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A volo di Falco sui vigneti del Rossese

Da Iltaccuvino

Rossese 002Mi ero perso il viaggio che mi avrebbe portato a calpestare quelle antiche vigne, ma attendevo la serata che avrebbe svelato cosa Francesco Falcone (in arte Il Falco) aveva scovato nelle terre del Rossese di Dolceacqua. Un viaggio che lo ha portato tra le montagne che salgono ripide dal Mar Ligure verso le Alpi, a pochi passi dal confine francese, seguendo il corso dei torrenti che danno i nomi alle diverse valli che corrono lungo l’asse nord-sud a scandire territori e microclimi tanto diversi quanto vicini. E così scopriamo i nomi di fiumi misconosciuti ai più come Roia, Nervia, Verbone, Merdanzo e Borghetto, lungo le cui valli si disseminano oggi pochi vigneti, una sorta di resistenza storica e stoica della viticoltura, che qui contava circa 3000 ettari dedicati agli inizi del 1900, mentre oggi sopravvivono circa 90 ha, in mano a una trentina di produttori, di cui la metà dopolavoristi e/o “garagisti”. Pochi appezzamenti minuziosamente frazionati lungo 33 cru riconosciuti, ovvero menzioni geografiche (o nomeranze) che delimitano aree determinate da particolari condizioni pedoclimatiche, summa di altitudini, terreni, esposizioni, ventilazione e pendenza che caratterizzano in maniera univoca e riconoscibile i prodotti delle vigne che lì albergano, spesso da svariati decenni.

Altra peculiarità del Rossese di Dolceacqua è infatti l’incredibile longevità dei suoi vigneti, talora anche prefillosserici, ovvero ultracentenari, dato che l’arrivo dei primi innesti post-fillossera dalla Francia è datato agli inizi del 1900. Basti pensare che l’età media (e sottolineo media) dei vigneti è di 45 anni, valore che si sognano in molte delle più pregiate e famose denominazioni italiane.

A raccontarci del prezioso panorama vitivinicolo delle sue terre c’è Filippo Rondelli, titolare di Terre Bianche ma nell’occasione intervenuto in veste di ambasciatore del Rossese, al fianco di Francesco Falcone, entusiasta di condividere con gli appassionati l’enorme patrimonio di questi vini. Rondelli è stato uno degli attori principali nel realizzare la zonazione dei cru, partendo dai circa 2000 toponimi vocati alla viticoltura, già codificati a  fine del 1800, per arrivare ai 33 cru attualmente identificati e ritenuti i più significativi, in termini di qualità ma anche di quantità, pur lasciando già la porta aperta ad alcune zone per ora escluse ma già ritenute di potenziale, che potranno accodarsi alle attuali menzioni se nel prossimo futuro daranno i frutti sperati.

Queste terre sono così poco note ai più così come si rivelano piene di aneddoti, tra i quali sicuramente l’amore folgorante di Veronelli per questi vini, tanto da fargli definire il cru di Curli, a Perinaldo,  nientemeno che la “Romanèe Conti italiana“. E davvero si possono incontrare espressioni davvero diverse e ogni volta affascinanti del Rossese, perché ogni angolo di queste terre trova analogie con le zone più vocate d’Europa. Assaggiando Rossese si possono trovare punti di contatto col Priorato come con la Provenza, e poi scoprire vigne che fanno pensare alla Cote Rotie, per pendenze estreme e densità notevoli, e ancora si trova un tale dialogo tra mare e montagna da avvicinare queste zone al Roussillon.

Basti pensare che queste valli godono di un’esposizione solare paragonabile alle Langhe, e basse precipitazioni, pari a un terzo della media ligure. Lungo il percorso dei torrenti si incontrano 5 fasce climatiche, dal mediterraneo al continentale al subalpino, con step intermedi fra i tre. Nelle aree subalpine si arriva in agosto ad avere escursioni termiche di 14-16ºC, che è inutile dire sia cosa ottima per concentrare i profumi negli acini. Si mantiene più mediterraneo il clima in Val Verbone, in quanto è chiusa a nord da Perinali, con monti che frenano correnti fredde dalle Alpi mantenendo maggiore calore, che porta a vendemmia molto anticipate rispetto ad aree più fresche come ad esempio la Val Nervia, aperta a nord sulle montagne, e particolarmente rinfrescata nelle notti.

