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Acqua, cloro, costumi bagnati e piscine di provincia

Creato il 25 giugno 2011 da Unarosaverde

Acqua, cloro, costumi bagnati e piscine di provincia                                                                        C’è qualcosa di rassicurante nell’atmosfera  nebbiosa della piscina   comunale. Apro la porta  sulle vasche interne e  ho di nuovo dodici anni.

La inaugurarono che ero alle medie e ci spedirono tutti ai corsi invernali. Passava il pullman del comune alle 14.00, nello stomaco solo uno yogurt, “altrimenti puoi morire di congestione; hai messo sotto il costume?”. Dentro a forza e per me, senza occhiali, il mondo si riempiva subito di foschia. Dieci minuti di riscaldamento a secco, pancia a terra in una stanza con moquette marrone. “Buttati e fammi vedere il dorso”, mi dissero il primo giorno. “Fermati. Adesso la rana. Va bene: tu vai nel gruppo di stile.”  

Nessuno mi aveva mai spiegato come si nuotasse a dorso e a rana fino ad allora e lo avrei scoperto solo vent’anni dopo: in quella atmosfera di didattica imparaticcia sembrò sufficiente il modo in cui mi muovevo senza andare a fondo. Non è mai uscito un atleta serio in venticinque anni da questi corsi, né dal preagonismo, locale livello massimo di aggregazione. Non esiste una scuola master, gli orari di nuoto libero sono discutibili, ma tanto ora i soldi si fanno con  l’acquagym, l’acquagag, l’hydrobike e va bene lo stesso; in inverno si nuota assiepati in corsie a castello: chi pancia sul fondo, chi a metà strada, chi in superficie. Adesso poi c’è il parco estivo esterno e ogni investimento è dedicato a scivoli, ponticelli e onde finte. Odio la piscina comunale ma non riesco a starne lontana.

Le sole gare che si sono mai viste sotto quel soffitto di travi scure erano quelle che si facevano dopo dieci lezioni, la domenica, con i genitori sulle tribune. Partecipavamo tutti perché era l’unica occasione in cui ci era concesso di tuffarci dal piedistallo. La gara la vinceva chi non andava giù di pancia o a fuso. Poi via, dopo quaranta minuti, verso gli spogliatoi, maschi e femmine nello stesso, così l’altro rimaneva pulito. Eravamo troppo timidi per cambiarci in pubblico o fare la doccia nudi. Le docce erano solo cinque e i séparé con la porta sei, ma due avevano le maniglie rotte: noi eravamo quaranta. Entravamo a due a due, tra amiche del cuore, voltate di schiena per vergogna, con i maschi che si affacciavano da sopra a guardare e ci urlavano “lesbiche” e poi riscivolavano a terra ridendo. E’ sempre importante imparare parole nuove anche se a dodici anni il significato ti sfugge. Il concetto di umido invece mi era diventato familiare: cuffia, costume, accappatoio fradici cacciati  in borsa, rivoletti d’acqua su tutto il fondo, tra il sapone e lo shampoo.

Avevamo venti minuti, prima che arrivasse l’autobus. Non c’era tempo per asciugarsi bene: calze e magliette bisognava tirarsele su o giù con forza, sulla pelle bagnata. Ai tempi non c’erano gli asciugatori ma una stanzetta dal cui soffitto pendeva una serie di tubi gialli di plastica, ad altezze diverse: piccoli, medi, grandi, in una composizione che starebbe benissimo alla biennale. Quello della misura giusta però non c’era mai: o era troppo in alto e il getto d’aria si disperdeva o dovevi, ustionandoti, prenderne uno basso con le mani e dirigertelo sui capelli. Non credo di essere mai tornata a casa asciutta una volta.

Passano gli anni, la piscina resta sempre la stessa, con piccole migliorie introdotte con lentezza, per non viziarci troppo. L’ho abbandonata, per qualche anno, mentre ero lontana per lavoro e ne frequentavo una snob, con bagno turco e sauna negli spogliatoi immacolati e istruttori FIN a bordo vasca che ti massacravano per un’ora fino a quando non viaggiavi e imparavi la virata, l’economia dei gesti, diventavi tutt’uno con l’acqua mentre limitavi il rollio. Poi sono tornata e l’ho trovata ancora lì, con tutti i suoi difetti e il suo odore di cloro, che mi rimane sulla pelle per ore, nonostante la doccia e il bagnoschiuma di verbena, che mi fa compagnia anche la mattina dopo, insieme alla rinite. La rinite mi viene solo in questa piscina. “Troppo cloro”, dico al bagnino che ha fatto le elementari con me ed è il responsabile del dosaggio. “Sono le altre piscine che ne mettono troppo poco” mi risponde. E così mi sono arresa e ho comprato lo stringinaso: esiste qualcosa di più ridicolo di questo coso?

C’è qualcosa di rassicurante, nel nuotare vasche su vasche, a ritmo ipnotico e calmante, a verificare piccole modifiche dell’assetto della mano, a scomporre i movimenti negli esercizi di tecnica e poi ricomporli in un fluire morbido alla ricerca dell’acqua ferma. C’è qualcosa di alienante in questo sport ma in acqua io sono quello che non riesco ad essere sulla terra. Di solito. Questa mattina zoppicavo anche tra le corsie. Ho smesso di frignarmi addosso solo quando,  accanto a me, ho visto che c’erano tre atleti della società paralimpica locale che si stavano preparando per le gare internazionali della prossima settimana e macinavano metri velocissimi, che io me la sogno un’andatura così, anche quando sono tutta intera. 


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