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Anatomia di un romanzo. Quando nessuno sono tutti

Creato il 19 giugno 2012 da Patriziabi (aspassotrailibri) @openars_libri

Quando nessuno sono tutti (dello scrittore Gianpietro Scalia)

Il linguaggio alcune volte si presta moltissimo a curiose interpretazioni che tutto vorrebbero dire, suscitando in chi ascolta una involontaria ilarità. Famose sono alcune situazioni di una certa cinematografia di basso livello in cui si ascoltano delle voci fuori campo che lasciano intendere un rapporto sessuale, e poi magari si inquadrano i personaggi impegnati a stappare una bottiglia di vino.
Alcune frasi, inoltre, sono talmente particolari da essere diventate una barzelletta e circolano liberamente in internet. Io stesso ne ho riprese un certo numero che mi hanno particolarmente colpito e suscitato ilarità.
Ricordo per esempio a memoria la seguente, molto famosa, che le fonti dicono provenire dalla bacheca di un ospizio per una cena di beneficenza: “Questa sera pasta e fagioli. Seguirà concerto”.
Oppure quest’altra, che sembrerebbe provenire dalla locandina di una parrocchia: “Tema della catechesi di oggi: Gesù cammina sulle acque. Catechesi di domani: In cerca di Gesù“.
Nella loro involontaria costruzione logica hanno sicuramente qualcosa di geniale che prescinde dal significato che si vorrebbe trasmettere.
Non credo si possano considerare degli errori, quanto piuttosto delle distrazioni determinate dalla concentrazione che ha colui che le scrive nel momento durante il quale le formula, quando il concetto che vorrebbe esprimere è la sola ipotesi di intendimento che riesce a immaginare.
Letteralmente parlando si tratta di pessime costruzioni linguistiche, soprattutto quelle volte che si ritrovano in una narrazione a sfondo drammatico e richiamano alla mente una situazione grottesca.
Eppure, ripeto, non si tratta di errori quanto di una certa malafede che si genera in chi legge; o se non proprio malafede una sorta di malizia che di frequente si accompagna all’esperienza di lettura. Chi legge molto, infatti, sempre più frequentemente coglie simili sfumature e io ritengo che l’esperienza sgradevole che incontrano molti lettori nella lettura di certi romanzi altrimenti definiti degli ottimi romanzi, origini proprio da questa inconsapevole percezione.
Ricordo a riguardo un romanzo molto recente che è stato osannato dal pubblico di lettori e che era pieno di situazioni simili fino all’inverosimile. Mi piacerebbe riportare a riguardo uno dei passaggi più drammatici, ma si capirebbe a quel punto a quale romanzo mi riferisco, e non vorrei trasformare queste mie elucubrazioni in un volgare pettegolezzo (a questo ci pensa già abbondantemente un certo tipo di critica letteraria che purtroppo, insieme a un certo tipo di letteratura, sta facendo il possibile per maltrattarci).
Preferisco, quindi, concentrarmi su uno di questi curiosi aspetti che al contrario di quelli citati precedentemente è da considerarsi un errore molto diffuso, sia nel linguaggio parlato che in quello scritto, e che è entrato così prepotentemente nel nostro modo di intendere da non essere più recepito come un errore: anzi, è entrato così prepotentemente nel nostro modo di intendere che quando lo si incontra nella lettura ha il potere di evocarci una immagine diversa da quello che sarebbe il suo reale significato.
Mi riferisco alla doppia negazione.
Posso affermare con certezza di non aver letto un solo romanzo negli ultimi anni in cui questo tipo di errore non si sia ripetuto costantemente. Probabilmente, ma vado a spanne perché non ho tenuto una statistica, tra tutti il più frequente è “non c’è nessuno“.
Ora, che il termine “non c’è nessuno” venga adoperato nel linguaggio parlato o nel linguaggio cinematografico passi pure, perché in questi casi c’è l’ausilio del senso visivo e si può compensare il fraintendimento dialettico con la visione dell’ambiente circostante. Ma nella narrativa, dove il solo senso a essere stimolato è quello della nostra immaginazione, la quale costruisce l’ambiente circostante all’interno di un universo fantastico (in fondo è questa buona parte della magia letteraria), quando io leggo “non c’è nessuno” immagino che qualcuno debba esserci per forza, perché la doppia negazione annulla la negazione. Eppure, il costante e ripetitivo uso erroneo di questa espressione ha finito per convincere anche il nostro sub inconscio evocativo a immaginare, dinnanzi all’espressione “non c’è nessuno“, che l’ambiente circostante sia realmente vuoto.
Per me, e per molti altri che ritengo abbiano la mia stessa logica evocativa, una situazione simile è disorientante, così come mi disorienta leggere “non ho niente” e poi scoprire che effettivamente nulla ho.
Il termine “nessuno” potrebbe (dovrebbe) essere sostituito dal termine “alcuno”, ormai considerato da molti desueto. “Non c’è alcuno” infatti rende perfettamente il senso di vuoto dell’ambiente circostante, oltre ad arricchire il linguaggio.
Comunque, come accennavo in precedenza, è il nostro inconscio ad avere acquisito l’idea che “non ho niente“, per esempio, voglia dire che in realtà nulla ho. Infatti, basterebbe cambiare la disposizione delle parole nella frase affinché la nostra percezione cambi radicalmente: “non niente ho“, e la nostra mente immagina immediatamente che ho certamente qualcosa.
E quindi, per concludere con un po’ di sarcasmo, mi sento di poter dire che un’espressione errata in questo modo potrebbe addirittura trasformare, nella descrizione di noi stessi, il carattere del nostro ego. In che modo?
Io dico: “Non sono nessuno“.
Chi ascolta pensa: “Poveretto! Avrà un complesso di inferiorità e si sente avulso da questa vita”, senza immaginare che invece ho un delirio di onnipotenza, perché in realtà dicendo “non sono nessuno” intendo dire che “sono tutti“.

Solo un’appendice prima di concludere: “più peggio” si può dire?
Ho sempre creduto di no, eppure sempre più spesso mi capita di ascoltare l’espressione “se proprio dovessi scegliere, allora sceglierei il meno peggio“.
In nessuna occasione mi è capitato di ascoltare qualcuno che abbia provato a correggere questa affermazione, dando quindi per scontato che se si potesse dire “meno peggio” allora si dovrebbe poter dire anche “più peggio“. Credo che anche qui il motivo sia da riportare al fatto che una espressione erronea sia entrata prepotentemente nella logica perversa del nostro linguaggio scritto e parlato, ma ritengo sia “più meglio” abbandonare certi modi di dire, per non offendere ulteriormente la nostra bella lingua italiana.

Un’ultima cosa.
Ho letto, nei commenti a queste riflessioni, delle considerazioni molte belle e molto colte. Ringrazio di cuore.


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