogni sentire, dire o immaginare, pronti a mostrarle, fra cenni taciti e immediati, la direzione da seguire.

Tra quelle strade perse della Maremma, il mondo si era ritirato con il suo sapere e la fiducia estrema in esso: Nina e Mauro erano rimasti lì con i loro immaginari dalle tinte troppo personali da potersi raccontare. Un dialogo tacito tra due inconsci, piccolo scontro fra titani che faceva vibrare come la corda di un violoncello sotto un cielo plumbeo e l’aria rosa. Il vento stava di nuovo per arrivare, lo sentiva disegnare spirali decise al confine con la sua stanza fiorentina: ancora una volta sarebbe rimasta lì a guardare.

Moira Fusco è responsabile per la comunicazione della Comunità San Francesco (SanFra) di Ugento, ed è autrice di articoli e campagna di comunicazione contro la violenza di genere; fa parte dell’Osservatorio Donna dell’Università del Salento.



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