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Alberto Gennari: mondi dipinti con i colori dei sogni

Creato il 15 luglio 2011 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

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Alberto Gennari, sei un autore a tutto tondo che spazia a 360 gradi nell’arte figurativa, ma tu come ti presenti, come t’identifichi: pittore, illustratore, fumettista, grafico… oppure hai una tua personale definizione.
Come molti di coloro che han fatto una robusta gavetta, sono passato attraverso molte esperienze professionali: grafica, vignettistica, un “assaggio” di cartoon, anni di fumetti, illustrazione scientifica, restauro di reperti fossili, modelli tridimensionali di faune preistoriche in scala (lavoro in questo periodo in un museo), e… ho provato anche a scrivere dei racconti (che però dormono saggiamente nei cassetti, per ora). Ma sono principalmente un illustratore: mi piace cioè “illustrare”, ovvero “raffigurare”, nel modo più convincente possibile, mondi della fantasia o di epoche perdute. Quando lo spettatore di un mio quadro afferma che gli sembra “una foto” o che ha la sensazione di essere “là nel quadro”, mi sento di aver vinto un premio.

Si dice di te che sei stato un enfant prodige, non dirmi che sei nato anche tu con i pennelli in mano!

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Ma chi te l’ha detta ‘sta cosa? Comunque sì, dicevano che disegnavo bene. Erano tempi felici quelli dell’infanzia, il disegno per me era solo un gioco e di fare l’illustratore, ovviamente, non mi passava neanche per l’anticamera del cervello; volevo fare il pilota di aereo da caccia (e invece…  guido una vecchia Panda 750), volevo fare l’esploratore (ma ho scoperto in due drammatiche circostanze, di soffrire di mal d’aria e mal di mare), volevo fare il campione d’arti marziali (mi feci regalare il kimono… deve essere ancora ripiegato in un armadio, mai usato). Che altro potevo fare? L’illustratore, una scelta obbligata…

I maestri alle elementari lodavano il tuo rendimento, ma criticavano il tuo “disordine” e lo stato in cui riducevi i bordi di libri e quaderni, vittime designate dei tuoi disegni, ma perché imbrattare proprio i bordi dei libri e non il banco o i muri, com’è di moda oggi! O hai studiato poco da… vandalo?
Altrochè… come tutti i bambini ero molto sensibile al fascino irresistibile di un muro bianco, tutto da pasticciare! Erano i muri della mia classe, ridotti già una schifezza, a non ispirarmi. I libri invece, erano uno spasso. Seguivo la lezione, per carità, ma mi annoiavo, fermo, ad ascoltare le imprese di Napoleone III o quanto è grande il quadrato costruito sull’ipotenusa: non c’era un drago, neanche un mostro o un’astronave, in quei discorsi… Napoleone era morto da un pezzo, io sull’ipotenusa non ritenevo di dover costruire niente. Cominciavo a disegnare per rifugiarmi nella fantasia. I miei libri, dall’inizio dell’anno scolastico fino a giugno, acquistavano due etti buoni in peso d’inchiostro.

Secondo te il possedere la vena artistica è… “colpa” o “merito” di essere in qualche modo un figlio d’arte. Il talento per così dire è un fatto di “sangue”?
Penso che un po’ di propensione alla… ”vena” artistica ci debba essere; il resto lo fa l’ambiente e la famiglia. Ad esempio, il sommo Giotto era figlio di contadini ma Mozart era figlio di un musicista: se Giotto non avesse incontrato Cimabue, magari adesso avremmo un artista da studiare in meno, chissà…

Parlaci dei tuoi genitori, oltre ai geni che ti hanno trasmesso, quale è stata la loro influenza sulle tue scelte d’indirizzo artistico: illustrazione, grafica, fumetto… non ti hanno mai detto di studiare da avvocato?
I miei genitori sono due persone meravigliose, che non mi hanno mai obbligato a far nulla, ma solo consigliato. Gli sbagli ed i meriti della mia vita, sono frutto delle mie scelte. Mia madre, Clara, è una valente pittrice e scultrice, ma poi si è dedicata totalmente alla famiglia ed al suo lavoro d’insegnante. Mio padre, Marcello, è un artista, uno scultore, un maestro di vita anche per i suoi allievi (insegnava scultura nell’Istituto d’Arte di Lecce). Sicuramente l’influsso dei miei genitori c’è stato, anche se i miei “modelli” sono gli illustratori ed i fumettisti americani ed argentini. Ho studiato molto i loro lavori, per imparare e “rubare” le loro tecniche. Ma, soprattutto, guardo molto la natura, cerco di capire come “rendere” graficamente certi effetti osservandoli dal vivo.

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Passiamo alla domanda di geografia… Scherzo.
Credo che il bisogno di esprimersi sia innato nell’uomo. Ci sono moltissimi “pittori della domenica” tra medici, avvocati, casalinghe, professionisti che per lavoro fanno tutt’altro che maneggiare i pennelli. Non hanno avuto genitori pittori, eppure amano dipingere. È facile restare affascinati dalla pittura o dalla musica. Se poi hai il “maestro” in famiglia… Il gioco è fatto.

La Grafica Pubblicitaria: molti, tra noti fumettari, vi sono a contatto ed è una loro attività “collaterale”, ma non ne parlano mai, cosa ha di così diverso questo campo da essere tenuto quasi in disparte?
“Grafica pubblicitaria” è un termine generico che indica molte cose: non solo disegno, ma anche fotografia, progettazione di manifesti, depliant, marchi, ecc. E credo che offra, proprio per questo, ampia libertà espressiva, perché ci si può cimentare con vari “linguaggi” figurativi. Forse, chi non ne parla, lo giudica un settore meno “nobile” del disegno in senso stretto, come a dire: “Io per lavoro faccio il regista, ma arrotondo facendo filmini per i matrimoni”…

Come grafico pubblicitario si sviluppa una visione del lavoro, diciamo così “commerciale” che nella realtà della vita di tutti i giorni spesso fa sfociare in una “essenzialità” che sottrae, a chi opera in tale settore, “emotività”, a volte in modo fin troppo esagerato… che ne pensi?
Non credo che il lavoro del grafico pubblicitario sia emotivamente “freddo” ed essenziale: avendo a che fare proprio con la psicologia del pubblico (per vendere, devi sapere a chi ti rivolgi e come la pensa), devi restare sensibile agli umori della società e capirli… E, poi, ci sono anche campagne pubblicitarie per iniziative umanitarie, e devi credere (almeno un po’) al messaggio che trasmetti, per poterlo concepire.

