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ALBERT CAMUS: UN UOMO IN RIVOLTA | Intervista ad Alessandro Bresolin

Creato il 31 marzo 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

bannercamus-copia“La nostra fede è che nel mondo sia in marcia, parallelamente alla forza coercitiva e mortifera che oscura la storia,

una forza persuasiva e vitale, un immenso movimento di emancipazione che si chiama cultura

e che si fa al contempo attraverso la creazione libera e il lavoro libero”.

(Albert Camus)

 

Intervista ad Alessandro Bresolin

autore di Camus, l’unione delle diversità, Spartaco Edizioni 2013, pp. 216, euro10,00.

a cura di Laura Vicenzi

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Nel suo saggio, lei segue il filo del pensiero di Camus, non semplicemente la cronologia dei fatti che segnarono la sua vita. Ha inteso mettere in luce una coerenza tra il pensatore, l’uomo e la sua opera che è rimasta forse inedita?

Ho cercato di fare una biografia tematica, mettendo in successione gli interessi forti e le cause che Camus riteneva fondamentali. Sono partito contestualizzando la società algerina degli anni ’20-’30 in cui è cresciuto, per passare alle sue influenze spagnole, al ruolo dell’Italia nella sua formazione artistica, umana e politica, arrivando alla natura socialista-libertaria del suo pensiero, alla causa del federalismo europeo e infine alla sua posizione sulla Guerra d’Algeria. Camus aveva una natura poliedrica e – come diceva il suo amico Silone – quando un autore usa generi diversi di scrittura (saggi, articoli, romanzi e racconti), la dispersione è solo apparente perché tutto fa parte di un unico grande insieme.

La coerenza di Camus sta nel fatto che in quanto giornalista, romanziere, militante, uomo di teatro e libero pensatore procedeva sempre con lo stesso approccio: era schierato dalla parte dell’uomo, dell’individuo e non di un sistema, di un’organizzazione, di un’ideologia o di un potere, che per conservarsi hanno la naturale tendenza a schiacciarlo e a mentire. Conseguenza di questa posizione è la necessità di testimoniare ciò che siamo e di dire la verità, anche quando è scomoda.

Nella prefazione, lei elenca le parole-chiave del libro: Algeria, anarchia, appartenenza, colonialismo, decolonizzazione, Europa, federalismo, Francia, guerra, Italia, nazionalismo, pace, socialismo, Spagna, giustizia, libertà. Il passe-partout può essere l’idea di “comunità” che aveva Camus?

Camus era figlio di una società colonialista e una delle grandi cause della sua vita fu la lotta per un’evoluzione pacifica di quel tipo di società. Credeva nella fratellanza franco-araba, la riteneva l’unica speranza per poter creare una società più giusta senza spargimento di sangue. Bisognava superare i muri creati dal sistema coloniale, abbattere i privilegi e instaurare una vera democrazia che garantisse la pace e una convivenza tra etnie e religioni diverse. Solo così si sarebbe giunti alla costruzione una comunità nuova, figlia e non orfana del proprio passato. Il melting pot mediterraneo a cui Camus sentiva di appartenere è uno degli elementi che spiegano la diversità umana di Camus rispetto al francese medio ma anche all’atteggiamento degli intellettuali francesi. Unire le diversità in Algeria come in Europa, questa era la sua consegna, dar vita a comunità anche piccole ma aperte, inclusive, e soprattutto rispettose del diritto di ogni individuo di vivere a modo suo.

È una comunità critica, refrattaria, attiva, che parla una lingua meticcia affratellata dagli eventi, quella a cui Camus ha sempre sentito di appartenere. Un’impresa, sintetizzare lo spettro di relazioni ampio, politico, dell’autore de Lo straniero

Camus non era un autore sistematico, ricostruire il suo pensiero vuol dire perdersi in uno spettro molto ampio di piste intellettuali e umane. Sviluppava relazioni vere, amicizie profonde, e amava agire in silenzio. Fernando Gomez, militante anarchico e direttore della rivista della Confederación Nacional del Trabajo spagnola nel dopoguerra, di lui diceva che era un uomo raro, che non ambiva a pubblicità o gloria per suoi gesti di solidarietà. Piuttosto insisteva perché non si sapesse che fosse lui all’origine dell’invio di somme di denaro per aiutare un compagno imprigionato o la sua famiglia. Questo fa capire come resti ancora molto spazio per la ricerca.

