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Antonio Esposito, napoletano

Creato il 09 agosto 2013 da Malvino
La bassezza morale e intellettuale dei servi di Berlusconi ci offre orrori sempre nuovi. Li abbiamo visti darsi a crisi isteriche ogni volta che veniva resa pubblica una telefonata del loro padrone a questa o a quella mignotta, a questo o a quel magnaccia: si trattava di intercettazioni ordinate dalla magistratura e rese pubbliche dopo essere state messe agli atti, ma il vulnusalla privacy li faceva andare in convulsioni. Fanculo alla privacy, ora. Ora, hanno la registrazione della telefonata intercorsa tra un cronista de Il Mattino e il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha condannato in via definitiva il loro padrone, ed è gara a chi sa spremerne di più.
Registrazione effettuata dal primo ad insaputa del secondo, e della quale è stata resa pubblica solo una parte, quella che avrebbe dovuto dimostrare la fedeltà al testo pubblicato dal giornale dei fratelli Caltagirone, e che invece ha dimostrato quasi da subito che si era in presenza di una palese manipolazione. Un trappolone nel quale il giudice è caduto assai ingenuamente, niente di più, niente di meno. Ed essendoci davvero poco, praticamente niente, per inficiare la sentenza del 1° agosto, eccoli affannarsi, i servi, sul dialetto di Antonio Esposito, come sul colore dei calzini di Raimondo Mesiano: il giudice e il giornalista si conoscono da oltre trent’anni, sono entrambi di Napoli, ma il fatto la telefonata sia in napoletano è occasione di un vero e proprio processo pubblico.«Non badiamo ai contenuti, teniamoci alla forma», scrive Annalisa Chirico in una lettera a Il Foglio, con ciò palesando che la telefonata può al massimo tornare utile per una character assassination. «La forma è francamente imbarazzante», scrive la Chirico. Scrive che «quella cadenza va ben olre l’elegante e sanguigna inflessione del fior fiore dell’intellighenzia campana» e che «in quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico». Chissà come può esserne così sicura, visto il Filangieri e il Vico non ci hanno lasciato neanche un file audio. Ma è che stigmatizzare l’uso del dialetto senza salvare il dialetto in sé le avrebbe fatto correre il rischio di sembrare un tantinello razzista, e non sia mai, meglio arrampicarsi sul ridicolo: la signorina ha prova che il Filangieri e il Vico avevano tuttaltro accento, informatene lAccademia di Glottologia.Il dialetto di Antonio Esposito, al parere della improvvisata linguista (sia detto senza doppio senso), somiglia piuttosto a quello di Felice Caccamo, la celebre maschera napoletana interpretata da Teo Teocoli. È chiaro che a condannare in via definitiva il datore di lavoro della Chirico, che per inciso lavora per Panorama ed è stata la starlette dell’happening fogliante «Siamo tutti puttane», non è stato un giudice, ma una macchietta.Sedicente liberale, la Chirico, ma Gaetano Salvemini ci ha avvisati: «A chiamarvi liberale correte il rischio di vedervi confuso con certa gente con cui non vorreste avere nulla da fare neanche se il loro aiuto dovesse scamparvi dalla morte» (Italia scombinata, Einaudi 1959). 

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