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La tua esperienza con la grafica pubblicitaria, volendo considerare il lato positivo, quale tangibile contributo ha portato alla tua arte e perché non hai continuato questa professione.
Ci ho lavorato poco, per la verità, giusto qualche anno. E, se devo dirla tutta, mi ha lasciato poco… Molto più utili sono stati, per il mio lavoro, i consigli di vieto buon senso che mi ha dato mio padre e le nozioni di grafica pubblicitaria che ho letto nei libri (che comprai per poter lavorare, essendo io un autodidatta). Ho imparato, appunto, alcune regole: su come usare i colori per attrarre l’attenzione, la differenza di “linguaggio” tra un manifesto ed un annuncio su una pagina di giornale, e così via; regole-base, insomma, preziose un po’ per tutti i settori della rappresentazione visiva.
Personalmente, a livello lavorativo, la grafica pubblicitaria non m’interessava: a me piace disegnare e dipingere, in maniera descrittiva. Non è questo il mondo della pubblicità, o almeno, lo è molto marginalmente.

Hai lavorato anche per dei giornali, che tipo d’esperienza è stata? Com’è nata quest’occasione.
E’ stata un’esperienza bella, iniziata grazie alle “voci” sul conto del mio lavoro. Ero ancora molto giovane e l’idea di vedere i miei disegni in edicola mi faceva sentire importante (anche se spesso si trattava di lavorare “a gratis”). Studiavo in Accademia la mattina e, nel pomeriggio, disegnavo per i giornali; facevo delle vignette umoristiche per una rubrica sulla creatività, illustrazioni per un romanzo a puntate, caricature di personaggi politici salentini. Un lavoro vario e gradevole, ma non certo esaustivo sulle mie ambizioni professionali.

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La vignetta satirica è un’arte difficile, la identifichi come “una delle facce” della pluralità d’espressione di un disegnatore o è un qualcosa di diverso, completamente autonomo, rapportabile ad un “linguaggio” particolare.
Mah, io non creerei compartimenti divisi (caricatura, ritratto, illustrazione, ecc.); sono tutte “facce” di un unico oggetto, che è l’espressione artistica. Il caricaturista è un grande osservatore ed un critico feroce dei costumi e della persona. Devi cogliere non solo gli aspetti esteriori della tua “vittima” (che può essere anche la società) ed esagerarli, ma devi cogliere anche il suo carattere, la sua vita. Chi possiede queste doti, sicuramente è avvantaggiato in tutti gli aspetti dell’arte figurativa, specialmente la ritrattistica.

Didattica e arte: che sia fumetto, illustrazione o pittura… Che tipo di relazione c’è, come si possono combinare o come sono combinati questi due elementi? Cosa insegna o cosa può insegnare un quadro, un fumetto, un’illustrazione…
A seconda delle intenzioni dell’autore, l’arte può essere un mezzo potentissimo di trasmissione dei contenuti. Pensiamo all’ “arte sociale” di Pellizza da Volpedo, o alla “Guernica”. Ma anche i fumetti, possono dare dei messaggi rivolti ad un ampio numero di persone; e sono anche uno specchio della società: i supereroi, ad esempio, riflettono le paure del nostro tempo, il bisogno di un super-uomo che risolve tutto, punisce i cattivi, ci salva dal male. L’illustrazione scientifica, poi, ha un indubbio valore didattico; tu dirai: ”Ma non c’è già la fotografia, per mostrare la natura”? Beh, come fai a fotografare un dinosauro vivo? O una savana, con tutti gli animali e le piante insieme, contemporaneamente? E ti sfido a fotografare una scena sul fondo oceanico, a migliaia di metri di profondità, o la collisione tra due stelle…

Chi pratica il tuo mestiere sente di più l’esigenza di Raccontare o di Esprimere se stesso? Per essere più chiari si è più “voce fuori campo” che narra o “narciso” che si specchia!
Un po’ l’uno e un po’ l’altro: chi disegna segue una sceneggiatura, racconta una storia fatta da altri, con personaggi spesso non suoi, con scene che non ha inventato lui; ma lo fa con una “vena” personale, in cui c’è sempre una percentuale di sé. Guai se non ci fosse un tocco personale dei vari disegnatori, le storie a fumetti sarebbero tutte uguali; dai a dieci disegnatori diversi la stessa sceneggiatura e ne otterrai dieci modi diversi d’interpretazione e di resa grafica pur raccontando tutti la medesima cosa!

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Prova per personaggio (inedita)

Sei un autodidatta, ma quali sono stati i tuoi riferimenti fumettistici, quali autori hai seguito per formare un tuo segno personale e perché hai scelto proprio questi.
Sono un amante del realismo e dell’armonia compositiva (ho detto che amo queste cose… non che io riesca sempre a produrle!). Sia in pittura che nel fumetto, i miei autori preferiti sono quelli che riproducono la realtà, sia pur con il proprio stile. Quindi Bolland, Segrelles, Huges, Nowlan, Villa, Seijas, Civitelli, Venturi, le composizioni di Toppi… mi fermo qui, ma ce ne sono altri.

In varie occasioni come modello hai citato la Scuola Argentina per una spiccata capacità di questi autori di disegnare “la mimica”. Com’è che non hai citato la Scuola Salernitana che nei suoi elementi è maestra nella “recitazione” dei personaggi.
Della Scuola Argentina, mi piace soprattutto il senso della misura, dell’equilibrio, così lontano dalle ipertrofie muscolari e stilistiche U.S.A. (tranne Nowlan e Huges, che sono comunque dei maestri), in quest’ambito, adoro le donne di Seijas (Helena) e le invenzioni grafiche di Breccia. E poi sono cresciuto a pane e Lanciostory, lo comprava mio padre. In estate, la mia “siesta” preferita era passare le prime ore afose del pomeriggio stravaccato su un materasso a leggere fumetti. La Scuola Salernitana, l’ho conosciuta (ed apprezzata) solo molto dopo, quando ho “scoperto” la Bonelli.

