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Amour, se ti uccide ti salva la vita

Creato il 14 settembre 2014 da Nicola933
di Mirko Ranieri Amour, se ti uccide ti salva la vita - 14 settembre 2014

Regia: Michael Haneke
Cast: Jean – Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert, William Shimell, Laurent Capelluto
Genere: drammatico
125 minuti
2012

Di Mirko Ranieri. Quando ci viene da pensare all’ amore, spesso ritorniamo con la mente a quando eravamo bambini ed i nostri genitori, seduti ai piedi del letto, dopo un’ estenuante giornata in ufficio, ci leggevano una favola. E quasi riusciamo a percepirlo, questo sentimento eroico e prepotente, che avvince amanti giovani e sottili e li costringe a superare le tempeste, a piegare il mondo, pur di raggiungersi. Le favole ci hanno abituato a fare questo: immaginare come nasce un amore. Ma le conseguenze di questo amore, ahimè, non ce le hanno mai raccontate. Dopo tante traversie, la principessa ed il cavaliere possono stare finalmente insieme e si danno quel bacio sperato che chiude la storia. Gli amanti vissero insieme felici e contenti, ecco tutto. Eppure l’ amore continua dopo quel bacio, unisce gli innamorati in tutte le fasi della loro esistenza, anche quando non sono più forti e vivono placidi nel ricordo dei tempi migliori. Giorno dopo giorno cambia aspetto, si adatta alle circostanze, si lascia educare dall’ esperienza, ma sempre continua ad unire gli amanti, come un leggero valzer di sottofondo. Ed anche alla fine del cammino, l’amore può aiutare gli uomini ad affrontare prove ben più dure di quelle che le fiabe sono solite raccontarci, scelte che annichiliscono la ragione. Proprio in quel luogo, alla fine della favola, oltre l’ eroismo della giovinezza, sta la storia di Haneke.

Georges ed Anne sono due vecchi insegnanti di pianoforte. Passano le giornate immersi nel tepore vissuto del loro appartamento, sereni e metodici in una complicità che dura ormai da molti anni. Si può certamente dire che si amino, di quell’ amore maturo che ha superato i momenti più grigi del matrimonio, e che ora li unisce nella quiete della senilità. Dentro di loro c’ è la cons

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apevolezza di chi ha accettato l’ altro nel suo intero, amandone i pregi, sostenendone i difetti, fino a renderli propri. Sorride Anne e poi dice al marito: “Qualche volta sei un mostro, ma in fondo sei un uomo gentile”. E vanno avanti così, tra un libro da leggere ed una serata in teatro. Ma proprio durante una di quelle lente giornate, che sembrano trascinarsi via sempre uguali, mentre sono seduti a far colazione, Anne si estrania dal mondo per qualche minuto e resta a fissare il vuoto. E Georges sente salire distinto alla gola il nodo che nasce dalla paura dell’ abbandono. Dopo un intervento non riuscito, la paralisi costringe Anne su una sedie a rotelle, ormai priva di sensibilità al lato destro del corpo. Tornata a casa, si lascia però promettere dal marito che mai più la riconsegnerà nelle mani dei dottori. E l’ ombroso, a volte cinico e freddo Georges risponde a quest’ ultima prova d’amore: avrà cura di sua moglie e la accompagnerà, per mano, verso la morte. Inizia in questo modo una nuova normalità per i due anziani, che combattono insieme e tentano di ristabilire quella serena routine che la malattia ha sconvolto. Georges sta sempre accanto ad Anne e cerca in ogni modo di non farle pesare il cambiamento che è stata costretta a portare nelle loro vite. Non si dà tregua e diventa la parte di lei che più non funziona. Alle volte Anne lo riprende, lo invita a pensare un po’ a sé, a non stare in pena per il modo in cui legge i suoi libri. E nonostante il volto di Georges sia disteso immobile, lo sprofondano il dolore e la pietà per quell’ angelo ferito che prima suonava Schubert. Ma Anne lo ha amato a lungo, ha imparato a vedere al di là del suo viso. Percepisce l’ ingiustizia di tutta quella storia,
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la tortura che infligge al vecchio marito e nel contempo comincia a pensare che la sua vita non abbia più significato. Anne non vuole più vivere in questo modo, inerme e martoriata, ricordando un passato splendido negli album delle foto, sentendo come una colpa l’imbarazzo che gli altri provano vedendola in quello stato. Ha pensieri cupi e spesso fissa il vuoto. Sente la dignità della vita scorrerle in mezzo alle gambe, insieme a quello che ormai non riesce più a trattenere. Guarda il pianoforte e sa di non poter più parlare. La vita punisce Anne senza una precisa ragione, perché è così che può succedere alla sua età: la umilia e le lascia osservare la sua lenta agonia. Giorno dopo giorno peggiora: non cammina, non parla, non si guarda più allo specchio.

