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Amira, la principessina afgana, e il Grande Puffo

Creato il 28 dicembre 2010 da Cultura Salentina

Amira, la principessina afgana, e il Grande Puffo

C’era una volta, alcune migliaia di anni or sono, una magica terra ambita da tutti i naviganti del massiccio euroasiatico: il Salento, crocevia di popoli, lingue e culture, culla della civiltà post-cavernicolare.

Il Salento, una sorta di Eldorado, meta degli Ittiti, dei Fenici, degli Achei, porta d’Oriente, approdo d’Enea, citata da Virgilio (si tratta senza dubbio di Porto Badisco e non di Castro, ma poco dovrebbe importare, in fondo, se non a qualche facinoroso “ultrà di campanile”) nei seguenti versi: “Dove due rocce spumeggiano d’acqua salata, mentre il porto rimane nascosto” (Eneide III, 552).

Una proiezione freudiana mi porta a commettere l’ennesimo errore da autentico “Asino Arpista” (definizione che ho voluto prendere in eredità dal mio indimenticabile maestro Florio Santini), al punto da sfidare quella inviolabile legge di gravità che inchioda sulla terra tutti gli spiriti mediocri e consente solo alle grandi menti di librarsi in volo:

La rada di Porto Badisco
S’apre un varco tra le rocce il mare,
lungo il canalone,
tra le grotte scavate dal tempo,
dimora dell’uomo,
che i cervi cacciava, con i dardi
di selci affilate.
Oggi, i bagnanti affollano lieti
gli scogli vetusti
di Porto Badisco, quello stesso
che accolse l’Eroe;
quell’eroe che, crudele, la dolce
Didone sedusse.
Virgilio, perché?…
Pria gli Ittiti e gli Elleni e Bisanzio
ne furono avvinti;
indi i Mori, al saccheggio votati,
nel nome d’Allah.
Ma per noi resterai solo e sempre
la nostra Badisco,
dove il dolce profumo d’un tempo
ritorna alla mente,
ogni volta che vengo quaggiù.
È lieve, il ricordo!
Le sue labbra – socchiuse – tremanti:
il suo primo bacio!
Poi, tornare a sedere sul molo:
sentirla presente
e capire che il tempo ch’è andato
non tornerà più.
Testimone di fulgide gesta
d’immemori eroi;
di ricordi importanti di gente
“soltanto” comune.
Qui la luce dell’alba per prima
raggiunge l’Enotria;
ma la notte non mette paura :
sorride, la luna,
e la gente – rapita – l’osserva
cullarsi sul mare.
E la Porta d’Oriente socchiude
pietosa i battenti:
sì, la rada di Porto Badisco
t’invita a sognare!

Molto meglio, in fondo, questo breve e innocente volo pindarico, che non presenta problemi di atterraggio, rispetto alla folle impresa di Icaro, tragicamente emulato anni fa da Patrick De Gayardon alle isole Hawai.

Tornati al salutare calpestio del provvido suolo, riprendiamo il cammino, anzi cominciamo dall’inizio, dato che la storia che vi voglio raccontare parte da lontano lontano.

Dunque, c’era una volta, alcune migliaia di anni or sono, una magica terra ambita da tutti i naviganti del massiccio euroasiatico: il Salento, crocevia di popoli, lingue e culture, culla della civiltà post-cavernicolare.

Quella terra c’è ancora adesso e ancora adesso quella terra, il Salento, è la porta d’Oriente, la meta agognata di genti che vengono da lontano, spinte dalla forza della disperazione, dall’istinto di sopravvivenza.

Sì, lo so, ora dovremmo aprire una larga parentesi per disquisire di criminalità organizzata internazionale, di politiche di cooperazione eccetera, eccetera, eccetera, ma non mi va di farlo, anche perché, in caso contrario, correrei il rischio di rendere del tutto incomprensibile il titolo di questo racconto breve, di questa bellissima storia di vita vissuta che s’intona a meraviglia con l’atmosfera natalizia…

Entriamo subito nella notizia.

