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Altro che festa!

Creato il 01 maggio 2014 da Gianna
Altro che festa!Lavorare dovrebbe servire a vivere, non il contrario. Perciò dovrebbe essere considerato alla stregua del denaro: un mezzo da maneggiare col dovuto senso del limite. Il lavoro, dicevano gli antichi Greci che a saggezza battevano alla grande noi moderni, è una pena (un fardello, un peso, un male necessario ma pur sempre un male). Altro che festa!Un tempo lavorare forniva perlomeno una coscienza di classe, faceva sentire degna la fatica del lavoro anche all’ultimo degli onesti sfruttati. Oggi è mortificante fare la questua agli imprenditori per contratti a singhiozzo e paghe da fame. Il lavoro parcellizzato, precarizzato, senza prospettive, appeso ai capricci del mercato è peggio della schiavitù, che almeno durava. Abbiamo scambiato le punizioni corporali con l’angoscia esistenziale. L’occupazione, dicono i sindacalisti, dovrebbe avere garanzie e diritti uguali per tutti. Il contratto, dicono gli imprenditori, non deve avere garanzie e diritti uguali per tutti. Entrambi non dicono che a furia di inseguire modelli di produzione del passato non è possibile né garantire tutti né tanto meno assicurare la giustizia sociale. Bisognerebbe produrre, consumare, lavorare meno e meglio. Non chiedere, pretendere, sgobbare di più e basta.I politici che magnificano il lavoro come valore, in Italia, sono di tre tipi. Ci sono quelli che passano la vita a parlarne ma non lo hanno mai praticato. Ci sono quelli che hanno solo e sempre lavorato diventando mostruosamente ricchi e poi si fanno eleggere per diventare ancora più ricchi. E ci sono quelli che ne fanno una religione ideologica fermando le lancette al Settecento di Smith e all’Ottocento di Marx. Consigliamo di riscoprire l’otium, la bellezza, il sesso, l’arte. E la Grande Politica fatta di ideali, comunità e vita quotidiana, e non di spread, rating, deficit, fiscal compact, bonus, job’s act. Fuck you!Ma il lavoro è nemico del pensiero e “come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio di indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, sognare, al preoccuparsi, all'amare, all'odiare” (Friedrich Nietzsche). Il lavoro abbrutisce: beato chi non lavora, ben messo è chi pratica un mestiere. Lavorare fa pensare in termini economici, di costi/benefici, di perdite/guadagni. Disumanizza, specialmente ora che dipende da tecnologie alienanti e da ritmi parossistici. Il lavoro a dosi massicce ed eretto a senso della vita è una fregatura. Per tutti: poveri e ricchi. Anzi, più per i ricchi, i benestanti, i superlavoratori contenti come citrulli nel passare gli anni a lavorare più di quanto non dormano la notte (Paul Lafargue e Bertrand Russel, teorici dell’ozio, concordano nel fissare la giornata lavorativa ideale a non più di quattro ore). Un tempo esistevano i mestieriin cui il valore della fatica era nobilitato dalla creatività, da quel quid di tocco personale e di autonomia negli orari che rendevano un’attività parte integrante della propria realizzazione, parte della vita. Penso agli artigiani, che oggidì resistono malamente alla pressione dei mercati mondiali. Lungi da noi fare dell’ingenuo primitivismo, ma gli studi sull’età della pietra dimostrano che i supposti “selvaggi” dedicavano all’accaparramento di cibo non più di cinque ore al giorno, vivendo in un ambiente di abbondanza data dalla ricchezza di frutti, animali e beni naturali. Ora, pensiamo un attimo alla parabola storica che ne è seguita: spostando via via il baricentro della società verso la produzione per ricavare un profitto in denaro, si sono moltiplicate ed estese a dismisura ingiustizie, asocialità, alienazione, nevrosi, disagio. Fino ad arrivare agli estremi di oggi, dove l’angoscia diffusa per avere di che campare è direttamente proporzionale al prosperare di imperi finanziari in mano ad una manciata di persone in tutto il globo. I semi-umani bestiali, incivili, animali da soma siamo noi.Alessio Mannino per Il Ribelle.com

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