Le vigne del Rossese partono dal livello del mare e salgono fino oltre i 600 metri, nel cru di Borghetto, situato comunque molto vicino al mare. Come accennato le piante sono nella maggior parte dei casi vecchie, e in alcune esempi anche centenarie, su portainnesti ormai obsoleti, e la coltivazione e spesso ad alberello, sia a palo singolo che modificato a spalliera, comunque con potature corte e basse, adatte a queste zone siccitose e su terre prevalentemente drenanti.

Il Rossese è un vitigno davvero unico, che non mostra comunanze genetiche con altri, salvo col Tibourain, una varietà minore della Provenza, lì usata in blend per la produzuione di rosati. Sembra quindi essere un vitigno antico, la cui foglia molto prezzemolata denuncia l’origine mediorientale (Grecia).
Un vitigno ormai legato a doppio filo ai pendii ripidi e scistosi del Dolceacqua, dove soffre però di rischi di gelate e conseguenti acinellature, nonché di virosi, che contribuiscono ad avere grappoli spargoli, che se da un lato limitano le quantità dall’altro possono dare vini concentrati e ricchi di materia (Borgogna docet).

Il Rossese è in mano oggi a produttori che sono quasi sempre veri artigiani del vino, capaci di vini che coniugano il piglio nordico col calore e le spezie del Mediterraneo, che per i poco avvezzi alla denominazioni si può far immaginare come qualcosa di affine alla Schiava o al Dolcetto, ma con plus di calore e la capacità di arrivare ad espressioni davvero vicine a grandi Pinot Noir di Borgogna (e ne abbiamo avuto belle dimostrazioni durante la serata).

Prima di passare agli assaggi andiamo a scoprire anche i terreni che caratterizzano Dolceacqua, partendo dallo sgrutto, o Flysch di Ventimiglia, una sorta di sfarinato grigio a scaglie, figlio di substrati rocciosi e argillosi, caratterizzato da un drenaggio equilibrato, molto inferiore rispetto ad esempio alla sabbia, cui può somigliare come grana.  Questo terreno trova varianti più agglomerate, per maggiore presenza argillosa che unisce i frammenti e arricchisce il terreno. Altra matrice molto diffusa nel territorio ma sulla quale poggiano pochi vigneti, sono i Conglomerati di Monte Villa, misto di argille e ciottoli, che si ritrovano nei cru di Pian del Vescovo e, con inserzioni di ardesia, ad Alpicella.
Una variante del precedente è nota come argille azzurre o marne blu, dove al posto di ciottoli si trovano conchiglie  e fossili marini ad alleggerire le argille chiare, ed è il suolo che caratterizza i vigneti di Arcagna.

La serata, che ci ha visto ospiti del Ristorante Il 25 di Carpi, prevedeva due piatti di pesce preparati dall’impeccabile cucina del locale, e non poteva mancare un abbinamento con due vini bianchi, sempre dalle terre del Rossese, portati da Filippo Rondelli.

Iniziamo col Terre Bianche – Riviera Ligure di Ponente 2014, da uve Pigato, geneticamente molto simile al Vermentino, tanto da essere difficilmente riconoscibile in vigna. Dai toni paglierino vivace apre con una nota vegetale fresca, di piselli freschi e mentuccia, con ricordi di pompelmo e sale marino. Sale che torna al palato, a completare una bocca disponibile e di godibile beva, che si allarga con gusto e si abbina piacevolmente al piatto di farro con gamberi e verdurine su bisque di crostacei.

Segue il Terre Bianche – Arcagna Bianco Pigato 2010. Stesso vitigno ma dal singolo Cru di Arcagna. Colore oro ammaliante, profumi intrisi di mineralità netta, che viaggia dalla focaia alla trementina alla gomma, e poi freschi echi di fiori di acacia, anice e resina. Entra al palato con freschezza ferma ed elegante, verticale e dritto al palato, tutto giocato di tensione acido-sapida. Sposa bene il delicato filetto di branzino con granella di olive taggiasche su letto di patate e sedano. Vino lieve e profondo insieme, del tipo “tagliente” come piace a me.

Quindi torniamo a fuoco sul protagonista della serata, il Rossese di Dolceacqua, accompagnati dalle spiegazioni di Falcone e Rondelli, prodighi di informazioni e aneddoti su cru e produttori che andiamo ad incontrare.