Ed è come se Georges, dietro quella faccia scultorea, provasse lo stesso dolore. Si finge contento, se i vicini di casa gli esprimono profonda ammirazione; esplode di rabbia, se qualcuno gli profila soluzioni ideali, incuranti della sua sacra promessa. Continua barcollante sulla sua strada e per i giorni che restano non smette di prendersi cura di Anne. E lei è una bambina, spesso non lo riconosce, va sempre più lontano. “Anne, se non bevi presto morirai … è questo che vuoi?”, dice Georges mentre cerca di tenere in vita quel corpo così sconosciuto. Ed Anne lo guarda con occhi brillanti che implorano. Quando sputa fuori l’ acqua lui la colpisce arrabbiato, ma poi mortificato capisce. Non è amore tutto quello che fa, o almeno non lo è più. Ricordando le sue ultime parole consapevoli, inizia a sottrarre Anne alla vista del mondo: “Niente di tutto questo merita di essere messo in mostra”. Il buio e ombroso Georges deve mantenere la sua promessa. Così una sera, mentre si rade, sente sua moglie lamentarsi nella stanza accanto e si precipita da lei, tenendole la mano. Comincia a raccontarle cose mai dette prima, di quando era bambino, delle brutte esperienze che l’ hanno reso così com’ è, di sua madre. Anne si addormenta, Georges esita, poi le preme il cuscino sul viso, appoggiandovi il suo contro, come se piangesse. La vita ha preteso da Georges che amasse sua moglie fino al punto di darle la morte. Con la cura di sempre, le sceglie dei fiori, che sparge sul letto, accanto al suo corpo composto. La lascia riposare per sempre nella loro camera, con la porta bloccata e le finestre aperte. Regala all’ amata un addio silenzioso, senza lacrime né cerimonie. Solo la pace ed il suono del vento per quella moglie che ha amato più di quanto abbia mai saputo dire. Una sera la rivede in cucina e l’ aiuta ad indossare il cappotto. Spegne le luci e se ne va col ricordo di lei, come quando prendevano l’autobus, insieme, per andare in teatro.

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La pellicola di Haneke, vincitrice della Palma d’Oro nella 65esima edizione del Festival di Cannes e premiata come miglior film straniero alla cerimonia degli oscar del 2013, ci pone al cospetto di una riflessione assai profonda sul valore dell’ esistenza e sul senso della morte. Quello dell’ eutanasia è un argomento che mette angoscia, un’ eventualità che soffoca le coscienze, una domanda a cui la superstizione suggerisce di non rispondere, fin quando si vive la vita di tutti i giorni. E la semplice risposta sarebbe di per sé quasi irrilevante. Eutanasia non è la mano che stacca la spina, ma il percorso di maturazione interiore che a quel gesto costringe. Ed è proprio nella descrizione di questo dissidio che Haneke pone l’ accento, descrivendolo in maniera a dir poco analitica, con quel realismo negativo, crudo e spesso spietato, che fa di lui un grande regista. Quella dell’ uomo che uccide per amore è una circostanza reale e come tale Haneke decide di rappresentarla.

Nessuna colonna sonora accompagna la lenta successione delle scene, mentre il silenzio avvolge l’ intera   pellicola. La narrazione non risparmia allo spettatore scene brutali, ruvide, umilianti, ansiogene, momenti che contaminano a lungo termine la memoria. Le inquadrature sono quasi sempre fisse e ritraggono impietose ogni particolare della sofferenza, come se costringessero lo spettatore a non distogliere lo sguardo. Spesso si soffermano su volti sciupati e persi nel vuoto. La costruzione stessa delle scene violenta lo spettatore,  catapultandolo dalla stasi malinconica e rassegnata dei dialoghi al dinamismo lento e faticoso dell’ azione. Il regista non si affida ad una rappresentazione patetica ed esplicita del dolore, ma tiene gran parte delle reazioni nascoste, come un logorio nell’ animo dei personaggi, così da renderle appena intuibili (ed in questo, due grandi rappresentanti della nouvelle vogue come Jean – Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva sono maestri indiscussi). Come accade in altre pellicole, anche Amour è pervasa infatti dall’ eloquenza degli sguardi, da una comunicazione subliminale che annulla la complessità del copione e diventa pura empatia tra lo spettatore ed il personaggio. Ogni sensazione trova un suo spazio: compassione, rabbia, dolcezza, rassegnazione, impazienza … Ci sono le scelte sbagliate, i dubbi e le esitazioni. Ci sono gli stenti della vecchiaia come pure i piccoli momenti di gioia scavati nel dolore. Tutto questo contro una rappresentazione stucchevole ed eroica dell’amore che tenda a monopolizzare il racconto.

L’ amore secondo Haneke sembra invece un insistente sottofondo: è la ragione che non viene espressa, la verità che orienta i gesti di Georges, il titolo del film, un riferimento silenzioso ed onnipresente che interviene laddove la ragione vacilla. L’amore è una distorsione delle cose che solo gli amanti comprendono: riesce a mettere da parte gli ostacoli della morale e alla fine si rivela attraverso la morte.

★★★★


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