Tra i tuoi riferimenti c’è Villa, quale è la dote, la capacità di quest’autore che più ti ha attratto e che gli avresti volentieri “rubato” ?
Claudio Villa è per me un mito. Da dove comincio a dire in cosa lo ammiro?… Vorrei avere la sua conoscenza dell’anatomia, il suo chiaroscuro magistrale, la sua padronanza dei panneggi, il dinamismo delle scene e delle inquadrature, quel suo tratteggio che riesce a descrivere i passaggi tonali anche sui volti. E’ un artista completo. Fantastico.

Quand’è che ti sei sentito “autonomo” svincolato dai tuoi modelli.
Sembra strano, ma c’è proprio una data precisa. Al liceo ero rimasto stregato da Moebius, e disegnavo tutto come lui: con quei puntini, il tratteggio a linee parallele, ecc. Così per mesi e mesi. Poi, un giorno dovevo disegnare un terreno con le zolle, le rocce… Iniziai a fare il solito chiaroscuro “alla Moebius” e ad un certo punto non sapevo come risolvere certi dettagli. Mi bloccai. Mi accorsi che stavo disegnando in un modo che non mi apparteneva, come se stessi recitando una parte. Abbandonai quella tavola e ricominciai da capo, cercando di fare le cose a modo mio. Da allora, procedo su una mia strada.

 

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Che tempi hai mediamente per realizzare una tavola e cosa usi come attrezzi, i classici: pennello, pennino, pennarello e la china o qualcos’altro?
Circa due/tre giorni a tavola. Sono lento. Prima ero molto più veloce, mi ponevo meno problemi ed usavo i pennarelli per le inchiostrature (i Nestler, i migliori ed insuperati; talmente buoni che non li fanno più. Chissà perché!). Poi un amico mi suggerì di provare l’inchiostratura a pennello: scoprii così i pennelli Windsor&Newton, con l’inchiostro omonimo. E non li ho più abbandonati. Faccio tutto a pennello ed il pennarello lo lascio per i dettagli architettonici o che non necessitano di un tratto modulato.

Come imposti la tavola e quali accorgimenti tecnici adotti.
Una volta letta la sceneggiatura, faccio un bozzetto della tavola su un foglio di “brutta”, molto approssimativo, giusto per studiare le masse e la composizione. Poi suddivido il foglio di cartoncino in vignette e faccio le “matite” vere e proprie, con i “balloons” in cui scrivo il testo (per calcolare esattamente quanto spazio prenderanno); faccio matite molto precise e dettagliate, studio ogni cosa a matita (tratteggi, effetti vari) prima di inchiostrare.

Ti sei presentato ad una Lucca, di ormai tanti anni fa, con la cartella sotto braccio facendo il giro degli editori. È così che è cominciata la tua avventura di fumettista professionista?
Sì, è andata proprio così: cartella sotto il braccio, tante speranze, tante delusioni. Feci diverse comparsate a Lucca, prima che si aprissero le porte delle redazioni. Erano anni difficili, non si dava credito agli esordienti… Fu solo grazie al fenomeno “Dylan Dog”, che si sbloccarono le cose. Le redazioni cominciarono a lanciare sulla piazza nuove serie, servivano autori… E mi trovai al posto giusto nel momento giusto. Ricordo ancora quel giorno… Lo racconto, come monito per altri giovani di belle speranze, che dovessero sentirsi scoraggiati dai fallimenti: non demordete! Dunque: ero al palasport di Lucca Comix, seduto tristemente sui gradini, con la mia cartella di disegni sulle ginocchia, dopo un ennesimo rifiuto di un editore; un amico mi disse che alla “Dardo” cercavano un disegnatore; ma ormai non me ne importava più, avevo deciso di lasciare i fumetti. Il mio amico insisteva a mostrare le mie tavole, alla fine gliele consegnai e gli dissi di pensarci lui. Luca (si chiama così) tornò dopo un poco, sorridente: ”Alberto, alla Dardo sono rimasti colpiti: ti vogliono assolutamente conoscere”. Incredulo, andai allo stand della Dardo Editore… E iniziai a lavorare su Gordon Link, con una storia “cucita” apposta sulla mia passione per i dinosauri dall’ottimo Manfredi (dal titolo“Godzilla”, mi pare sia il n°23 della serie).

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Hai conosciuto M.M. Lupoi…  hai fatto delle prove disegnando Supereroi. Ma quali sono i fumetti che preferisci, che leggi e che ti divertono.
Tranne gli albi della mia adolescenza (Lanciostory, Skorpio) ho letto poco i fumetti… Negli anni della maturità ho comprato storie soprattutto per studiare i disegnatori. Come testi, però, ci sono alcuni fumetti che ho conservato e che ogni tanto ho riletto; mi piacciono le storie con un buon contenuto, anche umoristico, ma assolutamente non “splatter”: è un genere che non mi attira, nemmeno al cinema. In cima metterei un episodio di “Gilgamesh” di Wood e Olivera, ambientato nella Palestina ai tempi di Cristo ed un “libero” dal titolo “Un uomo preciso” con disegni di Serpieri.

Il primo personaggio seriale che hai disegnato è stato dunque Gordon Link della storica editrice Dardo, parlaci di questa esperienza, quali erano le tue aspettative e quali sono state, se ci sono state, le delusioni.
Come ho raccontato, l’approdo alla Dardo fu inatteso ed insperato. Roba da fumetti, appunto, dove il lieto fine arriva quando ormai tutto sembra perduto. Forse, per questo motivo, sono particolarmente affezionato a questa “storica” casa editrice milanese. Fui trattato benissimo, la Dardo fu con me molto disponibile e conservo di tutti loro un ottimo ricordo.

