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Alberto Sordi – Le citazioni più famose

Creato il 09 giugno 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

- Vado a messa, mi confesso, prego ogni giorno, credo nei dogmi e non li discuto.

- I preti tendono a mimetizzarsi, vivono e vestono come laici e si vergognano di mettersi anche una crocetta sul maglione (così non c'è da stupirsi se finisce che il semplice fedele poi si vergogna pure a farsi il segno della croce in pubblico).

- La nostra pratica religiosa è sempre accompagnata dalla confessione: vieni perdonato dal prete, poi ricadi nello stesso peccato e torni a confessarti facendo il proposito di non ricaderci più. E stai di nuovo come un santo. L'importante è essere sinceri e non barare con il Padreterno.

Alberto Sordi – Le citazioni più famose

- Avevo quattro anni quando vidi per la prima volta San Pietro e fu proprio per il Giubileo del 1925. Ero in compagnia di mio padre, venivamo da Trastevere, dove ero nato in via San Cosimato e dove vivevo con la mia famiglia. Arrivammo percorrendo i vicoli, che poi furono distrutti, di Borgo Pio: un ammasso di casupole, piazzette, stradine. Poi, dietro l'ultimo muro di una casa che si aprì come un sipario, vidi questa immensa piazza. Il colonnato del Bernini, la cupola. Un colpo di scena da rimanere a bocca aperta. Ecco, quello che ricordo di più di quel Giubileo fu questa sorpresa.

- Ero in piazza Navona, il cuore della città. A un certo punto vedo spuntare, prima a destra e poi a sinistra, quattro ceffi che non promettevano niente di buono. Questi ti fanno blu, mi sono detto. Per fortuna, arrivato a pochi passi da me, uno dei ceffi mi riconosce: "Albe' - grida - Albertone bello, ma dove cavolo vai a quest'ora di notte?". E rimettendo in tasca qualcosa, che poteva essere una pistola o un coltello, mi dà una gran botta sulla spalla. Così fanno anche gli altri manigoldi. "Andiamo a bere qualcosa!" dice uno coi baffi. "No, grazie - mi difendo - ho un gran mal di testa, fate finta che ho accettato". Qualche volta anche i teppisti hanno un'anima. Ma fino a quando?"

Speciale L'incontro con Benito Mussolini
Io avevo intorno ai tredici anni, era il 1933. [...] Ci sembrò un sogno. Una mattina alle 9, a Palazzo Venezia, l'usciere Navarro ci fa entrare nella mitica Sala del Mappamondo. Era immensa e lustra come uno specchio. Mi tremavano le gambe. Il Duce ci aspettava dietro un grande tavolo. Salutiamo romanamente nelle nostre divise fiammanti. Poi il Duce parla con voce rotonda: "Camerati, vi ascolto". Al che il veterano si slancia in avanti: "Eccellenza, Duce, ecco il mio piano laborioso. Darà lavoro a centinaia di persone". E gli porge alcuni fogli con mappe e grafici. Passano cinque, dieci secondi, sufficienti perché Mussolini intuisca tutta l'inconsistenza del progetto. "Mi vorreste alla posa della prima pietra? No - dice -, vi do tempo. Verrò all'ultima". Così ci licenzia, e noi usciamo dal palazzo come cani bastonati. [...] Mi è servito in seguito. Non ho più raccomandato nessuno. Quando c'è qualcuno che insiste, gli dico: guarda, mi è andata male perfino con il Duce.

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