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Arthur rimbaud poesie iii

Creato il 19 luglio 2013 da Marvigar4

Poésies

ARTHUR RIMBAUD

POESIE

Traduzione dall’originale in francese Poésies  

di Marco Vignolo Gargini

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IL FABBRO

Palazzo delle Tuileries, verso il 10 agosto ’92.

(Le forgeron Palais des Tuileries, vers le 10 août 92.)

Il braccio su un maglio gigantesco, spaventevole

d’ebbrezza e di grandezza, la vasta fronte, ridente

come una tromba bronzea, a bocca aperta,

e afferrando quel grassone nel suo sguardo feroce,

il Fabbro parlava a Luigi Sedici, un giorno

in cui il Popolo era là attorcigliatosi attorno,

e trascinando i suoi sudici abiti sui rivestimenti d’oro.

Ora il re, ritto sulla sua pancia, impallidiva,

pallido come uno sconfitto che portano al patibolo,

e, mansueto come un cane, non indietreggiava,

ché questo fabbro briccone dalle spalle enormi

gli diceva parole stagionate e cose così strane,

che in fronte erano una scarica di pugni, così!

 

“Ora, tu ben sai, Monsieur, che cantavamo trallallà

e muovevamo i buoi verso i solchi altrui:

il Canonico al sole sfilava dei padrenostri

sui rosari splendenti graniti di pezzi d’oro.

Il Signore, a cavallo, passava, suonando il corno

e l’uno col capestro, l’altro con la frusta

ci scudisciavano. – Ebeti come quelli delle vacche,

i nostri occhi non piangevano più; e andavamo, andavamo,

e quando avevamo lasciato i solchi dappertutto,

quando noi avevamo lasciato in quella terra nera

un po’ di carne nostra… avevamo in cambio una mancia:

ci bruciavano le nostre catapecchie la notte;

e i nostri figli dentro diventavano torte ben cotte.

 

…“Oh! io non mi piango addosso. Ti dico le mie fesserie,

così, tra noi. Ammetto che tu non sia d’accordo.

Dì, non è bello, quando fa giugno, vedere,

entrare nei granai dei carri enormi pieni

di fieno? Sentire l’odore di ciò che cresce,

degli orti quando pioviscola, dell’erba rossastra?

Vedere tanto grano, le spighe piene di grano,

pensare che quel grano sarà del buon pane?…

Oh! più forti, andremo, alla fornace che brilla,

a cantare allegri martellando sull’incudine,

se fossimo certi di poter prendere un poco,

essendo uomini in fondo!, di ciò che Dio dona!

- Ma ecco, è sempre la stessa vecchia storia!

 

“Ma io lo so, adesso! Io non posso più concepire,

avendo due buone mani, la mia fronte e il mio martello,

che un uomo venga là, la daga sul mantello,

e mi dica: Ragazzo, semina la mia terra;

che venga ancora, quando questa sarà la guerra,

a prendermi il mio ragazzo, così, a casa mia!

- Ed io, io sarei un uomo, e tu, tu saresti un re,

e mi diresti: Io voglio!… – Ti accorgi che questa è una follia.

Tu credi che io ammiri la tua splendida baracca,

i tuoi ufficiali dorati, i tuoi mille mascalzoni,

i tuoi fottuti bastardi far la ruota come pavoni:

hanno riempito la tua tana dell’odore delle nostre figlie

e di denuncie scritte per cacciarci nelle Bastiglie,

e noi diremo: Ma bene: i poveracci in ginocchio!

Noi indoreremo il tuo Louvre con qualche nostro baiocco!

E tu ti sollazzeresti, faresti delle gran feste.

- E ’sti Signori si sbellicheranno, sulle nostre teste!

 

“No. ’Ste schifezze andavano ai tempi dei nostri papà!

Oh! Il Popolo non è più una puttana. Tre passi

E, ecco qua, la tua Bastiglia abbiamo polverizzato.

Quella bestia trasudava sangue da ogni pietra

ed era infamante la Bastiglia in piedi 

coi suoi muri lebbrosi che spifferavano tutto

e ci rinchiudevano sempre nella loro ombra!

- Cittadino! Cittadino! era il passato tenebroso

che crollava, che rantolava, quando prendemmo il torrione!

Avevamo in petto qualcosa come l’amore.

Avevamo stretto sul petto i nostri figli in un abbraccio.

E, come cavalli, con le narici che sbuffano

andavamo nel sole, a fronte alta, – così, -

per Parigi! Si accorreva davanti ai nostri cenci sporchi.

Finalmente! Noi ci sentivamo Uomini! Eravamo smunti,

Sire, eravamo ubriachi di speranze tremende:

e quando fummo là, dinnanzi ai masti neri,

agitando le nostre trombe e le nostre foglie verdi,

picche alla mano; noi non avevamo astio,

- Noi ci sentivamo così forti, noi volevamo essere buoni!

.   .   .

.   .   .

“E dopo quella giornata, noi siamo come pazzi!

Gli operai in massa sono scesi nelle strade,

e quei maledetti se ne vanno, folla sempre estesa

di cupi spettri, alle porte dei ricchi.

Io corro con loro ad ammazzare gli spioni:

e io vado per Parigi, nero, martello sulla spalla,

feroce, a spazzar via a ogni angolo qualche sospetto,

e, se tu mi ridessi in faccia, ti farei secco!

