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"Accanto alla tigre" di Lorenzo Pavolini

Creato il 04 giugno 2010 da Sulromanzo
Di Chiara Dell'Acqua
Pavolini e il fascismo, "Accanto alla tigre" come testimonianza singolare
Chi cavalca la tigre, non potrà più scendere, dice un antico proverbio indiano. Lo scrittore Romano Bilenchi, in Amici, riporta le parole dell’amico Alessandro Pavolini, gerarca fascista: «Tu non hai mai chiesto niente al regime […] e puoi avere cambiato anche idea. Io sono salito sulla tigre e non posso scenderne». Un felino, dunque, il più grande e il più temibile, diviene l’allegoria di un regime e Julius Evola intitolerà il suo “manuale di sopravvivenza”, pubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1961, Cavalcare la tigre.Per il nipote di Alessandro, Lorenzo Pavolini, invece, la tigre coincide con “La tigre di Tracy” dello scrittore americano William Saroyan, una coperta di Linus, «un animale amico, l’orso dell’infanzia».
È questo il fil rouge del romanzo di Lorenzo Pavolini, Accanto alla tigre (Fandango, pp. 243), vincitore del premio Mondello e tra i dodici finalisti al premio Strega.“Non un romanzo storico o familiare – sottolinea l’autore – ma un romanzo sulla storia e sulla famiglia, un libro scritto mettendoci molto tempo e molto di me stesso”. Pavolini, nato quasi vent’anni dopo la morte del nonno, ha sempre pensato che suo nonno fosse morto in guerra, magari da aviatore come Saint-Exupéry. Un giorno, però, vede la terribile foto di piazzale Loreto sul libro di storia della seconda media e scopre che suo nonno fu fucilato il 28 aprile 1945 a Dongo.Da quel momento il cognome è per lui «una cosa sporgente, il dentino di un ingranaggio celibe, una rotella rimasta sola, senza una funzione precisa, ma che spunta dal corpo e ogni tanto si impiglia al mondo di fuori» e nasce un’insopprimibile esigenza di comprendere, di rispondere all’imbarazzo di molte famiglie italiane, che diventa più urgente quando, camminando per la sua città, Roma, si imbatte nella scritta PAVOLINI EROE.
Così Pavolini, superando la reticenza tra i suoi, incomincia una ricerca fuori dalla famiglia, scrivendo un romanzo che si colloca all’incrocio ideale tra storiografia e biografia, ricordando la tecnica degli hypomnèmata.Fondamentali le conversazioni con gli amici scrittori Aurelio Picca e Enzo Siciliano o l’incontro con Antonio Pennacchi, così come i luoghi visitati: Via delle Tre Madonne, a Roma, dove Pavolini si rifugiò nella notte del 25 luglio ’43; il Campo X al cimitero del Musocco a Milano, dove è sepolto; Salò, dove Lorenzo Pavolini si reca per partecipare ad un premio letterario.Una ricerca da cui emerge un’immagine profondamente bipartita del nonno: da un lato illustre intellettuale, scrittore e giornalista, fondatore della rivista letteraria Il Bargello, che a venticinque anni scrive il suo primo romanzo, Giro d’Italia, dall’altro squadrista, fondatore delle Brigate nere, anima della Repubblica sociale.
«Il fascismo è stato a tutt’oggi, il fatto più importante della mia vita» - dice di sé Alessandro Pavolini - e queste parole trovano conferma nel tradimento perpetrato ai danni di suo fratello Corrado, sposato con l’ebrea Marcella Hannau, all’indomani delle leggi razziali. Immagini terribili che stridono con la dolcezza delle lettere alla moglie Teresa o con il ricordo dell’attrice e scrittrice Elsa de’ Giorgi. Così, dalla cortina di pudore e discrezione che avvolge il romanzo, il pathos conferisce alla narrazione un naturale andamento non lineare, a volte spezzato. Un doloroso ossimoro, dunque, che lo scrittore non può risolvere, alla base della Storia, e di molte storie in essa custodite.Perché, contrariamente alla visione manichea, bene e male coesistono. E tigre è anche uomo. «Homo sum: humani nihil a me alienum puto».

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