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Antonio Pennacchi: “Il buon cinema può trovarsi solo nei libri”

Creato il 31 luglio 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Antonio Pennacchi: “Il buon cinema può trovarsi solo nei libri”

Antonio Pennacchi e Giovanni Berardi

“Qual’ è lo scopo di un buon film?” Risponde Pennacchi: “raccontare una bella storia”. Antonio Pennacchi, premio Strega 2010 per la narrativa con Canale Mussolini, non ha dubbi. Ed aggiunge: “molte volte queste storie il cinema ce l’ha belle e pronte in tanti buoni libri. Perchè non approfittarne? Anche perché in questo momento sono sempre più convinto che il cinema italiano non lo sanno più scrivere. E la sua grave crisi è innanzitutto una crisi di scrittura”.

Antonio Pennacchi, scrittore, ha avuto con il cinema, comunque, un’esperienza che non lo ha gratificato affatto, non lo ha convinto, anzi lo ha lasciato addirittura inviperito. Dice Pennacchi: “non amo assolutamente il film tratto dal mio romanzo  Il Fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi. Il regista Daniele Luchetti e gli sceneggiatori Petraglia e Rulli me lo hanno letteralmente scippato di mano”. Eppure, insiste il cronista, Sandro Petraglia e Stefano Rulli oggi sono la coppia di sceneggiatori che nel cinema italiano resta un po’ il contraltare di quello che sono stati, negli anni cinquanta e sessanta, in modo particolare, Agenore Incrocci detto Age e Furio Scarpelli, la coppia di sceneggiatori più acclamata, quelli a cui si devono alcuni classici capolavori del cinema italiano (I soliti ignoti, La grande guerra, Il buono il brutto il cattivo, C’eravamo tanto amati).

Petraglia e Rulli, non nascondiamoci, rappresentano oggi quella che è la migliore scrittura per il cinema italiano, bastono solo un paio di titoli: La meglio gioventù (2003), ad esempio, un affresco preciso e puntuale di date storiche, incontri e situazioni del novecento davvero encomiabile nella semplicità del complesso, film che è stato diretto da Marco Tullio Giordana; Il ladro di bambini (1992),  per la regia di Gianni Amelio. E poi il regista Daniele Luchetti, che rimane senz’altro uno dei più autorevoli esponenti del nuovo cinema italiano. Luchetti ha alle spalle opere come Il portaborse (1991), La scuola (1995), I piccoli maestri (1998), La nostra vita (2010). Ed allora cosa è successo al film tratto dal romanzo di Antonio Pennacchi? Lo scrittore lo avevamo sentito già nei tempi giusti, quando la polemica era calda, mentre cioè Latina era immersa nel contesto scenografico e culturale dell’epoca descritta dal romanzo, gli anni cinquanta. Tutte le strade, le automobili, le figure a Latina, rimandavano proprio continuamente a quegli anni, giorni e giorni di set anni cinquanta a cielo aperto, e Pennacchi in quei frangenti lo avevamo trovato già contrariato, appunto, da come le cose nel tempo stavano evolvendo. Perchè prima ci fu un tentativo – quanto autentico non è dato a capirsi – della produzione, che era la serissima ed importantissima Cattleya di Riccardo Tozzi, di coinvolgere Pennacchi nella sceneggiatura del film, poi la produzione decise diversamente. Infine Antonio Pennacchi venne estromesso definitivamente dal progetto del film e da tutti i contatti. A questo punto è iniziata, da parte dello scrittore, quella che rimane una difesa istintiva del suo prodotto editoriale. Lo scrittore già temeva, in quei giorni di lavorazione, che le distanze già emerse, in sede di prima stesura della sceneggiatura, avrebbero raggiunto con la sua assenza percentuali pari alla negazione quasi completa del suo testo. Forse Pennacchi può restare contento per il successo del film, tra l’altro presentato in concorso anche al Festival di Cannes 2007, che è servito molto proprio in termini di notorietà, anche se Pennacchi oggi giustamente  ribatte: “…e chi se ne frega, quello non era un mio ideale…”; e comunque, ormai, mettiamola come ci pare, ma quando in termini nazionali si parla di Antonio Pennacchi lo si fa ricordando sempre il fatto che è stato il vincitore del Premio Strega 2010 con Canale Mussolini, ma anche che dal suo libro Il Fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, tra l’altro premio Napoli 2005, è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti.

Pennacchi comunque non ha molta voglia ancora, in questa giornata afosa di Luglio 2011, di parlare di questo, lui, che è piuttosto spiritoso ed affabulatore, sembra quasi imbarazzato ad affrontare nuovamente l’argomento, ma in una rubrica in cui si parla di cinema questo ritorno è quasi indispensabile. Lo guardiamo negli occhi e ci viene da pensare che il suo berretto blu, che lui considera la coperta di Linus, è diventato ormai un ornamento simbolo della sua identità mediatica, anche se l’abitudine di indossarlo deriva da motivi assai normali, una brutta artrosi cervicale; poi il copricapo, come ha spiegato, è divenuto un elemento di identificazione con il papà, che portava sempre un basco, un papà che lo scrittore descrive come un vero eroe: “lui fu davvero uno di quelli che bonificarono l’Agro pontino: con sangue, sudore e lacrime”.

