Magazine Diario personale

Àbitati

Da Ronin

Àbitati

“Àbitati”, con l’accento sulla prima A, come diceva Bergonzoni da quel gigantesco schermo in piazza Maggiore, tutta la gente con il naso all’insù a sentirsi raccontare la propria città dalle acrobatiche parole di quel poeta pazzo, prima di immegersi in quella Strada felliniana piena delle miserie più misere e dei sentimenti più nobili. “Guarda come stai dentro”, non solo dentro di te ma anche dentro alla città che ti ospita, e veniva davvero facile lì, con quelle migliaia di persone sedute nella piazza, arrivate spinte dalla cultura e andate via con un senso di appartenenza a lungo dimenticato, capace di unirci tutti nella Grande Maglia Vitale Urbana.

Questa città che ho vissuto per un anno, talmente viva da commuovere, piena di contraddizioni come le persone più belle e autentiche, fatta di portici ventosi, scivolosi e freddi d’inverno ma piacevolmente ombrosi d’estate, tags osceni affiancati a spiazzanti opere d’arte murale, tante bici e zero piste ciclabili, copisterie uniche categorie commerciali di primaria importanza, pendolari che ti ignorano, mendicanti che ti supplicano, clochard che ti schifano, baristi che ti sorridono, negozianti che ti tentano, anziani che ti aiutano.
E tutti quegli studenti, ovunque e inconfondibili, in stazione, nei pub, a fare la spesa. Giusto, i supermercati, dove qualunque studentello arriva per spendere il meno possibile e comprare le più sottomarche. Quelle liste della spesa che iniziano sempre con “birra”, e gli sfattoni che ti vedono prendere una cassa d’acqua, ti guardano e ti dicono “anch’io all’inizio la compravo, ma cambi idea in fretta..”

 

Via Zamboni, l’unica strada al mondo ad essere fulcro della città più che la piazza, una strada che non ti scorderai mai mai mai, nemmeno se dovessi andare a vivere in Cambogia. Una strada che ogni giorno rivedi in ogni suo angolo senza esserne stufo e che sapresti descrivere fino all’ultimo inutile tabacchino. Una strada che non dorme mai, feriali o festivi o indifferente, conta solo a che ora c’è lezione il giorno dopo, e ovviamente c’è sempre qualcuno che non ce l’ha proprio, e che di solito trascina a bere anche chi ce l’ha alle otto.

Questa città di cui conosco sì e no dieci nomi di vie ma in cui non mi perdo mai, perchè per qualche oscuro motivo so sempre dove sono e come sono orientato. Come i musulmani che si rivolgono alla Mecca, a Bologna sai sempre in che direzione sono il Nettuno, le Due Torri, la facoltà e la stazione, come se ci fossero delle bussole sottopelle che ti portano ovunque hai bisogno.

 

Poi c’è la storia più personale che si intreccia a quella cittadina, fatta di troppi caffè e birre mai abbastanza, birre Forst per il miglior rapporto qualità-prezzo, ovviamente. Piccoli gesti quotidiani che diventano sempre più comuni, fino a farti sentire un minuscolo appartamentino del centro come la tua casa, la tua. Sono cose stupide, come cenare all’orario che vuoi, fare la spesa a sentimento e discutere su cosa mangiare, ti fanno sentire che la tua vita gira finalmente intorno a te, che la stai direzionando come preferisci giorno per giorno. Poi non è vero, e tu lo sai benissimo, ma non importa poi molto..

E poi mi trovo con questo pazzo povigliese, a dividere le giornate praticamente dall’inizio alla fine, a casa, in camera, all’università e alla sera. Cinque giorni su sette praticamente in simbiosi, e non stufarsi o incazzarsi mai, entrando anzi in una confidenza sempre più profonda, fatta di chiacchiere autofomentanti sulla politica, angosciosi pensieri sul futuro post-universitario, opinionismo spicciolo su qualunque aspetto dello scibile umano, deliri di ogni tipo che vanno dalla filosofia di Scrubs all’odio per Enrico Papi, da partite di Snake furibonde agli elogi per il sudamericano che distribuisce i quotidiani gratuiti sotto alla Garisenda, dispensando gioiosi sorrisi a tutti gli sfortunati mattinieri che gli passano davanti (ci tenevo a ricordarlo in questo post..)
Le persone con cui credo di essere in grado di sostenere felicemente una convivenza di questo tipo si contano sulle dita di una mano. Amputata. Pluriamputata, và. Quando si dice una cazzo di fortuna..

