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All’Ilva niente di nuovo: fanno sempre gli indiani

Creato il 13 febbraio 2014 da Albertocapece

ilva-taranto-tromba-ariaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Impegno Italia dice Letta, evocando catenine della Comunione e anellini con lo zircone portati al Monte di Pietà, avvolti pudicamente in un fazzoletto. A guardar bene il compitino che pare proprio allestito alla bell’e meglio, la notte, con il ritalin e gran tazze di caffè – altro che ascesi zen –  per presentarsi con un pezzo di carta all’esame, altro non è che un componimento  infarcito degli stereotipi cari a questa generazione, regredita perfino rispetto ai lettori di risvolti di copertina e a chi si imparava a memoria il  Bignami, che adesso siamo alle 50 sfumature di neo liberismo, grigie e smorte come l’autore, tramite  50  obiettivi incastonati come gioielli in princisbecco  nella “Cornice europea”  cui si deve fedeltà cieca e assoluta.

Altro che furbetti del quartierino, i due galletti si rubano a vicenda le loro idee stantie. Sono quelle suggerite al sindaco dai suoi “consigliori” l’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra, Oscar Farinetti di Eataly, Giorgio Gori di Magnolia, lo stilista Brunello Cucinelli, Flavio Valeri, il presidente di Lazard e Allianz Carlo Salvatori, Francesco Micheli di Fastweb, l’ad di Royal Bank of Scotland Andrea Soro, Alfredo Romeo, l’imprenditore condannato a tre anni per corruzione nell’inchiesta Global Service, il caimano delle Cayman Davide Serra, il guru di riferimento Yoram Gutgeld autore di un volumetto intitolato “Più uguali più ricchi”, chiaro riferimento a ceti più uguali e ricchi di altri e che vogliono restare tali, insomma un titolo, una garanzia. E che il premier copione si annette e addomestica in salsa democristiana con qualche traduzione ad hoc, così che il Job Act resta una sòla  ai nostri danni ma si chiama “contratto di inserimento a tutele crescenti”, crescenti ma rese sempre più “flessibili”,  dunque precarie,  grazie a un codice del lavoro e a una Legge sulla rappresentanza,  che  a forza di semplificare cancellerà definitivamente quei complicati diritti,  quelle macchinose garanzie, quelle cervellotiche tutele che ostacolano la libera iniziativa.  Peccato che la libera iniziativa secondo Letta e Renzi altro non sia che il ricorso massiccio  a “soluzioni finanziarie innovative per pagare i debiti restanti”, tramite le immancabili, ineluttabili, desiderabili immarcescibili “liberalizzazioni” e “privatizzazioni”, da andare a cercare come commessi viaggiatori col cappello in mano presso sceicchi, emiri, pascià, satrapi, in vena di affari vantaggiosi, gli stessi che si sono aggiudicati pezzi della Sardegna, qualche isola, ma che ora possono giustamente aspirare a qualcosa di più nel profittevole outlet Italia, aziende, brevetti , paesaggi, opere d’arte che siano, che ormai è tutto il Paese il giacimento cui attingere per fare cassa.

Ma c’è anche una irresistibile vena pataccara come in tutti i venditori improvvisati, quelli che girano per i mercatini di paese e una volta rifilano strofinacci, una volta pentole, una volta elisir di lunga vita. Cui si aggiunge la lezione malavitosa e malaffaristica mutuata dalla criminalità, quella tradizionale e quella del gioco d’azzardo finanziario. Così si paga per vendere rifiuti che producono energia altrove che compriamo a caro prezzo, si vanno a cedere navi velenose pagando per rottamare, per poi comprare i veleni trattati e diventati utili, così come si mandavano in giro bastimenti pieni di scorie tossiche in una pratica di export infame, scegliendo Paesi governati da caste affini coi i quali stringere patti e sodalizi opachi e osceni a spese nostre e dei loro popoli.

Mentre Letta sciorinava il suo Impegno Italia, il Sole 24 ore ci informava che si starebbe cedendo un altro gioiello italiano. E che gioiello, probabilmente uno di quegli anelli preziosi che nascondono sotto il castone un potente pozione letale: si tratta dell’Ilva sulla quale ha messo gli occhi la società franco indiana Arcelor-Mittal, che non avrebbe manifestato il suo interesse ai Riva, ma al governo italiano, direttamente. Tanto che Confindustria lamenta questo attentato alla proprietà privata. Niente meno. E ricorda esempi di cessioni infelici del comprato siderurgico: la Lucchini  ceduta alla russa Severstal che l’ha condotta sulla strada del fallimento,  le Acciaierie di Terni prima vendute dalla Thyssen-Krupp ai finlandesi di Outokumpu e poi riacquistate ma nel totale silenzio su un possibile piano industriale.

C’è poco da stupirsi invece, che la trattativa veda esposto l’ultimo dei governi che hanno coperto le malefatte dei Riva, i loro crimini contro salute, ambiente e i loro diritti, l’ultimo dei governi che hanno prima svenduto la più importante industria siderurgica del Paese per poi continuare a abbonare debiti e tollerare nefandezze, l’ultimo dei governi disposto a contribuire sulla carta a bonifiche che non si vogliono fare a meno che non siano a nostro carico, l’ultimo dei governi che è restio a confische e sanzioni, che cane non mangia cane, l’ultimo dei governi che ha provveduto a espropriare i lavoratori di diritti, prerogative, potere negoziale, in modo che cedano al più truce dei ricatti: posto o salute.

Secondo la migliore tradizione l’Ilva verrà ridotta a spezzatino, che tanto l’interesse dei padroni è caricare su altri, magari memori di Bhopal ammesso che i padroni abbiano ricordo di qualcosa che non sia il denaro accumulato, i costi della messa in sicurezza, che poi se si chiude delocalizzando a Pittsburgh tanto meglio, così non si ha più a che fare con quei rompiscatole incontentabili dei lavoratori, che se l’Italia diventa un deserto allora sì che se ne trae petrolio, quello della svendita e della cancellazione di un Paese, della sua storia, della sua gente.


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