Ormai Antonio Pennacchi vorrebbe guardare solamente più avanti, davvero oltre il film, e le qualità sono tutte in ordine per questo: questa incomprensione con Luchetti, confessa, è superata, ma la rabbia rimane tanta. Forse perchè al valore culturale, comunicativo, di fratellanza, della scrittura con il cinema Antonio Pennacchi crede ancora molto. Noi aggiungiamo, d’altra parte può essere, che uno dei motivi per cui si fa il cinema, molte volte, è anche quello di creare divi, quindi soprattutto apparenze, lustrini, anche in qualche caso superficialità e assoluto colore. Visto in questi termini, pensiamo, Luchetti ha sfornato un buonissimo titolo, anzi per noi resta il suo film migliore: una pellicola che ha vinto quattro David di Donatello per la migliore interpretazione (un Elio Germano davvero da Oscar), la migliore interpretazione da non protagonista (Angela Finocchiaro), la migliore sceneggiatura, appunto e malgrado Pennacchi, ed il miglior montaggio. Anche  Canale Mussolini è da più parti invocato affinché diventi un film. Dice Pennacchi: “è vero, i contatti ci sono stati, perlopiù con la società che gestisce i diritti del libro. Però ancora non c’è nulla di concreto, di deciso. Io, almeno, in questo senso ancora non ne so niente. Comunque una cosa mi sento di dire: per rispecchiare davvero l’anima del mio romanzo occorre un budget vicino ai venticinque-ventisei milioni di euro. Dirò di più, il regista ideale sarebbe Steven Spielberg”.

Pennacchi non era ancora lo scrittore affermato che sarebbe diventato quando il critico cinematografico e scrittore Enzo Siciliano lo coinvolse in un progetto ambizioso, per conto della casa editrice Lindau e per la sua collana Storie di italiani-Storia d’Italia. È un saggio a più mani, le altre sono quelle di Nello Ajello, Marco Risi, Alfredo Reichlin, Sandro Veronesi, Giorgio Van Straten, Bruno Roberti, Lorenzo Pavolini, Roberto Nepoti, Barbara Palombelli, Francesca Sanvitale, Giuseppe Rotunno, Furio Scarpelli, dedicato al film C’eravamo tanto amati, diretto nel 1974 da Ettore Scola, uno dei contributi più alti dati a quell’immenso movimento culturale che è stata la commedia all’italiana.

Spiega Pennacchi: “io mi sono occupato del personaggio interpretato da Aldo Fabrizi, un palazzinaro senza scrupoli, che diventa il suocero di Vittorio Gassman, un personaggio che in gioventù era stato un fervente idealista insieme ai suoi due amici di percorso nella lotta partigiana, Nino Manfredi e Stefano Satta Flores, che idealisti invece lo sono rimasti sino in fondo. Gassman, al contrario, una volta accettata la fede capitalista diventa, negli affari e negli affetti, ancora più squalo del suocero”. Ora in tempi più recenti, la riedizione è dell’aprile 2011, la casa editrice Bur ha commissionato a Pennacchi una nuova introduzione al romanzo Metello di Vasco Pratolini, dal quale nel 1970 il regista Mauro Bolognini trasse il bellissimo film. Pennacchi non vuole assolutamente credere al fatto che l’adattamento cinematografico abbia giovato al romanzo di Pratolini in termini di divulgazione. A noi risulta, ad esempio, che questo romanzo è stato affrontato nelle scuole con prepotenza solo dopo l’uscita del film nelle sale italiane, prima era vissuto in maniera assolutamente tiepida.

Dice Pennacchi: “non diciamo ora che tutto è merito del cinema, per favore. Il romanzo di Pratolini già nel 1953 aveva vinto il Viareggio ed aveva un seguito incredibile nel dibattito culturale”. Comunque Antonio Pennacchi aveva scritto già quattro libri, Mammut, Palude, Una nuvola rosa, Il Fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi era da poco in libreria, ma si cominciò a parlare di lui, in termini culturali concreti, solo dopo il leggendario “vaffa”  lanciato all’indirizzo dello stimato filosofo Gianni Vattimo, in un incontro di natura politica organizzato dall’allora Partito Democratico della Sinistra. Quel “vaffa” di conseguenza ha fatto scendere a Latina il direttore di Sette, il settimanale del Corriere della Sera, per dedicargli un episodio della sua seguitissima ed interessante rubrica I conti con il passato. Solo pochi giorni orsono, poi, Pennacchi lo abbiamo visto in televisione, e, ci va di sottolinearlo, un Pennacchi gran personaggio in fondo, pronto ad alimentare una nuova puntata di Blob, lui vincitore del premio Strega 2010 invitato a passare il testimone a Edoardo Nesi per Storia della mia gente; abbiamo sentito quel “vaffa” giungere, improvviso, dal nostro scrittore, ancora microfonato, che si stava allontanando dal proscenio: in un mondo culturale diventato piuttosto afono, appiattito, timido, chiuso nei conformismi, pensiamo che sono anche le provocazioni di questo intellettuale ex operaio a restare tra le poche cose davvero comunicative e centrali. Comunque Antonio Pennacchi una sua primissima esperienza nel cinema l’aveva già avuta nel 2003 con Latina-Littoria. Una città,  il documentario girato da Gianfranco Pannone, dove Pennacchi, girovago cantore per tutto l’Agro pontino, faceva i conti, nel bene e nel male, con il mito del Duce. Il film ha vinto, tra l’altro, il Festival del documentario di Torino e ha sancito, per il suo regista,  Gianfranco Pannone,  l’ascesa professionale anche in termini internazionali. Il film ha avuto echi clamorosi nella città citata, Latina, tra l’altro terra di adozione del regista e terra natia per lo scrittore. Ma anche questo film, nel tempo, ha trovato la strada della delusione, soprattutto per i rapporti che, in definitiva, si sono creati, tra lui ed il regista.