Poi c’è stata la Star Comics, Ade Capone e il suo Lazarus Ledd…

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La Star è la casa editrice con cui ho collaborato più a lungo, e con Ade si è creata con il tempo una bella amicizia. Lazarus è stato un personaggio importante da disegnare (all’epoca, la Star Comics era la seconda casa editrice di fumetti italiana, dopo la Bonelli) e mi cimentai con grande entusiasmo. Rileggendo quelle mie tavole, oggi, non mi pare un ottimo lavoro: c’erano molte ingenuità grafiche, ma… questo fa parte del mestiere e di noi disegnatori, a guardare le tavole fatte il giorno prima ci si trova sempre qualche difetto e non si è mai totalmente contenti… un modo di vedere il proprio operato che è poi la molla che ti fa migliorare, cercare nuove soluzioni e tenere vivo il lavoro.

Lazarus, un fumetto che ti ha coinvolto e accompagnato anche in altre esperienze, la copertina di un CD, le illustrazioni di un libro di poesie… cosa pensi ti abbia trasmesso l’esperienza con questo personaggio e cosa senti di aver dato tu al Character.
Ho disegnato Lazarus Ledd praticamente in tutte le salse: realistico (per le pubblicazioni) e caricaturale (per vignette destinata ad amici), in bianco e nero e a colori; mi manca solo di modellare una statua e poi siamo al completo. Non so cosa abbia potuto trasmettere al personaggio, oltre all’averne leggermente personalizzato (come tutti gli altri disegnatori) i tratti somatici; sicuramente l’impronta “albertesca” c’è nelle storie, grazie alla benevolenza di Ade, che ogni volta si premurava di scrivere soggetti che riguardassero gli interessi di ciascun disegnatore: a me, ad esempio, sono toccate tutte storie con animali (gatti e delfini in particolare) o scene piuttosto spettacolari o paesaggi naturali (come in “Independence Day”). Ma indubbiamente, Lazarus ha dato moltissimo a me: non solo in termini d’esperienza lavorativa, ma soprattutto per quel che riguarda le gratificazioni professionali… Le fiere del fumetto e le mostre, dove mi sono trovato a contatto con l’entusiasmo dei fans, sono stati dei momenti magici che hanno ripagato abbondantemente tutte le giornate che avevo passato” inchiodato” al tavolo da disegno.

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In verità non ho mai avuto problemi a lavorare con i diversi sceneggiatori. Forse perché ho avuto sempre a che fare con ottimi professionisti, che non scrivono le sceneggiature come fossero romanzi, con personalismi stilistici. Ho lavorato su solide pagine di scritto, con descrizioni più o meno dettagliate delle scene. Potevano cambiare giusto le sfumature nelle note aggiunte per il disegnatore, ma sostanzialmente non ho avuto nessuna difficoltà a calarmi nelle diverse sceneggiature.

Infine sei passato alla SBE, reclutato attraverso la testata di Martin Mystere ma subito impegnato nella serie Zona X e, poi passato nello staff di Napoleone di Ambrosini, raccontaci questo percorso e perchè si è interrotto proprio mentre eri all’apice di un’ascesa costante e una meritata consacrazione di fumettaro.
“Apice” è una parola grossa. Almeno, per come intendo io questo termine, all’apice ci sono i maestri. No, diciamo che ero finalmente approdato alla più importante casa editrice di fumetti a cui aspirassi arrivare, nei miei sogni di pre-fumettista. Non credo ci siano parole per descrivere l’emozione con cui scartai il pacchetto con la prima sceneggiatura “bonelliana” da disegnare, che mi arrivò a casa (“Il popolo del vento”, testi di Stefano Vietti, serie “Zona X- Magic Patrol”). Era una storia piena di mostri e paesaggi selvaggi, genere fantasy. Una libidine per me. Inventai tutte le macchine volanti, le armi, e le strane creature dell’albo (ed una “Abiurah”, ha ispirato un personaggio molto simile, su un albo di cui non ricordo il nome, né il disegnatore).
Feci poi un altro albo (“Il sigillo delle tenebre”, sempre su testi di Vietti, e sempre per “Magic Patrol”), cupa e gotica, anche qui mostri a volontà, dove mi sbizzarrii nei dettagli maniacali di ogni vignetta (foglie, squame, tratteggi). Poi la serie chiuse, e passai su “Napoleone”.
Ambrosini non fu meno buono di Ade, nel congegnare una storia (nientemeno) che con dinosauri (almeno nelle prime tavole) e con qualche drago qua e là. Ma qu ei dinosauri, proprio quei dinosauri, erano un richiamo fortissimo per provare a dedicarmi all’illustrazione scientifica a tempo pieno. Finita la storia, avvisai la Casa Editrice che avevo intenzione di tentare la strada dell’illustrazione museale. E andò bene: iniziai con un’illustrazione del primo dinosauro scoperto in Italia (pubblicato anche sull’enciclopedia “Il magico mondo dei fossili” della De Agostini) ed ho continuato collaborando con vari enti pubblici e privati, italiani ed europei.

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Lavorare per Bonelli è davvero raggiungere il massimo o è solo un luogo comune? Quali sono le differenze per cui lavorare in bonelli fa sentire un autore “arrivato”.
È il massimo. Non tanto e non solo per le dimensioni che ha, per l’aura quasi leggendaria che la circonda. E’ che percepisci di far parte di una grande squadra, che annovera tra le sue fila artisti di calibro mondiale. Un Sergio Toppi, un Bernet, sono ormai nomi da enciclopedia del fumetto. E’ la casa editrice di fumetti italiana i cui personaggi sono conosciuti e diffusi in una quantità enorme di nazioni, a livello mondiale. Sergio Bonelli è nominato dalle varie enciclopedie… Devo continuare? Eppure, la grande Sergio Bonelli Editore sa essere straordinariamente “a misura d’uomo”, non ti dà mai la sensazione di stritolarti con la sua imponenza. Al telefono – io ho sempre lavorato a Lecce ed i miei rapporti con la Bonelli sono stati per lo più telefonici ed epistolari – ho sempre trovato come interlocutori persone pacate e disponibili, gentili e rispettose. Sì, è vero, si lavorava in modo favoloso. Piccoli editori della mia terra, per dirla tutta, che fatturano un decimillesimo della Bonelli, quelli sì, invece, hanno fatto i gradassi a conferma che, in fatto di professionalità in questa realtà c’è ancora della strada da fare: sia inteso come incitamento a migliorarsi, non come critica fine a se stessa.