 

Ed è finita così oggi, con una pasta al pesto e una tazzina di quella moka dal sapore inimitabile. Forse ci sarà qualche giorno a settembre, può anche darsi, ma oggi la sensazione che questo capitolo sia chiuso è comunque forte.
Mi rimane una sorta di rimpianto, uno dei miei immancabili, per aver vissuto questa vita a metà, con un piede da una parte dell’Emilia e uno dall’altra, mantenendo quasi tutto quello che avevo prima e cercando di aggiungerci del nuovo negli interstizi. Risultati altalenanti, ovviamente. Come sempre, quando cerchi di fare tutto fai tutto male, provi a fare lo studente fuori sede, il capo scout, il restauratore di case, il giocatore di calcetto, l’amico, il moroso, ma tutto non ci sta, è fisicamente impossibile, almeno per il mio carattere, che odia avere le giornate scandite in ogni minuto, impegni sempre incastrati e tabelle di marcia da rispettare anche nelle cose che si fanno per piacere e passione.
Mi è mancato forse il coraggio di tagliare, scegliendo una cosa e scartandone un’altra, facendo un giusto ordine di priorità. I famosi “sassi più grossi”, che non sono per nulla facili da distinguere. Sembrano tutti grossi, da determinati punti di vista, e strabordano dal vaso già da soli, figurarsi con anche il resto..

Poi ci si salta fuori, ovviamente. E’ sempre così, la vita non cade in pezzi e i problemi si riassorbono piano piano, anche se resta quella brutta sensazione di non dare il meglio nelle cose, perchè semplicemente sono troppe, e ognuna meriterebbe tutta la mia attenzione e la mia passione. Solo che l’impegno non sono ancora capace di moltiplicarlo indefinitamente. Ce n’è uno stock, da dividere, da ripartire, non lo posso riprodurre finchè ne serve, anche se sarebbe molto bello..

 

E sullo sfondo, intanto, c’è già l’anno prossimo.

Di solito si dice che il tempo vola, invece mi sembra passata una vita da quando presi in mano quella (inutile) laurea triennale, un anno e qualche giorno fa. Non riesco a sentirlo “volato”, quest’anno. E’ stato così denso e nuovo, così pieno di sensazioni ed emozioni sconosciute, da farlo sembrare lungo mille giorni.
Ora è tutto sul piatto. Finisce l’esperienza da fuori sede a Bologna, inizia un semestre da pendolare e ne segue un altro da fuori sede, anche se decisamente più lontano. Chissà cosa scriverò fra un anno, tornato dalle lande nordiche..

Proprio non lo so cosa ci sarà fra un anno, e per fortuna che è così.
L’unica cosa che mi resta è la sensazione di un divenire continuo dentro di me, man mano che il tempo passa. Cose che arrivano, altre che si affievoliscono e scompaiono. Niente è immobile.
Questo non cambia mai, grazie a Dio.

 

p.s. Il blog latita un bel po’ ultimanente, me ne rendo conto. I motivi sono tanti, e nemmeno io li capisco tutti: un po’ è stata la mancanza di internet a Bologna, ma il motivo principale è stata probabilmente una sorta di insoddisfazione per il taglio che ho sempre dato al blog, fatto di testi lunghi, spesso cervellotici e dagli aggiornamenti poco frequenti.
Non amo i blog adolescenziali a flusso di coscienza, fatti di post di due righe inerenti alle più inutili seghe mentali ed emozioni immediate dell’autore. La twitterizzazione, come penso si capisca anche da questo post, non mi appartiene proprio..
Ciò non toglie che mi piacerebbe rendere il blog più fruibile e leggero, in futuro. Una via di mezzo fra i due estremi, insomma. Non so ancora come fare, ma è un cambiamento necessario, visto che io stesso non mi trovo più nel mio stesso stile (è possibile??).
Suppongo (anzi, spero) che Uppsala sarà di spinta a questa piccola rivoluzione.
Nel frattempo non vi negherò qualche aggiornamento, soprattutto sui restauri, le cui cronache da troppo tempo latitano da questi lidi!


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