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1. Terre Bianche – Rossese di Dolceacqua 2014. E’ quasi impossibile non restare affascinati da questi colori così giovani e vivaci, così brillanti e tersi nel loro porpora trasparente. Una freschezza di toni che si ritrova al naso, con sfalcio fresco di erba, lampone, succo di albicocca e foglie di agrume. Attacca il palato succoso e pieno di frutto, con ritorni freschi di rose e sale. Un ottimo inizio, vino elegante, dal tannino rarefatto e buon equilibrio tra freschezza dissetante e giusta morbidezza. 86

Ad ogni assaggio scopriamo qualcosa dei produttori, e nella fattispecie che Terre Bianche possiede vigne su 3 cru, Arcagna, Terrabianca e Pian del Vescovo, e il primo campione proviene da un assemblaggio di masse dai tre appezzamenti. Una parola anc

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he per l’annata 2014, considerata molto valida in zona, una vera eccezione nel panorama nazionale.

2. Ka’ Manciné – Rossese di Dolceacqua Beragna 2014. Il suo profilo ricorda il mare, con ricordi di scoglio e alga, cui si aggiungono ricordi pepati e di frutti scuri. Approccia la bocca con tensione persino un po’ rigida, ma profonda e saporita, con frutto che spunta nel finale di un assaggio dove dominano i ricordi marini, e si prospetta una bella evoluzione. 84+

Cru importante quello di Beragna, a Soldano, la cui parte gestita da Maurizio Anfosso di Ka’ Mancinè gira verso nord, rimanendo più fresca e risultando in un’espressione cupa e nordica. A livello tecnico, per entrambi i primi campioni, affinamento solo in acciaio, operando diversi travasi per gestire un vino, il Rossese, che tende per sua natura a soffrire di riduzione.

Segue una serie di 2013, tutti da vigne poste in fascia climatica continentale e tutti su Flysch, ma in cru diversi.

3. Giovanna Maccario-Dringenberg – Rossese di Dolceacqua Superiore Curli 2013. Il colore è un rubino vivo dai bagliori di porpora, trasparentissimo. Nei ricordi olfattivi spunta il rossetto, i mirtilli, e le rose rosse, con un tocco di menta, poi ciliegia e anice. All’assaggio è fresco e nervoso, giovane e un po’ avvolto nelle sue infantili durezze, che portano a un finale amaricante fra ricordi di mandorla e inchiostro. Proviene dalla vigna più celebrata della denominazione, in affitto dal 2011 a Giovanna Maccario, prodruttrice caparbia e orgogliosa, con vigne anche nei cru di San Biagio, Berna e Novilla, che vinifica e affina solo in acciaio, senza ausilio di legno in alcuna fase. Questa annata 2013 annota un tempo piuttosto avverso, con produzione scarsa e soprattutto con un blocco vegetativo delle piante, che ha condizionato diverse produzioni. Un vino che mostra e buono scheletro, ma che è oggi in una fase molto criptica. Da attendere. 82++.

4. Antonio Perrino “Testalonga” – Rossese di Dolceacqua 2013. Siamo qui davanti a un artigiano del vino che riprende stili e schemi tradizionalisti. Un personaggio che dal nome sembra venire dalle fantasticherie di un libro di Stefano Benni, e che rimanda a una visione poetica e anarchica del vino, qui ottenuto da vigne in Arcagna e Casiglian. Così al naso si scopre un guizzo di volatile, che sospinge profumi variegati e in continua evoluzione: alchermes, tamarindo, cola, chinotto, frutti rossi e conifere. La bocca è piena e articolata, con tannino in evidenza, che insieme a una bella spinta sapida accompagna un finale di agrume e grafite, con echi di resine e mirtilli rossi. Gran soddisfazione in questo calice, dove traspare l’uso del legno, che scopriamo ricondursi a una fermentazione in tonneau, con anche l’utilizzo di raspi, altro elemento che spesso può entrare in causa nei vini della zona. Qualcuno azzarda paragoni con i Pinot Noir di Nutis Saints Georges, ma al di là delle analogie, è buono e punto. 87

5. Terre Bianche – Rossese di Dolceacqua Bricco Arcagna 2013. Vivace nel colore, che sprizza energia, e coerentemente al naso è intenso e diretto, con una forte componente minerale, tra torba e pietra focaia, poi si dispiega su ricordi di macchia mediterranea, pepe nero, e coniuga frutti rossi e gialli, con ciliegia nera e dolci note di pesca gialla. Anche qui è deciso il tannino (nè raspi nè legno in questo caso), nerboruto ma agile il corpo. Il vino approccia un po’ contratto, ma poi si distende saporito su ricordi di chinotto, ruggine, fragola, scorze di arancia e cannella, gustoso, lungo, croccante e saporito. Davvero bell’assaggio (e gran futuro) 88+