Attraverso un lavoro e un impegno volti alla ricerca di qualità e professionalità, che ha portato il fumetto popolare a sovrapporsi al cosiddetto fumetto d’autore, Bonelli ha portato, in 60 anni di pubblicazioni (coinvolgendo generazioni di lettori), ad identificare il fumetto italiano con i suoi prodotti, ma, per assurdo, se Bonelli avesse fatto “l’esploratore” lasciando perdere i fumetti, secondo te oggi, come sarebbe o potrebbe essere il panorama fumettistico italiano.
Non so… Credo che avremmo avuto un panorama fumettistico più povero e spezzettato. Penso che non avremmo avuto la Bonelli, intesa come grande casa editrice portante, ma un insieme di piccoli e medi editori. Anche il “modello” dell’albo bonelliano, non ci sarebbe stato: probabilmente avremmo avuto dei giornalini, stile Marvel, o “corriere dei ragazzi”, più scomodi come formato e quindi meno diffusi. Ma è un po’ come chiedersi: ”Se non fosse apparso l’uomo, come sarebbe il mondo?” Forse avremmo delle scimmie intelligenti, o… chissà.

Alberto Gennari: mondi dipinti con i colori dei sogni> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="214" width="260" alt="Alberto Gennari: mondi dipinti con i colori dei sogni >> LoSpazioBianco" class="alignleft size-full wp-image-32500" />Il computer, la rete, il fumetto digitale, i vari ipod, ecc. ecc. come stanno cambiando il fumetto e la vita del fumettaro.
La “rete” è stata più volte accusata di minacciare i mass-media tradizionali: libri, cinema, televisione, ecc. I tempi cambiano, le mode arrivano, fanno il botto e poi passano. Come in natura, c’è la seleziona naturale, così la nostra società elimina quel che non va e lascia quel che funziona. I libri sono spariti dalle librerie? No. Al cinema la gente continua ad andare. La televisione fa schifo, ma questo è un altro problema. Credo che i fumetti, come le cose buone e che funzionano, potranno avere una flessione momentanea di vendite – ma ora tutto è in crisi… mancano i soldi, ed anche questo è un altro problema – ma non spariranno. Semplicemente troveranno il modo di colonizzare i vari e-books, e si trasferiranno (se sarà il caso) dalla carta al supporto elettronico.

Se come fumettaro la tua “nemica” è la routine… come illustratore disegnare dinosauri per anni non è lo stesso!
Il “rischio” routine è sempre in agguato ma, in realtà, la nemica del profondo impegno professionale è la noia. Ora, il mio lavoro è mutevole – in un museo ci sono molte cose da fare, dalla scultura al restauro, ai dipinti – alla lunga, però, potrebbe “stancare”, perchè il settore è sempre lo stesso. La soluzione allora potrebbe essere cambiare campo, ogni tanto. Non è quindi escluso che un giorno io torni ai fumetti. Almeno provvisoriamente.

Un buon illustratore deve tirare fuori, in una sola immagine, (un po’ come un grande fotografo) qualcosa che nell’istante che coglie deve suggerire una storia e far immaginare dinamicamente una scena, creare un’atmosfera e toccare le corde della fantasia di chi guarda… caspita! Ma come si fa? Quale è il segreto per riuscire a dare tanto? Tu come fai?

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Ha! Ha! Infatti è molto difficile. Beh, l’illustrazione scientifica, almeno per come lavoro io, è un campo che un po’ somiglia al fumetto (o forse sono io che ci porto dentro le mie esperienze passate di fumettista); in sostanza, devi immaginare una specie di brevissima storia, di una sola immagine, che racconti chi è quell’animale che stai raffigurando, dove vive, cosa mangia. Devi pensare sempre: ”Cosa capirebbe, un profano assoluto della materia, guardando questo disegno”? Devi quindi evitare inquadrature troppo complicate o poco chiare, eliminare le ambiguità visive (sovrapposizioni di soggetti dove non si capisce bene la forma degli elementi), illuminare il paesaggio con luci tali da evidenziare le forme, studiare molto ma molto bene i soggetti prima di dipingerli.

Nell’illustrare un libro come procedi, hai una sceneggiatura dettata o te lo leggi e poi scegli delle scene da rendere in figura.
Fino ad ora, nel campo dell’illustrazione naturalistica, ho avuto a che fare con illustrazioni singole, per le quali c’è stata una serie di semplici indicazioni verbali da parte degli studiosi (tipo: ”Mi serve che disegni quella tale specie di pianta o di animale, dobbiamo mostrare mentre mangia o il ciclo vitale… ”); segue poi la ricerca delle fonti iconografiche (internet-fai-da-te, o più raramente libri), poi un bozzetto da commentare e poi l’esecutivo.
Per i libri di narrativa che ho illustrato di recente, invece, ho avuto le copie dei racconti, con l’indicazione scritta delle parti da illustrare. Contatti telefonici e via mail con gli autori (E. Detti e G. Fiori) hanno poi chiarito nel dettaglio come dovevo procedere. Ho fatto i bozzetti, li ho inviati, e poi dopo l’approvazione, sono passato alla fase esecutiva.

Nel tuo essere illustratore hai avuto un percorso che, visto dove ti ha portato, ti ha posto sicuramente di fronte ad un’opera di Zdenek Burian, un autore che, prima o poi, tutti coloro che sono interessati alla preistoria si trovano ad ammirare. Il nome dell’autore magari non rimane in mente ma il disegno o il dipinto che abbiamo trovato rimane impresso nella memoria: tu come lo hai incontrato e quanto ti ha influenzato.
Burian è un artista il cui nome è una specie di codice fiscale, pieno di consonanti. Ma i suoi insuperabili dipinti sono stati la “porta” che ha fatto volare la mia fantasia fuori dalla gabbia dell’infanzia. Mi tuffavo, quasi fisicamente, nelle scene dipinte da Burian, che si spalancavano sconvolgenti dai libri della biblioteca di mio padre, che saccheggiavo nei miei giorni di bambino. Non leggevo “Diabolik” o “Topolino”, leggevo i libri di animali preistorici. Ero malato, sicuramente. Quei paesaggi, con quel sole abbacinante, quegli spazi sconfinati… mi hanno segnato, erano i mondi delle fiabe che diventavano reali, sapevo che quei “draghi” erano vissuti veramente, in un tempo così lontano che già per questa sua antichità diventava mito.