Lei traccia un parallelo molto evidente tra Albert Camus e Ignazio Silone, (scrittore di cui Bresolin ha curato recentemente una raccolta di saggi, N.d.R.): ad accomunarli è lo stesso “tarlo della coscienza”?

Camus e Silone erano accomunati dalle stesse origini, erano figli della miseria, e dall’essere entrati nel mondo intellettuale dopo una controversa fase di militanza comunista. Quando nel 1939 il giovane Camus, apprendista giornalista appena espulso dal Partito Comunista francese, scrisse la recensione del romanzo di Silone Vino e Pane su “Alger républicain”, si capisce che lo lesse come un libro-guida. Silone, di una generazione più vecchio, era uscito dal Partito comunista italiano nel 1930 e in Vino e Pane narrava le vicende e i dubbi che attanagliavano Pietro Spina, militante comunista perseguitato dal fascismo che torna tra i contadini delle sue terre per applicare la linea del partito. Spina, a poco a poco capisce che quelle teorie lo allontanano anziché avvicinarlo al popolo che vuole difendere. Camus e Silone si conobbero a guerra finita, nel 1948, divennero amici e furono fianco a fianco in molte campagne, come quelle a favore della Spagna repubblicana, dei dissidenti dell’Est o degli obiettori di coscienza.

Erano due intellettuali antidogmatici, non allineati, che sentivano di appartenere a una società più che a uno Stato e di dover difendere l’ingranaggio più che la macchina. Subirono la stessa emarginazione nei loro rispettivi Paesi.

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Atti concreti, generosi, e poi scritti, libri, prese di posizione pubbliche segnano in modo indelebile la storia di Camus. L’intellettuale, il Giusto, ha il compito di indicare le strade per il miglioramento della comunità, di muovere dall’aporia al paradigma. Un compito a cui in Italia hanno abdicato in molti, attualmente.

Camus visse in modo tragico, sulla propria pelle, quello che viene definito “il tradimento degli intellettuali”. Sosteneva che i problemi maggiori della nostra epoca erano il colonialismo, il nazionalismo, e la struttura dello Stato moderno. Basta questo per capire quanto fosse diverso dalla mentalità sciovinista che caratterizzava la società francese dell’epoca, dove anche il Partito Comunista era iper-nazionalista. Questa sua sensibilità libertaria, scomoda a destra come a sinistra, era intollerabile nel panorama politico e culturale francese del dopoguerra. Per cui fino alla metà degli anni Novanta quando si parlava di Camus lo si faceva soprattutto mettendolo in relazione alla polemica con Sartre e alle critiche al comunismo. Solo ora la figura di Camus è uscita pienamente da quel cono d’ombra e il suo messaggio viene letto senza distorsioni.

In Italia, nel bene e nel male, il compito degli intellettuali e degli artisti è sempre stato molto diverso rispetto ad altri paesi come la Francia. Da noi attualmente ci sono delle individualità, ma senza compiti, e forse questo è uno dei motivi, o delle conseguenze, della grave crisi morale e identitaria che il nostro Paese sta attraversando.

I personaggi di Don Giovanni e Don Chisciotte attraversano molti capitoli e hanno accompagnato e guidato a lungo Camus (assieme alla “certezza che a un certo livello di ostinazione la disfatta culmina in una vittoria, e l’inattualità finisce per diventare attualità” e al mito di Sisifo, illustrato in copertina): cosa dicono, dell’uomo e dello scrittore, questi compagni di viaggio?

Don Giovanni è una figura che Camus studiò molto, non è un caso che un intero capitolo de Il mito di Sisifo è dedicato al dongiovannismo. Da giovane recitò lui stesso a teatro il ruolo di Don Giovanni, nella versione di Puskin. La passionalità smisurata di Don Giovanni rappresenta l’amore e la disperazione di vivere, due sentimenti contrastanti ed estremi che lo rendono personaggio tragico. Il fascino esercitato da quell’impenitente donnaiolo rivela, al di là del suo amore per le donne, quanto Camus fosse attratto dai caratteri picareschi tipici di quella tradizione letteraria.