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6. Tenuta Anfosso – Rossese di Dolceacqua Superiore Poggio Pini 2012. Dalla veste leggiadra di rubino trasparente e vivo, al naso regala sensazioni mediterranee di oliva nera, piante di macchia, mirtillo nero, ma anche caffè e carne frolla. Viene da terreni che producono acidità minori ma estratti importanti, e lo avvertiamo all’assaggio, più caldo e ricco, dal tannino fitto, che in combinazione con la buona carica alcolica asciuga il palato, che man mano riprende salivazione incontrando ricordi di rosmarino, frutti rossi macerati e lavanda, con una chiusura salata, tra oliva e liquirizia. 86

Tutto quello che si poteva attendere dal cru Pini, che rappresenta l’archetipo della Val Verbone, segnata da ripidissime coste e clima mediterraneo. L’azienda è di Alessandro Anfosso e della moglie Marisa, che hanno terreni su Pini e Luvaira, e lavorano facendo macerazione delle uve a grappolo intero, e imbottigliano come Superiore, che per il disciplinare consta semplicemente di un titolo alcolometrico minimo di 13% e l’immissione in commercio non prima di novembre dell’anno dopo.

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7. Ka’ Manciné – Rossese di Dolceacqua Galeae 2010 (da affinamento in solo acciaio). Apre su pompelmo rosa, e netto fiore di viola, poi toni di fumo, ginepro e carne, sporcati da un cenno di riduzione. Al gusto entra di vibrante freschezza, verticale e succoso, corredato di un tannino voluttuoso. Conclude su radice di liquirizia, prugna secca e ruggine, di bella eleganza offuscata però dalla percezione di ridotto. 82

8. Giovanna Maccario – Rossese di Dolceacqua Superiore Posaù 2010. Ecco un altro cavallo di razza nella scuderia della Maccario, Posaù con le sue magnifiche vigne, antiche e ad alberello, poggiate su terreni profondi, derivanti da un’antica frana, e forti della presenza di una fonte naturale alla base, situazione peraltro frequente su molti Cru della fascia orientale. Offre cenni di tabacco e cenere nel suo profilo, di frutti scuri e screziato di note di carne, ginepro e pepe. Attacca la bocca con potenza, dipinto a tinte scure di inchiostro e alloro, ma col dinamismo giovanile che morde il palato, ma manca solo della zampata finale, perdendo un po’ di frutto nel finale. Comunque gran bel bicchiere, denso e serio. 86+

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9. Tenuta Anfosso – Rossese di Dolceacqua Vigneto Luvaira 2007. Andiamo indietro nel tempo fino a questa annata calda, ma interpretata in un Cru selvatico e nervoso, che può ricordare, a detta del Falco, il Martinenga di Barbaresco. I cromatismi qui cedono il passo alle nuance granato, e il panorama olfattivo si dettaglia di ciliege, spezie, noce moscata, cacao, agrume e lavanda, con toni di talco. Assaggio di nervo sorprendente, con tannino crescente, accompagnato da calore e vivacità,  morbido e volumico, ma sorretto da un dinamismo impeccabile. Chiude con ricordi di frutti rossi caramellati, e tabacco da pipa, dolce e profumato, lasciando il palato levigato dalla sua fitta trama. 87

10. Giovanna Maccario – Rossese di Dolceacqua Superiore Vigneto Luvaira 2001. Un salto di oltre un lustro e ci troviamo davanti a un calice dai toni più vivaci e pieni, che si trattiene però all’olfatto, bisognoso di aria nonostante la stappatura adeguatamente anticipata. Il tempo nel calice gli rende giustizia, portando al naso note di tabacco, porcino tagliato, carne e conserva di pomodori secchi, olive e alloro, in un quadro dalle pennellate tipicamente mediterranee. Molto carnoso al palato, avvolto da un calore fuso con sale e tannino, e con un bello l’affondo, che prolunga enormemente il finale con frutti rossi selvatici e basilico. 89+

11. Terre Bianche – Rossese di Dolceacqua Bricco Arcagna 1996. Qui il naso cede il passo a una nota solforata e ridotta, che richiama il sedano, che dissolvendosi apre a ricordi di bergamotto, legno di cedro e foglie secche. In bocca si comporta bene, mostrando il carattere risoluto di un’annata “dritta”, verticale, che porta in dote un tannino vivo, e un

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sottofondo salato al ricordo di terra e ferro, con ritorni di albicocca secca e tè, frenati solo da un tannino quasi ancora sopra le righe, che tende ad asciugare appena la bevuta. 84

