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Addio a un grande maestro del Sud: Marcello D’Orta

Creato il 24 novembre 2013 da Makinsud

Addio a un grande maestro del Sud: Marcello D’Orta

Le case sgarrupate di Arzano sono diventate famose in tutta l’Italia grazie a lui, Marcello D’Orta, maestro delle elementari, autore del famosissimo libro “Io speriamo che me la cavo” (pubblicato nel 1990 da Mondadori). Un best seller da due milioni di copie da cui sono state tratte la versione cinematografica, regia di Lina Wertmüller che scelse nei panni del maestro Paolo Villaggio, e la versione teatrale con Maurizio Casagrande e le musiche di Enzo Gragnaniello.

Questa settimana, però, dopo aver lottato a lungo contro il cancro, il maestro D’Orta ci ha lasciato spegnendosi all’età di 60 anni a Napoli, la città che lo ha ospitato dopo le minacce del grande successo per “Io Speriamo che me la cavo”, la città che lo ha visto crescere sempre più nel seno della scrittura.

Marcello d'Orta

D’Orta aveva abbandonato l’insegnamento per consacrarsi alla scrittura con una produzione piuttosto prolifica: “Dio ci ha creato gratis”, “Romeo e Giulietta si fidanzarono dal basso”, “Il maestro sgarrupato”, “Maradona è meglio ‘e Pele”, “Storia semiseria del mondo”, “Nessun porco è signorina”, “All’apparir del vero, il mistero della conversione e della morte di Giacomo Leopardi”, “Aboliamo la scuola”, “A voce d’e creature”, “Era tutta un’altra cosa. I miei (e i vostri) Anni Sessanta”.

Opinionista, ha collaborato anche con diverse testate giornalistiche e le sue opere sono state tradotte in lingua straniera. Contribuendo all’introduzione del termine “sgarrupato” nella enciclopedia Treccani (Scarrupato (o sgarrupato): agg. [etimo incerto], region. di costruzione, paese e sim., che è in rovina, che cade a pezzi,cadente, diroccato, fatiscente, cfr. Enciclopedia), attraverso le sue opere, D’Orta ha partecipato a un filone non convenzionale di produzione letteraria contemporanea appartenente al Sud del mondo in cui il fattore ironia assume la tragica funzione di esorcizzare il male,  di prendere coscienza del dramma sociale e di denunciarne pragmaticamente le condizioni.
Infatti, i famosi temi dei bambini, core del libro “Io speriamo che me la cavo”, sono vere e proprie descrizioni di Arzano e delle sue tristi realtà. Luciano De Crescenzo ha detto che questo libro fa fede dell’esistenza dello humour napoletano come autonomo genere letterario o come categoria dello spirito. Noi estendiamo questo giudizio all’intera opera di D’Orta. Un sorriso – proprio come quello dei bambini di Arzano – assolutamente amaro. La scrittura diventa uno strumento di denuncia sociale, dunque, ma anche di lotta alla propria malattia. D’Orta aveva reso pubblico il cancro che lo aveva colpito e, grazie alla sua prolifica attività di scrittura, ha cercato di sconfiggerlo.

Scrivo per non morire“, aveva rivelato a una nota testata giornalistica. La scrittura, dunque, come antidoto alla malattia fisica e a quella sociale.

Ciao Marcello


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