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Una delle immagini più significative dell’opra di Burian è il Neanderthaliano curvo nel tipico atteggiamento quasi pensoso. È questa la sua forza, quella dei grandi visionari, andare oltre l’immagine in sé saturandola di emotività fino a stuzzicare il cervello ben oltre la corteccia visiva.
Già… Hai detto bene. E questo mi suggerisce una riflessione: quando “fare cultura” e stupire, intrigare, incantare lo spettatore diventano un tutto uno, la conosc enza umana progredisce. Quando invece si ritiene che la cultura significhi noia, che più la si evita e meglio è, che alla gente bisogna dare pane e schifezze, la conoscenza umana si atrofizza, muore la voglia stessa di sapere e acculturarsi.

Chi altri, tra gli artefici dell’illustrazione, ti ha influenzato, ti ha dato motivo di studio, e chi semplicemente per un fatto di “gusto” ti piace e basta.
Come Claudio Villa per il fumetto, nell’illustrazione scientifica ho il mio mito (oltre a Burian) si chiama John Gurche. E’ un pittore e scultore iperrealista, quando vidi le sue opere fu una svolta nel mio modo di lavorare.

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Non solo ricreare i dinosauri. Col tempo ho imparato a conoscere ed apprezzare il mondo della natura più in generale; lavoro sui soggetti più disparati, dalle meduse alle piante officinali, passando per le alghe unicellulari, plesiosauri e farfalle… dipende quello che serve disegnare, di volta in volta. Ma quello che mi attrae è il mistero che circonda la preistoria, la sua ineffabilità, la maestosità dei paesaggi in cui, la presenza di un mostro preistorico, dà subito un che di grandioso, di sbalorditivo: un campo d’erba con un mastodonte sotto il sole, non fa lo stesso effetto se invece ci dipingi un cerbiatto.

Cosa provi veramente nel ridare vita ad un animale preistorico.
Bella domanda. E’ il cuore del mio lavoro. E’ un lavoro che somiglia molto a quello di un detective. Tu hai la scena di un delitto: hai un cadavere (le ossa fossili, ma anche soltanto delle impronte, o resti di uova o avanzi di pasti), un assassino (un predatore, un evento naturale) e devi capire com’è andata… Di più: devi anche ricostruire l’aspetto della vittima, perché nella maggior parte dei casi, non sai nemmeno bene che forma avesse! Ci sono dei fossili straordinari: ad esempio, vertebre di balena pietrificate, con i tagli di morsi di squali giganteschi, che squarciavano fino alle ossa… Dalle tracce, puoi capire che specie di squalo fosse, come ha attaccato, e così via.
E poi c’è una parte più squisitamente tecnica, la “biomeccanica”, che studia in che modo i muscoli si inserissero sullo scheletro e quali movimenti potesse compiere un animale: puoi capire così molto del suo modo di vivere. E, udite, udite, una scoperta recente pare che abbia addirittura svelato… di che colore fossero i dinosauri! Almeno, alcune specie di piccoli dinosauri pennuti, le cui penne fossili hanno tracce di cellule pigmentate. Anche le impronte, lasciate sui fanghi fossilizzati, raccontano molto: puoi capire se una specie vivesse o meno in branco, come si spostava, ecc. Ci sono serie di impronte che documentano l’attacco di un gruppetto di dinosauri carnivori ad un branco di erbivori; infine, nei terreni gelati della Siberia, sono stati trovati mammuth intatti, con i resti di cibo nello stomaco e carne così ben conservata che, in certi casi, fu data da mangiare ai cani delle slitte.

Per caso vivi in una sorta di prolungata “notte al museo”?
Amo il mio lavoro. Ma la parte che più mi piace è la “caccia” sul campo, non il chiuso dei musei. Niente è più elettrizzante dello scoprire un mostro preistorico imprigionato nella roccia, che ti si para dinnanzi, in una gola selvaggia ed arida, tra il profumo delle erbe selvatiche ed il sole che è una frusta di fuoco sulla terra… Dalle mie parti, le rocce contengono spesso resti di balene (siamo in un antico mare), giganteschi pesci, e denti che appartenevano a squali grandi come un autobus.

 

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Le ultime illustrazioni da te realizzate sono su libri di narrativa per ragazzi, uno di Ermanno Detti e l’altro di Giuseppe Fiori, quali sono state le differenze nei due lavori anche da un punto di vista tecnico.
I due libri trattano argomenti molto diversi: il primo “I predoni del deserto” di E. Detti, è una sorta di remake di un racconto di Salgari, reinterpretato e riscritto dallo scrittore toscano; il secondo, “Phantomas” di G. Fiori, è più di un remake del romanzo originale “Fantomas”, è una sorta di “sequel” che si svolge ai giorni nostri. Le differenze, quindi, sono qui: nel primo c’era un mondo esotico, il deserto del Sahara con le sue atmosfere orientali, degli inizi del XX secolo. Nel secondo, l’ambientazione era la Roma del XI secolo, con scorci urbani e venature tecnologiche. Il primo libro ha richiesto un massiccio lavoro di ricerca e di documentazione, riguardo i costumi d’epoca: la scuola “bonelliana”, con la sua rigorosità e la sua precisione è servita moltissimo: dovevo trovare i costumi dei Tuareg del 1903, pugnali e fucili dell’epoca e di quelle zone (Egitto, Algeria, ecc.) i tipi di palloni aerostatici (il protagonista viaggia in mongolfiera), bardature di cammelli, le palme selvatiche, e così via. Non è stato facile né breve. Il secondo libro ha richiesto meno impegno, dal punto di vista documentaristico, tranne che per una rivoltella francese del 1930, che non è stato semplice rintracciare. Ma avevo bisogno proprio di una rivoltella francese del 1930, per una scena di una rapina su un treno (e, ovviamente, anche di uno scompartimento ferroviario dell’epoca… ).