12. Tenuta Giuncheo – Rossese di Dolceacqua Pian del Vescovo 1986. Azienda allora in mano ad Arnaldo Biamonti (rilevata nel 1990 da Monika e Arnold Schweizer, che hanno rinnovato vigneti e cantina), che vinificava uve da due frazioni distinte del Cru, una su terreni bianchi, l’altra su suolo rosso ricco in ferro. Davanti a questo vino quasi tutta la sala si è stupita: impressionanti le analogia con grandi Borgogna: tartufo, burro, lavanda, roccia e note fumè nel suo ventaglio olfattivo, pulito ed elegante, e in bocca un succoso melograno, di acidità viva, e ritorni di liquirizia, con un tannino preciso e suggestioni finali di ferro e oliva nera. A qualcuno ricorda Ponsot, per l’approccio un po’ scontroso dai tratti un po’ selvatici e velati di riduzione, ma poi se ne esce con classe ed eleganza da restare allibiti. La degustazione era lunga ma questo bicchiere è finito, e non nel versavino. Sorpresa: 91+

13. Mandino Cane – Rossese di Dolceacqua Superiore Vigneti d’Arcagna 1985. Giobatta Mandino Cane era ritenuto il Bartolo Mascarello locale, e Filippo Rondelli ce lo racconta come un “gigante gentile”, che vinificava in

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una chiesa sconsacrata, fino alla sua ultima annata, nel 2009. Vinificava dai cru di Arcagna e di Morghe, vigneto esposto a ovest come Luvaira, ma tra 500 e 600 metri di quota (circa 200 metri più alto). I suoi vini sono sullo stile di “Testalonga”, veraci e senza fronzoli, capaci di sorprendenti espressioni e sempre fedeli espressioni artigiane del territorio. Il calice torbido e pieno di particelle in sospensione fa temere, e al naso è intenso ma purtoppo molto ridotto, mentre all’assaggio si allarga subito, sostenuto da verve ma morbido nei tannini e nei sapori, cioccolatoso e dal finale sapido e terroso. Bottiglia che non ha retto bene al tempo, o probabilmente al viaggio in giornata per giungere a noi come ultima aggiunta in scaletta.

14. Mandino Cane – Rossese di Dolceacqua Superiore Vigneti d’Arcagna 1978. Qui vediamo espresse le capacità del produttore, già confortati da un calice di colore tra il rubino e il granato, integro e brillante. Profumi dettagliati e netti, che spaziano dal pepe alla ciliegia, dal balsamico all’incenso, alla spezia dolce. Al palato si espande generoso, rotondo, equilibrato, con tannino ricamato, dal cenno metallico finale, quasi da nord Piemonte, con ricordi di gin e gomma vulcanizzata a contorno di un frutto nero maturo. 89

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15. Antonio Perrino “Testalonga” Rossese di Dolceacqua (Arcagna) 1973. Come detto quest’uomo sembra essere uscito da una favola moderna, e così questo suo vino, fuori commercio, imbottigliato solamente per uso familiare, ed in via esclusiva giunto fino a noi. E’ impressionante la sua tenuta, con un colore trasparente che vira all’aranciato, e i profumi ancora vivaci e freschi, intrisi di una vena volatile che intreccia soffi di fiori di montagna con ricordi di macchia mediterranea, propoli grezza con rocce ferrose, fumo e prugna. Al palato scorre ancora pienamente vino, col brio di un’acidità rustica e la carezzevolezza donatagli dal tempo. Indugia con calore e avvolgenza, in un velluto leggero di tannino, ricco e lungo nei suoi ritorni di arancia rossa, erbe aromatiche e caffè. Una carezza in un pugno, o viceversa. Impressionante esempio delle perle artigianali capaci di uscire dal territorio del Rossese e di arrivare fino a noi anche dopo oltre 40 anni. 87+

La serata mi ha confermato le grandi potenzialità del Rossese di Dolceacqua, vino così poco conosciuto quanto buono e, oltretutto, alla portata di tutte le tasche. Vini che mi auguro ottengano il giusto successo che meritano, ennesima perla enologica del patrimonio di realtà autoctone e tradizionali dei nostri vigneti.

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Per la cronaca la serata coincideva con il compleanno dell’organizzatore, Francesco Falcone, che ci ha viziato con due ulteriori bottiglie sue coetanee, un Barbaresco 1976 della Cantina Produttori e un Riesling Auslese 1976 (3 stelle) Urziger Wurzgarten di Benedict Loosen-Erben, due vini ancora in forze, ma sicuramente offuscati dai freschi spiazzanti assaggi di Rossese. Tanto per capirne la portata, senza voler fare paragoni impropri.

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