Poi, puoi contarci, vuoterai la tua borsa

Con i tuoi uomini neri, che accolgono le nostre istanze

per farle rimpallare come su racchette

e, sottovoce, i furbi!, diranno: ‘Che razza di scemi!’

per cuocere delle leggi, incollare dei piccoli vasi

pieni di bei decreti rosa e di oppiacei,

divertirsi a rifilarci qualche apposita taglia,

per poi turarsi il naso quando gli passiamo vicino,

- Noi dolci rappresentanti che ci trovano lezzi! -

per non temere nulla, nulla, se non le baionette…,

benissimo. Al diavolo le loro tabacchiere ciarliere!

Ne abbiamo abbastanza , insomma, di quei cervelli piatti,

e di quei corpi-di-Dio. Ah! allora sono questi i piatti

che ci servi, borghese, quando noi siamo feroci,

quando noi abbiamo già spaccato gli scettri e le croci!…”

.   .   .

Lui lo prende per un braccio, arraffa il velluto

delle tende, e gli mostra là in basso il cortile

dove c’è un brulichio enorme, dove cresce la folla,

la folla spaventosa con i muggiti di un onda,

che urla come una cagna, urla come il mare,

coi suoi bastoni massicci e le sue picche ferrigne,

i suoi tamburi, i suoi berci da mercato e da bettola,

scuro mucchio di stracci sanguinante di berretti rossi:

l’Uomo, dalla finestra aperta, mostra tutto

al re pallido e sudante che barcolla tutto,

ammalatosi a guardare questo!

“È la canaglia,

Sire. Sbava sui muri, sale, germoglia:

- Poiché non mangiano, Sire, sono dei pezzenti!

Io sono un fabbro: mia moglie è con loro,

la pazza! Lei crede di trovare il pane alle Tuileries!

- Non ne vogliono sapere di noi nelle panetterie.

Io ho tre bambini. Io sono canaglia. – Io vedo

delle vecchie che piangono sotto le loro cuffie

perché gli han preso il ragazzo o la figlia.

È la canaglia. – Un uomo era alla Bastiglia,

un altro era in catene: ed entrambi, cittadini

onesti. Liberati, sono come cani randagi:

li offendono! Allora, hanno qualcosa dentro

che gli fa male, sta’ sicuro! È terribile, e per questo

che sentendosi a pezzi, che, sentendosi dannati,

sono là, adesso, a urlare sotto il vostro naso!

Canaglia. – Là dentro ci sono delle ragazze, infami

Perché, – lo sapete che le donne son fragili, -

Monsignori della corte, – la danno sempre via,-

voi gli avete sputato sull’anima, come niente!

Oggi, le belle sono lì. È la canaglia.

.   .   .

“Oh! tutti i disgraziati, tutte le schiene scottate

sotto il sole spietato, e che vanno e vanno,

che si sentono scoppiare la fronte in quel lavoro là…

Giù i cappelli, miei borghesi! Oh! quelli sono gli Uomini!

Noi siamo Operai, Sire! Operai! Noi siamo

per i tempi grandi e nuovi in cui vorremo sapere,

in cui l’Uomo dalla mattina alla sera inventerà,

in caccia di grandi effetti, in caccia di grandi cause,

in cui, con calma vincitore, dominerà le cose

e salirà su Tutto, come su un cavallo!

Oh, splendidi chiarori delle fucine! Più lavoro,

sempre più! – Ciò che non si sa forse è terribile:

noi sapremo! – I nostri martelli in pugno, passiamo al vaglio

tutto ciò che sappiamo: poi, Fratelli, avanti!

Noi facciamo a volte questo grande sogno commovente

Di vivere semplicemente, con ardore, senza dire niente

di malvagio, lavorando sotto l’augusto sorriso

d’una donna che amiamo con un amore nobile:

e lavoreremmo con fierezza per tutto il giorno,

ascoltando il dovere come una tromba che squilla:

e ci sentiremmo allora felicissimi; e nessuno,

oh! nessuno, soprattutto, ci farebbe piegare!

E avremmo un fucile sopra il focolare…

.   .   .

[“Oh! ma l’aria è tutta piena di un odor di battaglia.

Che ti dicevo dunque? Io sono della canaglia!

Restano ancora spioni e accaparratori.

Noi siamo liberi, noi! Noi abbiamo terrori

Che ci fan sentir grandi, oh!, così grandi! Or ora

parlavo di un dovere calmo, di una dimora…

Guarda dunque il cielo! – Io rientro tra la folla,

tra la grande canaglia orribile, che tira,

Sire, i tuoi vecchi cannoni sulle luride strade:

- Oh! quando saremo morti, noi le avremo lavate!

- E se, contro il nostro urlo, contro la nostra vendetta,

le zampe dei vecchi re indorati, sulla Francia

spingono i loro reggimenti in abiti di gala,

ebbene, a voi tutti: merda a quei cani là!”

.   .   .

Riprese il suo martello sulla spalla.

La folla

Vicino a quell’uomo si sentiva l’anima ebbra,

e, nel gran cortile, negli appartamenti,

dove Parigi ansimava con strepitio,

un brivido scorse sull’immensa plebaglia.

Allora, con la sua mano enorme, superbe e lercia

benché il re panciuto grondasse sudore, il Fabbro,

terribile, gli gettò il berretto rosso in faccia!



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