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Quali sono i tuoi attrezzi da illustratore e cosa usi per dipingere; la leggenda dice che per ottenere determinati effetti hai usato persino del succo di pomodoro! Che tipo di colori preferisci o usi, parlaci della tua tecnica
A-ah! Sul succo di pomodoro sei male informato! No, in realtà è andata così: dovevo dipingere “Barbarian”un personaggio di una serie a fumetti della “Image”; questo “tizio” è una specie di gigante dalla pelle rosso acceso. Non sapendo come rendere l’effetto traslucido di quella pelle, con i riflessi, le trasparenze, trovai che ritrarre un pomodoro maturo fosse la cosa migliore… e così è stato. Documentandomi sulle tecniche usate dai grandi illustratori americani, ho poi scoperto che i migliori di loro usano ritrarre dei modellini di animali preistorici, per azzeccare con precisione le luci e le ombre. E così ho cominciato anch’io a costruire i miei modellini: faccio poco più che degli abbozzi, in das o altri materiali “veloci”, li metto in posa, scatto una foto ed è fatta. In fondo, perfino i grandi artisti del passato, non si servivano forse di modelli viventi? Certo che sì… Qualcuno si è pure sposato la modella! I miei modelli, invece, non esistono più da milioni di anni, ed avrebbero comunque dimensioni intrasportabili in uno studio di pittura. Così, meglio usare dei modellini in scala. Per la fase di pittura, ho usato molti anni la tempera acrilica: asciuga in fretta, è economica ed è disponibile in un’ampia gamma di colori. Ha però l’inconveniente di essiccare in modo rapido, le sfumature sono difficili da ottenere ed una volta secco il colore non si scioglie più: è irreversibile ed il colore composito è difficile da rifare uguale. Il colore ad olio, invece, si mantiene fresco e lavorabile a lungo, per fare le più delicate sfumature, con qualche accorgimento si può conservare il colore composto per un certo tempo. Non dipingo su tela, ma su cartoncino, è più fine, i dettagli minuti risultano al meglio (per i soggetti che dipingo, i dettagli sono essenziali). La pittura ad olio, però, si diluisce con solventi che, specie in estate, col caldo, evaporano con esalazioni non proprio balsamiche. Recentemente, quindi, ho sostituito la tavolozza materiale con quella virtuale: ho un bel pc assemblato, con una tavoletta grafica Wacom, con cui sto dipingendo molte illustrazioni. Anche i libri di Detti e Fiori, di cui sopra, li ho dipinti alla Wacom. Ed ora sto preparando una serie d’illustrazioni su faune preistoriche, sempre in pittura digitale. Molti storcono il naso, a sentir parlare di pittura al computer. Lo facevo anch’io. Ma è comoda in pratica, risparmi moltissimo tempo. Lo stesso soggetto, una volta fatto, lo puoi riciclare, modificare, spostare, senza dover ogni volta rifare tutto. L’aerografo elettronico non s’intasa mai, non fa rumore, non sporca. E se non ti piace quel che hai dipinto Ctrl+alt+z e tutto torna com’era. I tempi cambiano, bisogna adeguarsi. Forse un giorno la pittura digitale avrà la stessa dignità artistica che riserviamo oggi ad un’altra forma d’arte “seriale”: la fotografia.

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No, anzi: il “pittore” è spesso identificato con l’artista in senso lato, cioè uno che è libero di esprimersi senza limiti di fantasia; io, come illustratore, ho molti vincoli, non posso fare un leone verde o un asino che vola, e se illustro un libro per ragazzi devo attenermi a precise regole figurative e di buon gusto.

Tra i grandi fumettari italiani ce ne sono stati alcuni grandissimi anche come illustratori vedi Albertarelli e Molino, per citarne solo due visto che l’elenco è lungo, ma cosa scatta in un autore quando sceglie di esprimersi con l’una o l’altra strada, il dilemma: sequenza o immagine fissa, raccontare o immaginare… come viene risolto?
Te lo dico io: non chiederti cosa ti piace fare, o meglio, tu scegli quel che vorresti fare e prova a farlo. Tanto poi sarà il mercato (l’editore) a dirti quel che farai davvero. Battute a parte, credo che tra fumettari ed illustratori ci sia una notevole differenza d’approccio al lavoro: là dove l’illustratore cesella, cura, descrive, ma in una singola tavola, ecco che il fumettista sintetizza, semplifica, va per tagli grossi, ma su molte scene. Quando un illustratore fa fumetti, si vede: le sue vignette sono ricche di dettagli e “pesanti”; e quando un fumettista illustra, le sue tavole tendono all’essenzialità. Almeno, questa è la mia impressione. Ecco perché vediamo autori come Capitanio, che fa vignette ricchissime, stupende, ma che per me non sono fumetto “puro” ma più che altro gioiellini d’illustrazioni in piccolo (per il mio modesto parere, fumetto “puro” è Pratt). E’ un dilemma irrisolvibile, almeno dal mio punto di vista, e la scelta di campo (fumetto o illustrazione) può essere dettata da vari fattori: voglia di cimentarsi con un campo artistico nuovo, esigenze commerciali, ecc. ecc. Queste incursioni da parte dei vari artisti, nei settori del fumetto e dell’illustrazione, può produrre comunque degli “ibridi” interessanti: delle “illustrazioni fumettose” o dei “fumetti illustrativi”…

