Magazine Hobby

Al capolinea – The End of the Line

Da Pietroinvernizzi

Al capolinea - The End of the LineLiberamente tratto da “Un mondo senza pesci” a cura di Nicola Ferrero di Slow Food e allegato al documentario “The End of the Line” di Rupert Murray – Feltrinelli.

The End of the Line è un documentario presentato al Sundance Film Festival 2009. Ed è anche un bel pugno nello stomaco. Ispirato al libro-inchiesta di Charles Clover, il film analizza insieme a ricercatori ed esperti la pressione di pesca sugli stock ittici facendo previsioni sul futuro degli oceani. Se lo sfruttamento delle risorse continuerà a questi ritmi, la maggior parte delle specie ittiche si estinguerà entro il 2048. Di seguito l’interessante intervista al regista a cura di Laura Stefani, contenuta nel libro che accompagna il dvd.
Sono passati sei anni dall’uscita del libro. È cambiato qualcosa?
Praticamente no. Penso al tonno rosso, il re dei tonni, un animale velocissimo, dalle carni pregiate – le più care al mondo –, usato  per il sushi. Era in emergenza allora e lo è ancora. Nel Mediterraneo si continua a pescare molto di più delle quote suggerite dai ricercatori (29,5 tonnellate annue contro le 10-15 raccomandate) e credo che il 2010 sia l’ultimo anno di vita per il tonno rosso di quel mare, a meno che l’Unione Europea non si decida a votare il divieto di pesca. Nel complesso, la gestione della pesca è stato un vero disastro in Europa.

Qual è stato il momento più difficile durante le riprese?
Quando sono rimasto incastrato in una rete da pesca per le acciughe in Perù. Ho capito cosa significa essere “catturati” e non è per niente piacevole. Al contrario, l’esperienza migliore è stata il contatto quotidiano con i maggiori esperti del settore, gli unici che sanno cosa sta succedendo veramente nel mare. La fisheries biology è nuova rispetto ad altre discipline, è stata “inventata” solo intorno al 1990 dal biologo marino Daniel Pauly, che sta dedicando la vita a studiare l’impatto dell’azione dell’uomo sulle risorse ittiche.

Dalla pesca in armonia con la natura per secoli alla pesca come attività distruttiva degli ultimi decenni. Quando è stato il punto di svolta?
La tecnologia ha cambiato tutto. Ha permesso di pescare in luoghi prima inaccessibili, ora non ci sono più angoli dove i pesci possano rifugiarsi, barriere e canyon, ad esempio. Computer, radar, sonar, programmi di mappatura dei fondali: i pesci non hanno più chance di sopravvivere. Inoltre stiamo pescando una varietà sempre maggiore a ritmi troppo serrati. I pesci di grandi dimensioni sono in via di estinzione, così siamo passati a pescare esemplari più piccoli, raschiando il fondo della catena alimentare. Peschiamo ventiquattr’ore al giorno per sette giorni alla settimana, non diamo ai pesci il tempo necessario per riprodursi. Anche la domanda è cresciuta molto. Il punto di svolta si può collocare alla fine della Seconda guerra mondiale, quando è iniziata l’attività delle grosse flotte.

C’è un paradosso evidente: quando ci troviamo di fronte a un piatto di pesce ne conosciamo il contenuto calorico, i valori nutrizionali, senza avere idea di come sia stato pescato, dove, da chi. Come mai?
Solo negli ultimi vent’anni abbiamo iniziato a farci domande sulla provenienza del cibo. È diventata una questione di qualità. Ma nei confronti del pesce il ragionamento è diverso. Innanzitutto, viene dal mare, è “selvaggio”, quindi è “sano”. Nessuno sa che il merluzzo è un pesce in via di estinzione? La colpa è di tutta la filiera, dai pescatori ai ministri della Pesca: non c’è interesse a informare sulla situazione reale. Ci sono poi altre ragioni, la più semplice è che succede tutto sott’acqua e resta nascosto alla vista. Nell’opinione comune, la gente non percepisce i pesci come animali da proteggere. Continuiamo a trovare pesce sui banchi dei supermercati e questo dà l’idea che tutto vada bene. I consumatori non sanno che i pescatori europei sono costretti ad andare a pescare in Sudafrica, ad esempio. È per quest’insieme di motivi che la tutela delle risorse ittiche non rientra nell’agenda delle emergenze.

Neanche i media ne parlano molto…
In Europa i problemi legati all’ambiente ricevono in genere ampia copertura, ma l’overfishing (sovrapesca) non ha conseguenze dirette sulla nostra vita, almeno oggi. Arriveranno presto, però, sia in Occidente sia nei paesi più poveri. Non è solo un problema legato al pesce, ma agli oceani nel loro insieme. Il riscaldamento globale ha una relazione diretta con i mari. È stato da poco scoperto che gli escrementi dei pesci regolarizzano il PH degli oceani. Se sparirà il patrimonio ittico, aumenterà l’acidificazione dell’acqua e i mari non saranno più in grado di assorbire l’anidride carbonica: è solo un esempio di quanto la nostra esistenza sia strettamente legata a quella degli oceani.

Alcune specie sono a rischio di estinzione. Qual è la più in pericolo?
Nella costa est degli usa, uno studio condotto dall’Università del North Carolina su sette specie di squali ha evidenziato che la più numerosa rimasta si è ridotta negli ultimi trent’anni dell’87 per cento, le altre del 99 per cento. Gli squali sono uccisi in modo crudele e decimati in tutto il mondo. Dobbiamo fermare questa mattanza e riequilibrare l’ecosistema marino, che ora è molto vulnerabile. Ci sono già tanti elementi che mettono a rischio la biodiversità nel mare, come gli effetti del cambiamento climatico, l’inquinamento, lo sviluppo edilizio costiero. Per sopravvivere a tutte queste minacce le risorse ittiche hanno bisogno di una popolazione numerosa e in salute: allora, per prima cosa, fermiamo la pesca selvaggia.

Esistono paesi che stanno gestendo in maniera sostenibile i propri mari?
La Nuova Zelanda, attraverso il lavoro di Bill Ballantine, è stata pioniera nella tutela del patrimonio ittico con serie misure di protezione e la creazione di riserve marine protette. L’Alaska è un altro esempio. Non ha praticato la pesca in maniera massiva e ha creato grandi aree, forse le più vaste al mondo, dove ha bandito la pesca a strascico. Là i politici ascoltano le raccomandazioni degli esperti, le quote-pesce sono basse e rispettate.

Il 2048 è vicino, sei ottimista?
Certo. Fermare la pesc industriale è facilissimo, sia sulla carta sia nella pratica. Bisogna però prendere decisioni difficili e poco favorevoli all’industria peschiera. Bisogna inaugurare un “periodo di transizione” per dare una tregua al mare e permettergli di rigenerarsi, creando aree protette, dando ascolto agli appelli dei ricercatori, rispettando le quote, gestendo la situazione in maniera sensata e su scala internazionale. Nel giro di pochi anni il mare potrebbe tornare a popolarsi di pesci. Al momento sto raccogliendo materiale su progetto di creare entro i prossimi tre anni una rete globale di riserve marine, dove bandire completamente la pesca. La superficie oceanica protetta adesso è pari allo 0,8 per cento, praticamente nulla. E la grande oceanografa Sylvia Earle dice che i prossimi dieci anni saranno più importanti dei prossimi diecimila: non ci resta molto tempo per salvare la vita marina e il suo habitat.



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :