Magazine Cultura
So che non c'è bisogno di mettere in moto la storia. Essa marcia da sola, per inerzia, autonomamente, con un carburante tutto suo, le più volte fatto di sangue umano. Ma adesso, a bocce ferme, a sangue chiuso nelle vene degli abitanti della terra (si fa per dire), non sarebbe possibile pensare qualcosa che facesse compiere un salto di qualità alla storia dell'umanità, al nostro essere qui, transitori e incerti, in attesa di chiudere bottega e amen? E pensavo agli ebrei, appunto, perché storicamente molti di loro hanno vocazione pioneristica, fondano religioni facilmente, filosofie, dottrine, arte e splendida letteratura. Insomma loro, che nel Novecento risentirono il bisogno di patria e dettero vita al sionismo per ritornare a casa e chiudersi in un giardino strappato con forza e lavoro al deserto; vorrei chiedere loro, ai più illuminati, ai nuovi pioneri del pensiero ebraico di allontanarsi dal loro nido e disperdersi per sciogliere i nodi che legano l'umano alle radici di una terra che non ha più senso abbia tanti nomi, e trovi la sua unità. Voglio dire: l'ebreo errante, novello Don Chisciotte, che strappa dal suo passaporto la stella di David e la sostituisce con la forma quasi sferica della terra fotografata da un satellite: fotografata dappertutto, sviluppata come in un planisfero, dove si vedano tutte le terre emerse e i nomi dei confini non esistano. Già, lo sapete bene che dall'alto non si notano linee di demarcazione e le bandiere sono solo quelle delle perturbazioni. Gli ebrei, spiritualmente, sono i soli che possono intraprendere questo cammino, questa nuova e più cogente traversata del deserto. Perché ho l'illusione che gli ebrei operino nel disincanto, nella consapevolezza che nessun idolo vale il volto di un essere umano. Allora resto in attesa di un nuovo profeta – anche se, in realtà, non ce ne sarebbe bisogno, basterebbe citare qualche versetto, basterebbe rileggere alcuni dei più indimenticabili interpreti.
«I giorni si somigliano tutti, e non è facile contarli. Da non so quanti giorni facciamo la spola, a coppie, dalla ferrovia al magazzino: un centinaio di metri di suolo in disgelo. Avanti sotto il carico, indietro colle braccia pendenti lungo i fianchi, senza parlare. Intorno, tutto ci è nemico. Sopra di noi, si rincorrono le nuvole maligne, per separarci dal sole; da ogni parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva del filo spinato che ci segrega dal mondo. E sulle impalcature, sui treni in manovra, nelle strade, negli scavi, negli uffici, uomini e uomini, schiavi e padroni, i padroni schiavi essi stessi; la paura muove gli uni e l'odio gli altri, ogni altra forza tace. Tutti ci sono nemici o rivali.No, in verità, in questo mio compagno di oggi, aggiogato oggi con me sotto lo stesso carico, non sento un nemico né un rivale». Primo Levi, Se questo è un uomo.
«Il povero, lo straniero si presenta come eguale. […] La sua uguaglianza in questa povertà essenziale consiste nel riferirsi al terzo, così presente all’incontro e che, nella sua miseria, è già servito da Altri.[…] Egli si unisce a me. […] Ogni relazione sociale, al pari di una derivata, risale alla presentazione dell’Altro al Medesimo, senza nessuna mediazione di immagini o di segni, ma grazie alla sola espressione del volto. […] Il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, né da una causa comune di cui sarebbero l’effetto come succede per le medaglie che rinviano allo stesso conio che le ha battute. […] La paternità non si riconduce ad una causalità cui gli individui parteciperebbero misteriosamente e che determinerebbe, in base ad un effetto non meno misterioso, un fenomeno di solidarietà.[…] Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo, e l’epifania del volto coincide con questi due momenti. O l’uguaglianza si produce là dove l’Altro comanda il Medesimo e gli si rivela nella responsabilità; o l’uguaglianza non è che un’idea astratta e una parola.»E. Lévinas, Totalità e infinito, trad. di A. dell’Asta, Jaca Book, Milano, 1980, p. 217-219
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