Magazine Diario personale

Assaggi di romanzi inediti - da "gémenteseflentes", un flashback sul primo anno alla scuola materna

Creato il 16 aprile 2011 da Zioscriba

Se non vi piace Corradino siete in buona compagnia: neanche a me piaceva il mio nome, e per un qualche tempo m’ero illuso di poter essere chiamato con qualsiasi altro fosse garbato a me. Proprio non mi andava giù che mi avessero battezzato con questo nome così strano e così lungo, che nessun altro all’asilo portava. L’unico nome che avrei amato meno del mio era Stelvio, perché all’asilo c’era un tizio insopportabile che si chiamava Stelvio. Questo bambino Stelvio aveva una testolina a pera che faceva pensierini a pera. Non solo gli era stato appioppato quel nome abbastanza ridicolo, ma siccome aveva appena compiuto gli anni passava il tempo a domandare a tutti gli altri bambini quanti anni avessero, e se dall’oggi al domani le età non cambiavano faceva seguire il suo sconcertato commento: “Ma come, sempre tre?”, “Sempre quattro?” Di giorno in giorno il bambino Stelvio domandava l’età agli altri bambini assumendo sempre più un’aria di superiorità, doveva essersi convinto che cresceva solo lui, il cretino, finché non cominciarono ad arrivare a poco a poco anche i compleanni degli altri a normalizzare la situazione. Altro nome dell’asilo che non avrei mai voluto avere, ma per motivi opposti, era Eligio: l’Eligio mi faceva pena. Era uno scricciolo con un grande neo sulla tempia sinistra. Una mattina era venuto in ritardo, accompagnato dal giovane padre, che nel cortile, davanti a tutti, aveva scartato per lui una succosa gomma da masticare, bella rosea e compatta, che al solo vederla mi aveva fatto venire l’acquolina. Senonché, pochissimi istanti dopo, passata di mano l’Autorità dal papà alle suore, la truculenta Suor Rosa Tutta Spine s’era avventata su di lui come uno spauracchio di stoffa nera, e gliel’aveva fatta sputare prima ancora che potesse cominciare a gustarla.
All’asilo del Ponte di Lavinia, che era quello piccolo dei due che esistevano, c’erano solo due suoracce e una suorina. Delle due suoracce, una si chiamava Suor Mangusta: aveva l’attenuante di essere vecchia bacucca, e i suoi compiti si esaurivano nel sorvegliarci durante il sonnellino sulle sdraio nel salone e nell’impedire, quando si usciva a giocare in cortile, ai maschi di mischiarsi con le femmine (più che altro impediva a me di giocare con mia cugina, cosa che fuori di lì facevo sempre), mentre Suor Rosa Tutta Spine, che doveva essere la direttrice, era una carogna pura. Ci portava spesso nella chiesa adiacente, solo per poterci dire, una volta là dentro, che “chi si volta a guardare indietro brucerà all’inferno per l’eternità”.
La suorina invece era giovane dolcissima e brava, e di conseguenza non contava un put.
Tutti i bambini venivano identificati oltre che col nome con una cosa chiamata “contrassegno”, un semplice simbolo che veniva applicato o ricamato sopra alcuni effetti personali, come la piccola sacca bianca con chiusura a cordicella che conteneva il bavaglino e le posate per il supplizio del pranzo schifoso. I contrassegni degli altri erano quasi tutti carini – leprotti, fragole, orsi, funghetti – ma a me le pinguinacce di stoffa avevano rifilato un demenziale scarabocchio rosso, e questo ghirigoro indecifrabile che mi era stato assegnato lo chiamavano “frusta”. Dunque io avevo la frusta. Dunque io ero la frusta. Me ne sfuggivano motivo, significato e intelligenza. Ma corrispondevo a quell’orribile frusta.
Bella predestinazione, vero?
I giocattoli in cortile erano tutti per le femmine, e difficilissimi da ranzar via. Ci sarebbe voluta l’azione ben combinata di una squadriglia, alcuni a creare diversivi e finte zuffe, gli altri, pochi agenti scelti, a fare da incursori. Ma l’unico duro ero io. Gli altri stazionavano al livello mentale del bambino Stelvio, soffrivano di un’ammirazione smodata e terrorizzata per l’autorità delle pinguinacce di stoffa. Avessi solo accennato al piano, avrei suscitato una mezza dozzina di “Ce lo vado a dire!”
L’unica commistione maschi-femmine avveniva in occasione di certi giochi propedeutici alla competizione della vita, giochi che davano modo ai bambini più sensibili e acuti di decidere fin da subito di non competere affatto. Il più reiterato si chiamava “Dame&Cavalieri”. Schierati a fronteggiarci su due file, una di piccoli esseri umani col pene, l’altra di piccoli esseri umani con la vagina, avevamo come obiettivo la formazione di coppie. Del tutto fine a se stessa: non è che dopo si ballasse, o ci si desse un bacio. Si formavano coppie e morta lì. Il procedimento era di una noia bovina, come solo un gioco inventato e imposto da suore potrebbe mai essere: a turno, pedissequamente, uno scemetto sceglieva una stronzetta e le faceva l’inchino. La stronzetta decideva se ricambiare l’inchino oppure voltarsi simpaticamente a mostrare le natiche. Con matematica spietatezza, i più bruttini di ambo gli schieramenti imparavano subito quale sarebbe stato il loro posto nella vita. I poveri l’avrebbero imparato poco più tardi.
Per fortuna non mi chiamavo né Stelvio né Eligio, ma anche chiamarmi Corradino mi faceva sentire un idiota. E così tempestavo la mamma con pretese di altri nomi: “Chiamami Aldo!”, imploravo. “Chiamami Paolo!” Ma lei non mi assecondava mai. Non accettava cambi. Non voleva chiamarmi con nomi diversi da Corradino neppure per gioco, anzi ci rimaneva male, proprio si arrabbiava, come se ripudiare il nome che aveva scelto per me fosse stato lo stesso che ripudiare il suo amore. La volta che mentre lavava i piatti l’avevo supplicata di chiamarmi Miriam s’era arrabbiata un po’ di più.

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