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Amori in Viaggio – La Mia Prima (Segretissima) Avventura Cambogiana

Creato il 09 novembre 2014 da Sunday @EliSundayAnne

Amori in Viaggio – La Mia Prima (Segretissima) Avventura Cambogiana

L’incontro è avvenuto in un luogo molto romantico, un punto di ristoro in cui si fermano i pullman che da Sihanoukville tornano a Phnom Penh, composto da: un bagno pubblico; un ristorante dall’aspetto malsano che serve noodles e zuppe varie su tavolini e sgabelli di plastica azzurri e rossi; un paio di baracche che vendono ananas e mango a fette dentro sacchettini di plastica, panini dall’aspetto inquietante e svariati cracker e snack, tra i quali spiccano sacchetti azzurri di patatine al gusto calamaro, dall’originale forma di maccheroni. Una piccola divagazione: questi sacchetti di maccheroni al calamaro vengono venduti per le strade di Phnom Penh, però in formato gigante. Personalmente mi fanno l’effetto dei ragni fritti: molto esotici, ma li lascio assaggiare a qualcun altro.

Phnom Penh_spiders

Scendo dal pullman, e vedo uno che si soffia il naso con le mani, per poi liberarsi del contenuto del suo naso sbattendo la mano verso un’aiuola a lato del parcheggio. Vado in bagno, e l’elegante signora in coda prima di me tira sonoramente su col naso il suo muco, per poi sputare a lato della porta poco prima di entrare nel restroom. Il bagno, come tutti qui in Cambogia, manca della carta igienica: a lato del buco a terra c’è sempre un grosso otre colmo d’acqua, nel quale galleggia un pentolino di plastica col quale si sciacqua il buco a terra, nonché gli eventuali altri buchi del corpo, con l’ausilio delle mani.

Poiché dovevo chiedere all’autista del pullman se mi avrebbe fatta scendere in un certo quartiere di Phnom Penh, mi dirigo verso di lui, per poi bloccarmi quando vedo che si sta pulendo un’orecchia con la sua lunga unghia del mignolo. Non potendo fare a meno di parlargli, vado verso di lui nauseata e con il mio foglietto in mano scritto in khmer, che lui comincia a leggere tenendo il segno con l’unghia del suddetto mignolo. Per fortuna mi dice (in khmer e a gesti) che non passerà da lì, così posso buttare immediatamente il foglio contaminato e mettermi il cuore in pace.

Mentre torno dalla mia amica che sta comprando una bibita, sento un rombo di moto Honda truccata da Harley Davidson, guidata da un casco nero a forma di teschio. Mentre il teschio parcheggia la finta Harley di fianco al simil-ristorante, tutti si girano e si bloccano a guardarlo mentre, con indifferenza, si toglie il teschio.

Scende dalla moto e tutti possiamo finalmente rimirare questo tipetto sulla trentina, alto all’incirca un metro e sessantacinque, i capelli con la cresta (non alta, ma gli dà quei tre centimetri in più – fortuna sua), una cresta ondulata perché il ragazzo ha i capelli mossi, leggermente rasati sui lati con dei motivi fatti con la macchinetta, una manciata di piercing vari alle orecchie, jeans consunti, All Star ai piedi, una canottiera aderente nera a sottolinearne la muscolatura perfetta e una collana con un ciondolo a teschietto, in tema col casco. Incede verso un banchetto e mi sorride, un sorriso bellissimo, e noto le labbra piene, gli occhi leggermente a mandorla, le mandibole pronunciate e la pelle ambrata. Dopo mesi passati in castità, e circondata da cambogiani col sex-appeal di un bradipo, ne rimango fulminata.

Io sono al massimo del mio splendore: pantaloni bianchi di cotone di due taglie in più della mia, una canottiera verde militare che mi arriva alle ginocchia con sopra una maglia rosa più un foulard, anch’esso rosa, per ripararmi dal gelo dell’aria condizionata del pullman, ciabatte ai piedi e capelli inamidati e in uno stato pietoso, dopo tre giorni di mare. Vedo che la mia amica comincia a parlargli, mi avvicino e lo saluto. Quando viene a sapere che sono italiana, mi dice che è appena stato in Italia in visita ad amici (capisco all’istante che è benestante), e cominciamo a parlare. Scopro così che l’insolito cambogiano si chiama Vesna, è un ballerino, insegnante di hip hop e coreografo, che il suo nome in lingua khmer significa “destino” e che è una persona allegra e loquace. Infatti mi mette subito di buonumore.

