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Antonio Leonardo Verri, Pensionante de’ Saraceni: parole di carta

Creato il 05 ottobre 2010 da Cultura Salentina
Antonio Leonardo Verri, Pensionante de’ Saraceni: parole di carta

Antonio Leonardo Verri

Oggi Antonio Leonardo Verri avrebbe compiuto sessant’anni, se – come scrive Maurizio Nocera nel suo “Antonio, Antonio, o dell’amicizia”, Il Laboratorio, Lecce, 2003 — un poemetto, un lamento alla Garcia Lorca — non gli avessero spezzato le ali

“all’incrocio del bivio dell’amore, /sul quinto ulivo della strada/
attraversata dalla civetta vecchia malridotta/ e cornuta pure”

Era il 9 maggio 1993 e quella morte, per un incidente stradale, pose fine ad un movimento letterario salentino importante, ad un Gruppo d’avanguardia che aveva creato lo stesso poeta di Caprarica di Lecce circa vent’anni prima, con “Caffè Greco” e “Pensionante de’ Saraceni” (fogli volanti di poesia che si vendevano ai passanti, ai semafori, a cento lire o anche a meno), partendo dal suo piccolo paese, un microcosmo, una sorta di Macondo salentina, centro dell’universo.

Ma “forse la morte non porta via tutto”, aveva scritto lui in occasione della prematura scomparsa di un altro poeta salentino, il magliese Salvatore Toma, che lui stesso aveva scoperto, (se ne andava in giro, col lanternino, a cercare i suoi simili, i “selvaggi” come Edoardo De Candia, Claudia Ruggeri, Anna Maria Massari, gente lunare, inadatta a vivere su questa terra). Ma chi era Verri, questo fabbricante di armonie, questo cercatore di parole che non sapeva parlare (balbettava) senza una “lingua di carta”, ma sapeva usare l’arte suprema della parola che illumina senza farsi troppo capire?

Era, appunto, un mago di parole, “parole che dicano, che facciano fede ai diversi e a volte strani momenti della mia vita, che molti dicono povera”, parole che riusciva a infilare nei ripostigli più segreti, un prestigiatore che le srotolava nei tappeti più colorati, le faceva cantare con voce di violino o contrabbasso ; “perverso amante del neologismo sfinterico, — scrive Astremo — per la necessità vitale di costruire un mondo possibile alternativo, fatto di grafemi, fonemi, lessemi dotati di una loro autonomia”, Verri era uno che con le parole scriveva il mondo, le cose, i desideri, le attese, le speranze, la vita, ma anche la morte, quel viaggio verso l’oro e il buio che sapeva essere prossimo . E allora cominciò a sotterrare i suoi sogni. (“Ho solo vuoti, solo amarezze, sbandamenti, il candore di sempre, che non riesce a vivere in modo regolare con le Pasque e i Natali al posto giusto”).

Antonio Leonardo Verri, Pensionante de’ Saraceni: parole di carta

Antonio Leonardo Verri

Le parole, (la sua lingua di carta), forse avevano perduto la fluidità, l’allegria, la magia, il loro potere divinatorio, palme congiunte “Quelle storie di carovane piene di tagli di luna adriatica e di confusione di luce e di blu che tutti chiamavano mare erano un groviglio di respiri, sensazione di ambra e corallo, l’abbraccio forte del padre, il bacio sulla bocca, il gesto veloce della mano piena di dubbi, lame scure e aperte, il sentimento di sconfitta, il senso di pesantezza, l’inciampo”. Le parole ormai non lo consolavano più delle sue fatiche immani, delle perdite, rinunce, sfinimenti, bruciature, ferite .

Aveva il vecchio cuore “tagliato a spicchi, non ancora del tutto sbrecciato, inesploso, il solito vicariante corpo squassato dai vecchi soliti colpi di tosse, il solito inverno (col solito lardo, con le solite cotiche, col solito vino), il solito mattino che cola dall’argento dei cavoli e l’urgenza di ogni cosa …E il correre stolto, e il correre continuo, con ali bianche, quasi senza corpo, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato Eldorado”. Quando il suo grande corpo da antico messapo, la sua barba intinta nell’inchiostro saraceno, quella perfetta scultura di contadino che sa di terra non riusciva più a trovarle, senz’acqua rocce cardi spine sudore fatica sangue, quella figura di orco tenero e barocco che accarezza i bambini, grumi di carne e sangue tremanti e singhiozzanti, nelle sue manone impacciate, si è ormai ridotto a cadenza di memorie accartocciate, e lo spirito gli sollecita la fine eterna, eccolo vedere con estrema lucidità l’inizio e la fine, eccolo pensare, magari per un attimo, che avrebbe potuto essere l’essere dell’essere solo che “amore lo avesse colpito bene alle viscere, al momento giusto”.

In fondo, — aveva ragione il vecchio Totò Franz Toma — è bastato un fanciullo tenero e furente, pieno di irrisioni, deliri, sogni e incantamenti, come Rimbaud, a sconvolgere tutta la letteratura occidentale. E’ stato lui per primo a cercar scampo dall’ipocrisia e dalla menzogna, a rigettare la logica che presiede tutto il nostro sistema di pensiero e di forma, a ritrovare nel primordiale, nel selvaggio l’impatto bruciante e puro con il vero. E’ stato lui a risvegliare la parola dalla sua tradizionale funzione evocativa e simbolica, per ravvivarla e immedesimarla con la cosa presente. Tutte cose che il poeta di Maglie sapeva per istinto e a suo modo aveva imitato il grande “Rembò” (entrambi erano morti giovani, per eccesso), e che lui, invece, il vecchio “Ar”, ormai quarantaquattrenne, aveva tentato di mettere in pratica, ma forse non c’era riuscito.

Lo avrebbero ricordato, soprattutto, (così scrive sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” Raffaele Nigro, scrittore di fama consolidata, e suo adepta al tempo della “rivoluzione Verri”) come grande organizzatore culturale, carismatico tessitore di una nuova trama di fili rosso Salento, in cui — dice Salvatore Colazzo — venivano scoperti (o ri-scoperti) personaggi geniali variamente creativi, alimentati da una cultura complessa, antica, misteriosa, capaci di dialogare col mondo, rivoluzionari, sovversivi per interiore esigenza di esplorare l’aperto, il diverso, l’oltre; angeli terribili della parola, del colore, del suono che incarnavano l’inquietudine, la disperazione, l’irrisione, la luce e l’ombra, lo stupore delle cose e il furore distruttivo che è insito nella creatività.

Le riunioni, le celebrazioni, i riti di questa setta iniziatica che mescolava un po’ tutto, psicanalisi, letteratura, pittura, folklore, politica, avvenivano spesso presso il Mocambo di Sternatia, in cui si beveva fino allo stordimento, all’obnubilamento. Ed erano queste le conseguenze dell’amore per l’arte e la poesia, cose per nulla innocenti, dice Verri, che creano una serie di sbandati, di vagabondi in cerca di spigolature nei prati dell’infinito, scompiglio, singhiozzo, dolore e un mare di silenzio. Niente di nuovo, del resto, disse una volta. A volte mi pare che quel che scrivo sia già accaduto… (continua…)


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