Il prossimo futuro nel cinema per Antonio Pennacchi si chiamerà, forse, Mimmo Calopresti. C’è un progetto, infatti, del regista calabro – torinese, già storico autore de  La seconda volta (1995), La parola amore esiste (1998), Preferisco il rumore del mare (1999), La felicità non costa niente (2003), di portare sullo schermo la vita narrata di Pier Paolo Pasolini a Sabaudia (questo già potrebbe essere il titolo del documentario), la cittadina sul litorale pontino che il poeta stava per eleggere, attraverso la sua poesia e la sua sensibilità soprattutto, come nuovo e centrale luogo stanziale per la sua esistenza. Ma una condizione tragica nella notte del 31 ottobre 1975 renderà vano questo desiderio.

Pennacchi parla della sua ultima fatica letteraria, un saggio su Dostoevskij, che guarda caso, ricorda, è un autore molto saccheggiato dal cinema, l’ultimo ad opera proprio di Giuliano Montaldo con il film I demoni di Dostoevskij. E Montaldo, questo è un inciso, come ci ha ricordato nella nostra intervista di dicembre, era nella giuria del premio Strega 2010 a votare proprio per Pennacchi e per il suo Canale Mussolini. I suoi passaggi nel cinema Pennacchi li ricorda anche attraverso una esperienza prettamente giovanile, quando negli anni sessanta è stato una modesta comparsa – le troupe dei film di cappa, spada e cartapesta, molto attive nel periodo dei primi anni sessanta, si spingevano da Cinecittà verso i luoghi pontini per girare in scenari più consoni, come il lago di Fogliano, il Circeo, Torre Astura, Sermoneta o Tor Caldara, le loro storie avventurose. Un film, in particolare, Pennacchi lo ricorda con gli occhi contenti, forse un momento brioso, da adolescente: Sandokan alla riscossa, con la regia di Luigi Capuano ed interpretato dai divi di allora, Ray Danton, Franca Bettoia, Mario Petri, Guy Madison. Ma in realtà il regista Capuano, con la stessa troupe, gli stessi attori, gli stessi figuranti, in quel frangente e contesto, ha girato due film diversi ma dalle situazioni simili, come era ricorrente nel mercato della cinematografia del periodo: Sandokan alla riscossa e Sandokan contro il pirata di Sarawak.

Dice Pennacchi: “i miei attori preferiti? Tanti, sicuramente. Comunque Kirk Douglas, Paul Newman, Totò, Peppino, Fabrizi, Giuliano Gemma, Stefano Satta Flores. I registi che ho amato? Sicuramente De Sica, il Fellini de I vitelloni, Le notti di Cabiria, Amarcord. E Vincere di Marco Bellocchio è proprio un bel film. Ora mi piacerebbe vedere Bellocchio districarsi con una commedia. Un altro film che reputo straordinario è Scipione detto anche l’africano di Luigi Magni. Il film che ha migliorato il romanzo? Decisamente Arancia meccanica, migliore del romanzo Un arancia ad orologeria di Anthony Burgess da cui è tratto. Un bel film da un buon romanzo?  Via col vento di Victor Fleming dal libro di Margaret Mitchell e Il conformista di Bernardo Bertolucci tratto da Alberto Moravia. Se ho mai pensato a scrivere una sceneggiatura? Non ho mai avuto l’occasione, dopo lo scippo di Luchetti. Perchè è solamente un discorso di occasioni. Cosa penso dello scrivere e dello sceneggiare? È lo stesso mestiere, ma è regolato da tecniche diverse. Cosa amo di più del rito cinema? La bella sala che trovavo ed amavo quando ero un ragazzo, piena di gente e piena di fumo. Si stabiliva davvero, in quel rito collettivo, un rapporto appagante con le emozioni. Cosa sto facendo adesso? Orazio diceva che i versi dovrebbero riposare nove anni. È per questo che riscrivo Il Fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi

Giovanni Berardi

Antonio Pennacchi: “Il buon cinema può trovarsi solo nei libri”
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