Quando torno al pullman, pronto per ripartire, ci siamo già scambiati il numero di telefono, e con una velocità impressionante: la mia amica non se n’era neanche accorta. Il ragazzo di rimette il teschio e riparte per Phnom Penh.

Cambogia amore

Dopo qualche telefonata, di lì a due settimane decidiamo di incontrarci.

L’appuntamento è alle ore 20.45 davanti all’FCC (Foreign Correspondents’ Club), un locale con vista sul fiume Tonle Sap. Io quella sera avrei dormito alla Diamond Guesthouse, da me scelta per dormire quella notte. In italiano guest house potremmo tradurla come pensione, anche se in realtà sono luoghi abbastanza deprimenti che i turisti senza soldi come me utilizzano per dormire con poca spesa.

Verso le 18 mi avvio verso la mia stanza, posta all’ultimo piano di un edificio gestito da ragazzi giovani dall’immancabile unghia del mignolo lunga. So che non sto per fare un incontro che fa per me o che mi avrebbe fatta stare meglio, ma decido di viverla come un’avventura da aggiungere alla mia esperienza cambogiana: in fondo, prima o poi aprirò un blog, o magari scriverò un libro tipo “La vita torbida di una reginetta di campagna”. In ogni caso, le scrittrici le storie se le vanno a cercare, altrimenti di cosa scriverebbero?

La stanza è situata in una soffitta bassissima, tanto che, mentre sto per andare in bagno poco prima dell’appuntamento, pensierosa, batto una craniata incredibile contro un tubo sul soffitto: bestia che dolore! Mi sento in un film di Massimo Boldi, mentre, seduta per terra a gambe larghe, mi strofino la testa, stordita dalla botta. Cominciamo bene la serata! Meno male che ho battuto proprio sopra la testa e non sulla fronte: andare all’appuntamento con un bernoccolone viola in mezzo alla fronte non sarebbe stato il massimo, anche se qualunque cosa sarebbe stata meglio dell’aspetto che avevo la prima volta che l’ho incontrato.

Mi seggo su uno dei due letti: “Ma cosa ci sto facendo qui?”. L’attesa è snervante, sola in una camera claustrofobica, la testa appoggiata su un cuscino che sa di chiuso e di muffa (come tutti i cuscini cambogiani), che neanche l’espediente di metterci sopra un asciugamano riesce a dissolvere. Provo a iniziare a leggere un libro che ho appena comprato in un negozio dell’usato (Eat, Pray, Love – Mangia, Prega, Ama), ma sono troppo distratta. Da fuori arriva il frastuono dei bar, delle macchine e della gente che passeggia, e all’improvviso mi accorgo che non mi sono mai sentita così sola. La cosa buona della serata è stata che in quel momento ho partorito un’ennesima idea per un libro da scrivere (e sono cinque), per cui mi ritengo già soddisfatta.

Mi vesto, controllo allo specchio che non mi sia formato un bernoccolo in mezzo alla testa, mi trucco (dopo mesi che non mi truccavo), mi pettino (dopo mesi che quasi non mi pettinavo), e giù per le scale. Cammino sola per la Street 172, buia, tra gli sguardi e i richiami dei conduttori di mototaxi. Svolto a sinistra nella via che porta sul lungofiume e, in prossimità dell’FCC, sento squillare il cellulare: è Vesna, puntuale all’appuntamento come un orologio svizzero. Siccome anch’io sono puntuale ma non lo vedo, mi viene il dubbio che temesse non riuscissi a vederlo, data la statura. E invece eccolo lì, raggiante, con una maglietta verde militare, jeans, All Star, piercing diversi da quelli che indossava al nostro primo incontro, niente teschio e un accenno di pizzetto – i cambogiani non hanno quasi barba, lui è un’eccezione (ovviamente il suo non è un pizzetto pieno, direi più un’accozzaglia di peli neri), come tutto ciò che lo riguarda.