Dunque, da circa vent’anni il Salento è diventato, torno a ripeterlo, la porta d’Oriente, la meta agognata di genti che vengono da molto lontano, sospinte dalla forza della disperazione, dall’istinto di sopravvivenza, stipati in condizioni disumane all’interno di veri e propri rottami del mare, alla mercé di scafisti senza scrupoli; in fondo, è cambiato davvero molto poco in vent’anni, solo i porti d’imbarco, i percorsi e le etnie degli immigrati: all’inizio albanesi, poi iracheni e nordafricani, oggi kurdi, afgani e pakistani…

Sì, sì, avete capito bene e lo ripeto, a scanso di equivoci: questi fatti avvengono ancor oggi, ormai da qualche mese a questa parte, quasi tutti i giorni, a partire dalla fine di agosto… Mi chiederete: “Come mai non ne abbiamo sentito parlare?”. Presto detto: la notizia degli sbarchi è stata ormai esclusa da tutte le testate giornalistiche e televisive, direi di fatto oscurata, se non proprio censurata, perché (qualcuno dice, forse anche a livello di Governo) “daremmo un’immagine assai dannosa al turismo e poi, in fondo, di semplici clandestini, si tratta”, quasi a voler significare… “mica di esseri umani!”. Ebbene sì, mio caro Plauto, il tuo feroce “Homo homini lupus” emerge sempre di più.

C’era una volta, alcune migliaia di anni or sono, una magica terra ambita da tutti i naviganti del massiccio euroasiatico: il Salento, crocevia di popoli, lingue e culture, culla della civiltà post-cavernicolare. Quella terra c’è ancora adesso e ancora adesso quella terra, il Salento, è da circa un ventennio la porta d’Oriente, la meta agognata di genti disperate che vengono da lontano, spinte dall’istinto di sopravvivenza.

C’era una volta, vent’anni or sono e fino a qualche anno a questa parte, un nugolo di giornalisti e di troupe televisive, che si insediavano per giorni e giorni nella splendida Otranto per fare una cronaca puntuale di questi massicci e continui eventi migratori, del numero degli sbarcati, delle loro condizioni di salute, della gente buttata in mare, persino in pieno inverno, da scafisti senza scrupoli, ma senza puntare quasi mai l’accento sul lato umano del fenomeno, sul dramma esistenziale dei singoli e delle famiglie; ma almeno, in fondo, qualcosa veniva socializzato… C’era una volta. Or non c’è più.

C’era una volta, vent’anni or sono e c’è ancor oggi (e per fortuna) un piccolo grande medico, piccolo solo di statura, con due baffoni neri su un volto all’apparenza burbero, che ha sin dall’inizio prestato e continua a prestare, in Otranto, la prima preziosissima assistenza medica a tutti gli sbarcati, nei locali di quello stabile che nacque “miracolosamente”, in pochi giorni, come “Centro di prima accoglienza Don Tonino Bello, con il nome, cioè, di uno dei figli migliori del Salento.

Il medico in questione, vero e proprio angelo custode di queste povere genti, già insignito del titolo di Cavaliere della Repubblica per alti meriti civili, risponde al nome di Franco Mancarella, sessantenne (ma non si direbbe, visti i capelli nerissimi) medico ex-condotto del Comune di Cannole, appartenente al mio distretto sanitario.

La storia recente, ultimi giorni di agosto. Ricevo una telefonata sul cellulare:

Uhei Pierluigi, Franco Mancarella. Dimme ‘na cosa: sta’ fatii o sta’ te sponzi a mare?”.

Ehi Franco, sta’ fatiu, sta’ fatiu. Ce te serve?”.

Sentime quai: su’ sbarcatai ‘na cinquantina de poveri cristi, pare afgani. La finanza de mare sta’ li porta allu centru de Otrantu. Tocca me ‘iuti giustamu l’ambulatoriu, ca nun c’è nienti cchiui, mancu ‘na seggia. Ieu sta portu ‘na banca e nu paru de segge de casa mia. ‘Nduci li farmaci e le strafizie ca servune. Te spettu qua ‘na ‘menzuretta allu centru”.