Hai allestito delle mostre personali esponendo in vari momenti i tuoi lavori d’illustratore e quelli di fumettaro, grafico, pubblicitario, ecc. ecc. cosa ti hanno dato queste diverse esperienze e in particolare cosa significa per un autore essere il protagonista di una galleria.
Cosa significa essere protagonista di una galleria? La tua domanda m’ispira un “incipit”in stile da trailer cinematografico: “per anni ed anni, quest’uomo ha lavorato nell’ombra, i suoi lavori hanno arricchito pubblicazioni e musei, ma chi sarà, il pittore misterioso che ha imbrattato tutta questa carta? Perché non si rivela al mondo?” Eh sì: alla fine mi sono detto: ”D’accordo, ho lavorato tanto, ma chi mi conosce?” Fare una mostra, vuol dire riappropriarsi di un qualcosa che nel nostro lavoro manca: il contatto con il pubblico. Quando facevo fumetti, una delle frasi bisbigliate più di frequente, tra i ragazzini che chiedevano un disegnino, era: ”Ma questo chi è?” Non ci conosceva nessuno. Il nostro viso era in pratica ignoto ai nostri stessi ammiratori. Già per definizione, il disegnatore esce poco e sta al tavolo da lavoro, mentre i suoi amici (impiegati, professionisti con orari di studio) se ne vanno a spasso. La compagna del fumettista è una santa, o un incrocio tra una donna ed un gatto (perché deve amare stare chiusa in casa). Quindi: contatti sociali, pochi…

Hai curato anche i cataloghi che tipo di lavoro è stato, come hai fatto a decidere questo sì quello no, questo lo metto quest’altro no!
Lavoro lungo e difficile, non solo per l’immensa mole di disegni da cernire, ma anche per la difficoltà di preferenza. Quale di questi centinaia di lavori è più degno di mostrare chi sono, alla gente? Una bella rogna, credimi.

Il catalogo è “semplicemente” il libro della mostra o è qualcos’altro?
E’ un piccolo saggio di lavori, a fini promozionali; lo uso come “book” invece della solita chiavetta, del CD o del portatile. A proposito del web e dell’elettronica, delle minacce alla carta stampata: ancora adesso, un bel catalogo cartaceo, ben stampato e con immagini grandi a colori, fa più effetto di una serie di schermate su un monitor, te lo dico io.

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In occasione della presentazione di una tua esposizione ti sei espresso così:… ”Un augurio che i visitatori si divertano a guardare le opere e nello stesso tempo s’interroghino e m’interroghino… ”: cosa volevi dire.
Beh, si, è un po’ il concetto che ho espresso parlando di Burian, della cultura-spettacolo, che affascina ed insegna. Nelle mostre, al di là dell’aspetto scientifico (nelle illustrazioni naturalistiche è ovvio l’aspetto culturale… ) ho curato anche un altro fattore didattico: il “come-si-fa”. Ovvero: non solo ho voluto esporre i quadri finiti, ma anche i bozzetti, gli schizzi preparatori, le fasi di lavorazione. Ho voluto mostrare anche cosa c’è “dietro” ad un’illustrazione dipinta al computer, come si arriva al prodotto finale. Le mie mostre non devono essere solo un’autocelebrazione, non mi piace dirmi “Uh, guardate quanto so’ bbravo!”. Voglio che i visitatori interagiscano con i miei lavori, mi facciano domande, che la visita serva a qualcosa anche a loro. Se si tratta di disegno scientifico poi, voglio che mi facciano domande sull’ecologia, sulla natura in pericolo… Dissi nella presentazione di una mostra come, illustrando una scena con le erbe e gli animali dei campi, mi accorsi di quel piccolo prezioso mondo che fino ad allora avevo calpestato con noncuranza… Conoscere può essere il primo passo verso l’amore per le cose… E se ami qualcosa, poi lo difendi. Conoscere il mondo naturale, può servire a difenderlo. E dovremmo sbrigarci, i danni fatti sono già troppi.

Allora, per finire, la tua vita è ormai dedicata esclusivamente agli “squarci di vita” del lontano passato del pianeta o c’è ancora speranza di poterti vedere (e ammirare) alle prese col racconto a fumetti.
Chissà! La voglia c’è e, forse, prima o poi…

I Progetti del prossimo futuro?
In campo editoriale ci sono già un paio d’idee per libri illustrati, che mi stanno stuzzicando. Appena avrò qualche certezza in più, te ne informo.
Ma, soprattutto, il progetto più grande è restare sempre giovane: avere, cioè, sempre la voglia e la capacità di sognare e di lottare per realizzare i propri sogni. Anche quando la vita sembra fare di tutto per disilluderti e coprire col grigio del cinismo i colori del tuo mondo.


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Biografia
Nasce a Lecce nel 1968 dove vive e lavora. La carriera d’illustratore la inizia a 14 anni, quando illustra un libro di fiabe della poetessa Marisa Caretto: Sapore di fiaba. In seguito illustra due libri di grammatica in lingua tedesca per l’editrice Innocenti di Trento e, nello stesso periodo, approda alla grafica pubblicitaria e alla vignetta satirica. Vince una selezione per un concorso nazionale, supervisionato dal maestro Carlo Rambaldi, indetto presso tutte le accademie di belle arti del Paese. Nel 1989 è autore di un breve filmato a cartoni animati che riceve apprezzamenti da Bruno Bozzetto. Nel 1991 consegue il diploma di scenografo ed entra nel mondo del fumetto collaborando con la Dardo (disegna Gordon Link) e poi con la Star Comics (collabora a Lazarus Ledd). Nel 1993 realizza il primo pannello di quella che è la sua passione: la ricostruzione pittorica di animali e ambienti preistorici, nello specifico esegue la ricostruzione del primo dinosauro rinvenuto in Italia, opera pubblicata su svariate riviste scientifiche in Italia e all’estero. Nella seconda parte degli anni ’90 illustra ancora libri, collabora con diverse riviste, disegna anche una card per l’americana Image Comics e approda alla Sergio Bonelli Editore come disegnatore prima della serie Magic Patrol nella collana Zona X e, poi, di Napoleone. Nel 2001 illustra dei pannelli per la Città della Scienza di Napoli e inizia a collaborare con l’Università degli studi di Bari al Museo delle Scienze della Terra. Inizia così un nuovo percorso artistico/figurativo da illustratore a tema paleontologico e naturalistico che lo che lo allontana dal fumetto e lo porta a collaborare con vari enti scientifici nazionali ed internazionali. Nel 2010 dopo due mostre personali allestite a Lecce ritorna all’illustrazione di libri di narrativa per ragazzi con l’editore Manni.


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