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Ancora su italia-serbia

Creato il 19 ottobre 2010 da Pasudest
Tra i tanti pezzi usciti in questi giorni sui fatti accaduti a Genova in occasione di Italia-Serbia segnalo il pezzo di Adriano Sofri pubblicato su Repubblica il 14 ottobre. E' sempre difficile sintetizzare la prosa ricca e argomentata: mi limito a riportare qualche passaggio rimandandovi alla lettura integrale dell'articolo.
Il bruto ributtante che "nascondeva la faccia e ostentava i tatuaggi" a cavalcioni della barriera di protezione del campo di Marassi, "stava anche tenendo una lezione sulle guerre nella ex Jugoslavia più efficace di cento libri", scrive Sofri e spiega: "Chi conoscesse appena un po' la storia si diceva che l'occasione fa l'eroe del popolo serbo, che neanche vent'anni fa un farabutto grottesco come quello, iniziato dalla criminalità comune, era stato promosso dagli spalti belgradesi della Stella Rossa al comando di una milizia di migliaia di tifosi tramutati di colpo in sicari, e aveva guidato stupri saccheggi e stragi e torture, a migliaia. Si chiamava Arkan quello [...] si chiama Ivan questo: il tempo deciderà di lui, se farne il campione buffonesco di un manipolo di squadristi della curva, o un nuovo 'eroe del popolo serbo'".
Secondo Adriano Sofri era questo precedente e fare la differenza tra la serata di Marassi e tante altre serate simili a cui il tifo calcistico ci ha dato l'occasione di assistere, "fra la tifoseria serbista e quelle nostre". "Una differenza abissale o piccola - scrive Sofri - a seconda che si impieghi o no un piccolo avverbio di tempo. Che si dica che la tifoseria belgradese si tramutò in una sanguinaria masnada genocida, e le nostre no. O si dica che le nostre non ancora".
In aggiunta e come premessa a ciò che scrive Sofri vi segnalo l'interessante articolo di Moris Gasparri apparso sul sito di Limes, in cui si spiega che se da una parte gli incidenti di Genova riaprono il dibattito sul legame fra calcio e violenza, sicuramente presente in Italia, in Serbia invece lo sport è uno strumento nella lotta per il potere.
Gasparri ricorda come "ci sono contesti in cui la violenza sportiva non può essere ricondotta solo ad un problema di ordine pubblico, ma sembra avere radici più profonde" e come questa "ulteriorità" vada compresa e spiegata, a partire da una distinzione di base. "Il calcio nelle democrazie mature non occupa lo stesso ruolo ricoperto nelle democrazie assenti o in quelle fragili, come quella serba". Se da una parte "grandi sociologi come Norbert Elias hanno mostrato come la nascita dello sport moderno abbia agito, nella sua dimensione agonistica, da meccanismo di sublimazione della violenza, in stretto parallelo con il processo di monopolizzazione statale della violenza, fondamento dei sistemi democratici", e l’Italia da questo punto di vista è un grande laboratorio, dall'altra parte "gli scontri e le violenze provocate dagli ultrà serbi ci conducono invece con prepotenza dentro ad un altro contesto, diametralmente opposto: nelle situazioni fortemente caotiche ed instabili e con istituzioni democratiche assenti o fragili, come nel caso della Serbia, il calcio diventa strumento in mano alle fazioni in lotta per il potere". Ne consegue che il tifo organizzato, da sublimazione rituale della violenza diventa "lo strumento della politica stessa, anche nelle sue forme più conflittuali". Ed è proprio quanto sta accadendo in Serbia, con gli ultras "al servizio delle strategie dei personaggi che si oppongono duramente all’ingresso di Belgrado nell’Unione Europea". Per cui, per quanto riguarda il futuro della Serbia, "se il calcio è davvero lo specchio della politica, sciogliere il nodo tra calcio e violenza significherà capire se avremo davvero nel prossimo futuro una Serbia nell’Unione Europea, o una Serbia sull’orlo di una perenne e caotica transizione".
  

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