Siccome in Cambogia non ci si dà mai la mano né tantomeno ci si bacia, sono pronta a salutarlo con salutare distacco, quando lo vedo porgermi la mano e tirarmi verso di lui per darmi due baci sulla guancia. Ci sediamo sulla terrazza di un locale di fianco all’FCC, su due sgabelli che guardano il fiume. Ordiniamo io un tè freddo al limone, lui un cocktail al passion fruit. Poi cominciamo a parlare, discorrendo di vari argomenti, ma soprattutto sulla società cambogiana. Mi sento molto strana a parlare con lui: è la prima volta che incontro un cambogiano che parla fluentemente l’inglese, che abita da solo e che profuma di pulito, e di un profumo occidentale.

A dire la verità, è la prima volta che ho la possibilità di osservare un ragazzo khmer così da vicino: mentre parla, mi concentro sulla barba rada, sugli occhi allungati, sul colore della pelle, sui capelli (e, visto che ci sono, butto un occhio pure sul mignolo, per scoprire con gioia che non ha l’unghia lunga mezzo metro). Alla faccia della nota timidezza dei ragazzi cambogiani, che spesso non osano manco guardarti negli occhi, noto che il nostro, parlando, mi si avvicina sempre di più, finché non sento la sua mano sulla mia. Oddio, e ora che faccio? Vesna è un khmer atipico, e lo capisco quando, ridendo con lui sul fatto che mi ricordasse un mix tra Tarzan e Tyson, mi ritrovo le sue labbra a un millimetro dalle mie, che mi sussurrano “You could be my Jane”. E sul Jane vengo letteralmente risucchiata dalle sue labbra, morbide come non mai ma assolutamente vigorose, come tutto il suo essere.

Il pensiero che fossimo su una terrazza visti da tutti, in una società in cui anche solo un abbraccio è imbarazzante, non riesce ad arrestare questo vortice di baci appassionati. Solo per un momento un brivido percorre la mia mente, immaginando la foto di me e Vesna sul Cambodia Daily della domenica mattina, dal titolo eloquente: “Volontaria italiana dà scandalo sul Mekong”.

Dopo un’ora siamo già sulla sua moto, non la finta Harley bensì una moto da Enduro, lui con un casco normale e io senza (è la norma, qui), a percorrere il ponte giapponese che attraversa il Tonle Sap, per correre dall’altra parte del fiume. In men che non si dica mi ritrovo in una camera (carina) di un albergo (squallido), sotto gli occhi dei ragazzi alla reception dall’aria annoiata, che porgono al mio accompagnatore una manciata di preservativi. Una manciata? Oh Signore!

Mentre saliamo le scale circondate da mattoni a vista, comincio a sentirmi molto imbarazzata (“ma cosa cavolo ci sto facendo qui?” – parte 2), perché alla fine questo ragazzo lo conosco a malapena, io non sono mai stata una tipa da avventure! Povera me, e adesso come scappo da questa situazione?

Fisicamente è uno schianto: la pelle ambrata e liscia, una bella muscolatura, uno scorpione nero (il suo segno zodiacale) tatuato sulla pancia, un piercing all’ombelico, due tatuaggi colorati a incorniciarne i capezzoli. Il fatto è che, dopo tutto quel tè, ho una voglia tremenda di fare la pipì, che tengo da due ore, ma chi osa dirglielo proprio ora? E fu così che ci unimmo in un atto d’amore, con la vescica piena.

Ovviamente non provo nulla, mentre quell’incrocio tra Tyson e Bruce Lee continua a ripetere “Yes baby, I like you baby, let me taste the Italian food baby”. E sull’Italian food gli scoppio a ridere in faccia. E poi corro in bagno, prima che mi scoppiasse qualcos’altro. Per poi farmi riportare alla mia (umida) guest-house.

Il vento caldo delle notti di Phnom Penh mi accarezza la faccia, gli occhi, i capelli. Sento ancora il suo profumo addosso, un profumo finto che non sentirò mai più. Io non sono fatta per queste cose: io ho bisogno d’amore.

L’indomani mattina mi alzo e decido di farmi un regalo: con quell’avventura – seppur squallida – con l’uomo dal casco di teschio, avevo suggellato la fine, dentro di me, di una relazione lunghissima con un ragazzo, finita mesi prima, a distanza e in malo modo. Mi sono regalata un bellissimo anello d’argento.

Da quel giorno sono tornata libera.

(Il racconto è stato riportato così come lo avevo scritto allora, in un’email mandata alle amiche)


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