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Antonio Leonardo Verri, Pensionante de’ Saraceni: Vi lascio la città

Creato il 22 ottobre 2010 da Cultura Salentina

di Augusto Benemeglio

ANTONIO LEONARDO VERRI

Antonio Leonardo Verdi

Sa che deve lasciare tutto, e lo dice, con la sua lingua di carta, Vi lascio la città, proprio non mi va di scrivere, non posso continuare a concepire nelle immensa bocca di questo libro, vi lascio la città, è tutta vostra, una volta era rossissima, porosa e si rifletteva nel mio occhio strabico, nelle mie misurazioni, nelle mie balbuzie, nelle mie ire orgogli, brutture, timori pianti…Vi lascio la città, consumate quel che vi pare, non ci sarà più pomeriggio né domenica sul mio declaro, non ci saranno più le mie grida, né le vostre, ora non ci possiamo più capire.

 

Guissnes è così rossa e putrida che solo riesco ad alzare la terra …vi lascio la città, non siamo più credibili …il libro è vuoto come un imbuto come un fondo blu… Prendetevi la città se volete rincorrere il gran libro che io non ho potuto fare, perché era utopistico, e perché non avevo più tempo… Ma il suo peccato era molto più grave e non gli verrà perdonato. Aveva cercato di saccheggiare gli spazi del cielo, gli spazi del dio geloso, di rovesciare, con il suo arco, l’iddio geloso. (Mi portai nella cella una ragazza viva dal seno duro e l’anca delicata simile ad una viola fiorentina. E le chiesi d’insegnarmi un po’ d’orizzonte e vidi le mani del tempo che viveva attaccato ai muri della mia città, udii le voci e la linfa dei tronchi che vi scorrevano dentro). Sa che occorrono molti scontri con i mulini a vento affinché uno decida di ammettere la realtà. E la realtà è “che un artista non fa ciò che vuole, ma ciò che può”.

Ma non ha rimpianti. Non è più tempo di rimpianti per questo inguaribile e invincibile visionario, “In fondo ogni parola è adorabile, anche la sciocca, la usata, che tutto sia un miracolo, la neve il pane la madre Otranto il rossore le fughe i marchingegni della notte le ragazze mulacchione le scoperte la scrittura il Turco dolce e un candore che non finirei di raccontare…” Sembra quasi un addio del giovane Holden. Tutte queste cose Verri le ha scritte, in vent’anni di giornalismo letterario e di editoria alternativa, di sperimentazione linguistica e creativa, e altre ne aveva nella mente, insieme a colori, profumi e musica felice, l’odore del pane, il ritornar leggero a volare, le coltellate di luce, la fuga per la vittoria, la sabbia, la fatica, la barriera dei propri occhi, la fica, il sentimento dei muretti a secco, l’emozione della mani segnate del padre, delle rughe della madre, foreste palazzi e risate, le sciocchezze, le bevute, i prati e un po’ d’orizzonte per vedere odalische e cammelli e distese di sabbie roventi, da quel gran Saraceno che era.

Avrebbe voluto reincarnarsi nel Galateo (al secolo Antonio De Ferrarsi), che aveva saputo interpretare stupendamente, alla grande nel suo “Fabbricante d’armonia”, un’umanista che ritrova se stesso e la sua identità nel ritorno nella sua terra, fra la sua gente. Un brano davvero esemplare: “La gente, qui, per me, come vi dicevo, ha il colore del mare, ha l’andatura di un’onda, il cuore negli occhi, un corpo azzurrato, perfetto…è stupenda questa gente…anche nel dolore, anche quando urla, quando impreca…: questa gente ha l’umore di questa terra, cresce con essa, ad essa confida i suoi mali, le sue gioie, i suoi dubbi, le sue ondulate tristezze… Qua si impreca alla morte, come vi dicevo, si grida…i paesi, qui, parlano con le campane, con le campane si annuncia un po’ tutto — e il suono spande la sua ombra su distese di fieno e due vecchi sulla chiesa sono una carezza d’infinito: l’infinito si può scovare dappertutto in questo, e ogni cosa, ogni persona, ha un suo particolare stupore, dolore… Succede così anche a me…”

Ci rimangono i suoi lavori, da “Il pane sotto la neve” a “La Betissa, storia composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora “(un testo – scrive Tolledi, di una densità poetica assoluta, di una densità altra che poco ha a che fare con l’intonaco putrido delle identità salentine, con la biacca plastificata della morte da depliant turistica di cui in questi ultimi anni abbiamo immellassato i nostri occhi e ciò che resta del nostro cuore), da “Fabbricante d’armonia (la ricordata biografia del Galateo) alla “Cultura dei Tao” (“folletti dell’aria con dentro il salentino mao e il veneto bao) da Il naviglio innocente a Il suono casual, da Bucherer l’orologiaio (postumo) a “I trofei della città di Guisnes”, (che taluni considerano il suo capolavoro, “un libro troppo importante per la letteratura italiana d’oggi”, un libro che evoca Calvino, Kafka, Gadda e Wells, con una storia allusiva e angosciosa del mondo di domani, con dentro un sacco di cose nuove, il pastiche del linguaggio sperimentale, magmatico, vischioso, con le manipolazioni del dialetto, le architetture e l’urbanistica che sorregge una città tutta mentale, un libro che forse troverà gloria tra cinquant’anni, quando si avvererà la sua profezia), al Quotidiano dei Poeti (“Cominciate, poeti, a spedire fogli di poesia/ ai politici, gabellieri d’allegria), impresa utopistica, folle, che si realizzò e diede a Verri e al Salento due settimane di notorietà nazionale, tutte opere che solo grazie alla grande ostinazione, allo sforzo, alla venerazione e all’amore profondo del gruppo di amici che hanno creato la Fondazione Verri, che tengono in piedi uno spazio e una biblioteca — archivio dove sono confluite le sue carte, oggi abbiamo la possibilità di leggere, di apprezzare e valutare.

Alcune di esse sono diventate quasi oggetto di culto, come ad esempio i due grandi, enormi volumi curati da Maurizio Nocera, il mitico “Quotidiano dei Poeti” e “Pensionante de’ Saraceni”, che non era un saraceno a pensione, alias Verri, no. Ma un ignoto collaboratore del pittore Carlo Saraceni, che lavorava a Roma nei primi del seicento. “Verri ha significato per molti di noi – scrive Eugenio Imbriani – il piacere di incontri impensati con personaggi e cose elevati e curiosi, come il pittore di cui amava il nome e la storia e al quale ha intitolato forse la parte più cospicua della sua attività editoriale…” Ma Verri (lo sappiamo) amava giocare con le parole, amava le ambivalenze, e nel nome del pittore seicentesco, nel suo ignoto umile pensionante aveva visto come un lampo una figurazione un destino, una profezia, e vi si era rispecchiato, aveva fatto clic, un’istantanea con quella polaroid che aveva nella sua mente e fissato il quadro, per sempre.

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