Lo stesso vale per Don Chisciotte, che nella sua lucida follia parte alla ricerca di un’armonia originaria, perduta, rappresentata da quei valori cavallereschi che decide di incarnare in un’epoca in cui erano ormai decaduti. In questo senso Camus vede in Don Chisciotte il patrono dei dissidenti e degli esuli, di tutti coloro che preferiscono condurre una vita scomoda per sposare una causa giusta ma ormai dimenticata e relegata ai margini della Storia. Il donchisciottismo è quindi la fedeltà passionale a una causa persa, pur avendo il mondo contro.

Camus intitolò Il mito di Sisifo il suo saggio dedicato al tema del suicidio, secondo lui “l’unico problema filosofico davvero serio”. Sisifo, nella mitologia greca, viene condannato a compiere ogni giorno la stessa fatica, conduce una vita assurda. Camus paragona la condizione di Sisifo a quella dell’uomo moderno che, costretto a vivere in un mondo dominato dall’assurdo, per essere felice deve riuscire a sostenere il peso dell’assurdo.

Forse quello che coerentemente ci dicono questi tre personaggi sulla personalità di Camus sono smisurata rivolta e smisurato amore, smisurata fedeltà alle cause della propria vita, ma anche rifiuto del nichilismo e ricerca di un equilibrio, della felicità.

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Nel saggio è illustrato per punti il pensiero di Camus sul tema del federalismo, un’incompiuta di cui oggi si parla spesso impropriamente e che si canta storpiandone del tutto la melodia, anni luce lontani dall’idea di abitare una lingua più che un Paese, di operare per la redistribuzione delle risorse, di pensare a un destino legato e unico per i popoli… Sta anche in questo, il lascito umano e politico di Camus?

Sì, la melodia è diventata una cacofonia. Federare significa unire, non dividere. Il federalismo non ha nulla a che vedere con il secessionismo o il separatismo xenofobo, identitario e populista che si è affermato a partire dagli anni Novanta in diverse regioni europee. Nell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale, la divisione in nazioni appariva come un mortale anacronismo. L’intero continente andava ricostruito da cima a fondo e Camus era tra quelli consapevoli che l’Europa si sarebbe salvata solo uscendo dal provincialismo, rigenerando la propria civiltà. Vincere la pace voleva dire innanzitutto trasformare la struttura interna ed esterna degli Stati nazionali, che avevano una struttura iper-nazionalista e centralista – e in Italia il fascismo è stata la massima espressione del centralismo. Da noi, come ovunque in Europa, i concetti di autonomia locale e regionale non esistevano o venivano visti con sospetto. Il modello federale di riferimento era quello della Svizzera, paese che aveva dato rifugio a molti esuli antifascisti e che veniva visto come un modello di democrazia e convivenza.

Combat, il movimento della Resistenza francese in cui militava Camus, era fortemente influenzato dal Manifesto di Ventotene, il documento che indicò la via dell’Europeismo per uscire dal modello di Stato assolutista e autoritario. Quei partigiani lottavano per fondare da subito, prima che le élite degli Stati nazionali potessero riorganizzarsi, una federazione europea economica e politica dotata di una Costituzione, di un’unica moneta e di un unico sistema fiscale, sociale, di una stessa cittadinanza nel rispetto delle diversità dei popoli. Non andò così. Anziché dar vita a una solida federazione si è preferito puntare su una traballante confederazione di Stati sovrani ancora oggi, come sempre, in competizione tra loro. In tal modo la costruzione europea ha smarrito ogni slancio ideale, e le istituzioni europee anziché sostituire o integrare quelle nazionali si sono sovrapposte a esse all’eterna ricerca dei giusti compromessi.

Ideologia tedesca e pensiero mediterraneo: può spiegare anche qui, ai lettori di Amedit, cosa intendeva Camus quando affermava: “ritorniamo da lontano”?

Secondo Camus le idee, le cause perse della Storia, non muoiono, si perdono in un sottosuolo, in un magma, in un lento ribollire per riemergere anni dopo, in altre epoche e in diversi contesti storici, come fossero fenomeni carsici. In tal senso, la causa di un’Europa dei popoli unita e democratica, “ritornava da lontano”. La sconfitta dell’idea federalista nel secondo dopoguerra veniva vista come una reazione: l’Europa delle élite vinceva ancora. Come nel XIX secolo gli Stati nazionali avevano sconfitto i moti popolari federalisti e il pensiero di Cattaneo e Proudhon, così nel XX secolo Yalta e la diplomazia avevano vinto sulle rivendicazioni della Resistenza per una riforma complessiva delle strutture statali.

