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Alla fortuna e al vecchio nel bar

Creato il 07 settembre 2012 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

Alla fortuna e al vecchio nel bar

Francisco de Goya: Il bevitore

Tra i marciapiedi della stazione sorseggiavo triste l’ultimo goccio che permette ad una bottiglia di essermi ancora utile. Scolata finiva tra i binari ed in faccia ad un pulcioso randagio. Tiravo su con il naso impietrito da un inverno ghiaccio, tiravo giù il berretto a coprirmi anche gli occhi e speravo in una evasione definitiva della cirrosi per prendere sonno. Quella benedetta scatola di cartone, quel quattro muri provvisorio della mia tangibile romanticheria, ormai mi stava enorme e larga sul perimetro spettrale delle quattr’ossa che mi tiravo dietro. Poi tracannavo un sorso finto per abitudine e mi risaliva assassino il pensiero del treno che sbuffa diretto a casa per ritrovare qualcuno o un qualcosa o un comunque lasciato alle spalle anni prima.

Quando un uomo diventa vecchio diventa l’unico testimone dei propri ricordi e sulle proprie follie costruisce virtù”. Non ricordavo chi l’avesse detto, forse proprio io tanto tempo fa.

Forse meglio, molto meglio, abbandonarsi all’arteriosclerosi, saggia primadonna delle verità, ed abbandonarsi alla mutua e alla pensione che non si riusciva mai a bere in santa pace.

E tutti questi giornali, scuri poggiacapo, cataste, greggi per una testa grossa e grossi pidocchiosi compagni, soli amici di un animale fallito. Ed ancora l’elemosina, che è uno strano accordo tra gli arti e la pietà. Mano chiede, mano prende, mano chiude. Tutto in un secondo rubato alla monotonia dei secondi, alla malinconia degli attimi. Mano chiede, mano chiude. Tic Toc, tic toc…

Passava intanto vicino alla panchina, un uomo della mia stessa età, della mia stessa statura, con la mia stessa barba, sulla testa lo stesso mio scarno viso … quasi mi specchiassi. L’uomo era vestito in maniera elegante e quel dettaglio lo rendeva differente, quasi distante, o forse ero solo io? Dormivo ancora? Mi assalivano adesso questi terribili dubbi.

L’uomo mi si parava di fronte e dopo uno sguardo cecchino annuiva col capo. Poi mi porgeva nelle mani una foto ed una busta, e chiedeva di cercargli quella ragazza e si raccomandava poiché nella busta vi erano 20mila, come acconto. Il vecchio si faceva rassicurare sull’appuntamento per il giorno dopo alla stessa ora, vicino a quella stessa panchina. Nonostante i miei tentativi di dissuaderlo, mi sentivo rispondere che ero io la persona più adatta per quella ricerca.

Mentre cercavo un posto sicuro per quelle banconote, l’omino scomparve. Adesso mi ritrovavo a raggirarmi come un mentecatto per tutta la stazione a domandare di quella ragazza e di quella foto. Alcune mezz’ore dopo ero al bar sfiduciato a scolare una nuova carie del sangue, questa volta potevo permettermi un goccio di quello buono … Poi ricacciavo la foto dalla tasca e una banconota per pagare. Si trattava di una donna dai capelli neri, con degli occhi scuri, con un collo alla Modigliani e bella molto, di una bellezza tenera, dolce, non volgare.

Ed io che non sapevo più che strada pigliare, a chi domandare, dove riproseguire, se vi era da proseguire o mollare tutto lì e magari tornarmene a dormire! A quel punto mi mettevo a fermare tutte le donne che passavano lì davanti ma nessuna le assomigliava, niente neanche in una sfumatura. Poi andavo al parco, andavo nei cinema, in tutti i bar. A fermare le passanti, a fermare alcune passanti, a fermare l’ultima passante. Niente, di un bel cazzo di niente. Poi di nuovo al bar a rimescolare un altro po’ di quello buono. Ecco! Mentre gli occhi si posavano su un calendario con la bellina del momento, mi colpiva una data più delle altre. Il primo novembre. Il giorno principe di tutti i principi defunti. Dei principi diventati fine.

Scattavo all’impiedi come se qualcuno mi avesse infilato uno stiletto nella schiena. Come se un brivido mi avesse stracciato in due parti il petto. Pagavo quello che avevo bevuto, pagavo anche il fioraio ed entravo nel cimitero. Entravo spinto, trascinato, da quel brivido nel petto e da quel pugnale nella schiena, che mi portavano indicandomi il percorso. E mi fermavo ad un tratto tra un ailanto rosso e un altro rosso chiaro dove vi era una lapide bianca senza nome ed un angelo senza ali che sormontava il marmo e dei putti sporchi di verderame come perimetro, ed un’unica fotografia con la donna che andavo cercando. La donna della mia foto. E sotto quella foto delle date poco importanti ed una scritta in rilievo: “Quanto possiamo raccontare a Dio della Fortuna?“. Posavo i fiori sulla tomba con ancora quel brivido dietro e dentro la schiena.

E mentre il cielo minacciava un improvviso temporale, rialzavo il bavero sdrucito del cappotto, mi calavo a forza il berretto sulla testa e rubavo per un’altra volta ancora, alla vita, un altro respiro …


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