Mo viscju ce te pozzu fare, ca ogne modu quarche strafizia la ‘rranciamu”.

Le ovvie insormontabili difficoltà burocratiche mi impediscono di procedere all’acquisto delle attrezzature e vado, perciò, a rifornirmi dei farmaci e del materiale di primo intervento e a requisire una scrivania e un lettino poco utilizzati; poi scappo dritto a casa mia, dove rispolvero una vetrinetta per farmaci, qualche altra piccola cosuccia utile e me le porto dietro ad Otranto, dove con Franco e un paio di collaboratori riusciamo ad attrezzare un ambulatorio degno di questo nome in pochissimi minuti, appena in tempo per accogliere una cinquantina di poveri cristi… Noto che sono tutti giovani e giovanissimi, compresi alcuni bambini. Li vedo scendere ordinatamente dal pullman con le facce stanche, stralunate, e voltare con cautela lo sguardo a destra e a manca, quasi increduli di essere finalmente sulla terraferma…

Una giovane donna comincia a urlare, in preda alle doglie: il suo bimbo di etnia afgana nascerà in Italia, nel Salento. Franco la visita, le sorride, la tranquillizza. L’ambulanza della Misericordia la trasporta in ospedale: la prima emergenza è stata brillantemente risolta. Ma Franco dov’è andato a finire? Ah, è già all’interno dell’ambulatorio a visitare e a dispensare a tutti deliziosi tarallini, una vera prelibatezza del forno di Cannole (non c’è giornata di sbarchi che Franco Mancarella non si porti dietro, pagati di tasca sua, tarallini, friselline e dolcetti per i più piccini)…

Ma intanto là fuori c’è una bimba di circa 5 anni che piange disperatamente: le ragazze della Croce Rossa e della Misericordia tentano in ogni modo di calmarla, ma ottengono l’effetto opposto, forse anche per colpa di quelle loro divise un po’ troppo sgargianti. Franco lascia momentaneamente l’ambulatorio, chiama accanto a sé due finanzieri di mare e si reca verso la bambina: istintivamente associo la figura del Franco Mancarella in camice bianco a quella del Grande Puffo, con accanto due Puffi in divisa grigio-azzurra carta da zucchero… Attraverso l’interprete, Franco chiede alla madre il nome della piccola:

Amira”.

Vuol dire principessa”, precisa l’interprete.

Franco chiede a uno dei due finanzieri si sfilarsi il basco, quel simpatico basco col ciuffo, e lo avvicina con cautela alla bimba, dicendole, in italiano:

Lo vuoi, questo, principessina?”.

Amira, tende la manina, prende il basco e se lo mette in testa… Il Grande Puffo le tende la mano. La bimba non si sottrae. Insieme entrano nell’ambulatorio. Franco la mette di fronte allo specchio. La principessina si guarda e sorride soddisfatta, dimostrandosi persino vanitosa: tutto il mondo è paese; meglio, tutti i bambini di questo mondo sono uguali, indipendentemente dalla razza, dalla lingua e dalla cultura “dei grandi”.

Poi il Grande Puffo tira fuori una confezione di deliziosi dolcetti da forno, i “Pizzicati alla mandorla”, la apre e ne offre uno ad Amira: la bimba lo divora e pretende (giustamente) l’intera confezione…

Al tramonto, il Grande Puffo rimette in ordine l’ambulatorio, chiude la borsa e, prima di tornarsene a casa, si ferma a guardare Amira partire in pullman verso il centro di accoglienza di Bari. La principessina gli stampa un bacione sulla guancia e vedo l’espressione di Franco cedere per un attimo all’emozione, ma forse è stata solo una mia impressione.

Anche se non è una festa araba, Buon Natale, principessa Amira, dovunque tu sia adesso.

E Buon Natale anche a te, Grande Puffo!


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