Ideologia tedesca e pensiero mediterraneo sono i due poli della civiltà europea. Per rappresentare la seconda guerra mondiale, Camus usò l’immagine di Faust che cerca di dominare Don Chisciotte. Una lotta insensata, che ha portato solo morte e distruzione.

Albert Camus ha molto amato il teatro (il teatro e campi da calcio, luoghi dove “si fa squadra”) e ha sempre creduto nella rappresentazione teatrale come strumento educativo – oggi definiremmo il suo un teatro “civile”.

Cominciò a fare teatro molto giovane, a ventitré anni era tra i fondatori del Theatre du Travail, che aveva una forte impronta militante-pedagogica. Negli anni successivi, il mondo del teatro divenne il suo rifugio, una valvola di sfogo rispetto alle delusioni e all’isolamento che viveva nel mondo intellettuale. Aveva una propensione al lavoro di gruppo, e nelle infinite prove prima di andare in scena ritrovava quella solidarietà spontanea che si crea tra le persone quando devono raggiungere un obiettivo comune.

L’intervista a Catherine, figlia di Camus, che lei ha collocato al termine del libro, riporta all’attualità la lettura dell’opera di suo padre. Un suo ricordo di questo incontro.

L’ho conosciuta nel 2008. Ero stato invitato a Lourmarin (il villaggio nel sud della Francia dove Camus comprò casa nel 1958 per fuggire da Parigi) per partecipare al convegno “Albert Camus e i libertari”. Lei era in mezzo al pubblico, attenta a ogni intervento. Il convegno si è chiuso in un clima conviviale, ricco di idee. Sento di doverle molto, dal punto di vista della motivazione, nella realizzazione del mio libro. Per questo mi è sembrato naturale chiuderlo con una sua testimonianza. “Liberi e responsabili” è un capitolo-intervista più che una postfazione, è parte integrante del saggio, non un’appendice. 

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Alessandro Bresolin (Castelfranco Veneto, 1970) è scrittore e traduttore, collabora come freelance con diversi giornali, riviste ed emissioni radiofoniche. Riguardo ad Albert Camus, scrittore Premio Nobel per la Letteratura 1957, ha pubblicato il saggio Camus. L’Unione delle diversità (Spartaco Edizioni, 2013); ha curato e tradotto l’edizione di diversi testi precedentemente inediti in Italia (La Rivolta libertaria, Eleuthera, 1998; Il Futuro della civiltà europea, Castelvecchi, 2012; Calendario della libertà, Castelvecchi, 2013); ha tradotto la biografia di Virgil Tanase, Albert Camus. Una vita per la verità, Castelvecchi, 2013.

Albert Camus, scrittore, giornalista, autore e regista teatrale, nacque a Mondovi (Algeria) nel 1913 e morì in un incidente stradale in Francia nel 1960. Nel 1957 gli venne attribuito il premio Nobel per la letteratura. La sua opera si sviluppa in tre romanzi (Lo straniero, 1942; La peste, 1947; La caduta, 1956), pièce teatrali (Il malinteso, 1944; Caligola, 1944; Lo Stato d’assedio, 1948; I giusti, 1950) e saggi (Il rovescio e il dritto, 1937; Noces, 1939; Il mito di Sisifo, 1942; Actuelles I, 1950; L’uomo in rivolta, 1951; Actuelles II, 1953; Actuelles III, 1958).

Da giornalista collaborò con “Alger républicain”, “Le Soir républicain”, “Combat” (organo del movimento della Resistenza francese in cui militava), “L’Express”, e con numerose riviste libertarie come “Le Libertaire”, “La Révolution prolétarienne”, “Témoins”. Nella borsa che aveva con sé quando morì, venne ritrovato il manoscritto del romanzo incompiuto Il primo uomo, pubblicato postumo nel 1994.

Laura Vicenzi

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AMEDIT MAGAZINE, n. 18 – Marzo 2014. Cover “Senex” by Iano

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