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Atto di fede

Creato il 31 agosto 2011 da Goldfrancine

Questo post nasce da una chiacchierata notturna tra ragazze. Commentando uno smalto, una di loro domanda: “Ma questa ditta testa sugli animali?”.
Di parole ne volano troppe sull’argomento. Ognuno vuole dire la sua, chi enfatizzando il dolore e la sofferenza nonché l’inutilità di certe pratiche – sapete, ad esempio che le pecore possono mangiare i noccioli delle albicocche senza che il cianuro contenoto al loro interno le stenda? – e chi minimizzando il problema con uno Zut Zut che nemmeno Zio Paperone userebbe con tanta disinvoltura.
Si fa tanto parlare di normativa del ’76, del ’86, del ’2003… Sì, ok, ma come stanno le cose davvero?
trovate il testo integrale della normativa (fonte: Ministero della Salute) risalente al marzo 2009, in vista del traguardo del marzo 2013. Vi invito a leggerla e a trarne le conseguenze da voi perché è quella cui la stragrandemaggioranza delle ditte si appiglia sbandierandola come risposta alla più che legittima domanda “Ma la vostra ditta effettua test cosmetici sugli animali?”.
In pratica, dal 11 marzo 2009 non si sperimenta più se non per tre test importanti. “Okay”, si dice il consumatore, “ma allora perché non c’è il simpatico bollino cruelty free?”.
E qui le risposte sono molteplici: la normativa non impone nessun bollino di sorta, ma lascia la facoltà alle singole ditte di apporre una scritta, un simbolo o quello che vogliono. Possono anche non scrivere nulla seguendo questo principio, ed è qui che nasce la confusione nel consumatore, perché, almeno io, sono abituata ad avere dei riferimenti che mi permettano una maggiore libertà di scelta. È un mio diritto, giusto? Pare di no. E la cosa che mi lascia davvero perplessa è che, in merito all’etichettatura, la normativa afferma:

L’ndicazione sulla confezione o su qualsiasi documento, foglio di istruzioni, etichetta, fascetta o cartellino che il prodotto è stato sviluppato senza fare ricorso alla sperimentazione animale è consentita solo a condizione che il fabbricante e i suoi fornitori non abbiano effettuato o commissionato sperimentazioni animali né sul prodotto finito o sul suo prototipo, né su alcun suo ingrediente e che non abbiano usato ingredienti sottoposti da terzi a sperimentazioni animali al fine di ottenere nuovi prodotti cosmetici.

Con la recente Raccomandazione del 7 giugno 2006 (pdf, 39 KB) la Commissione europea ha ribadito che l’uso di dichiarazioni su un prodotto cosmetico non deve trarre in inganno il consumatore. L’uso sull’etichetta della dicitura «non testato su animali» è un’informazione utile al consumatore in quanto serve a metterlo in condizione di poter scegliere il prodotto con piena cognizione di causa.

La Raccomandazione chiarisce, inoltre, che l’uso di tali dichiarazioni è volontario e che, tuttavia, chiunque dichiari sui prodotti cosmetici che essi non sono stati ottenuti attraverso sperimentazioni su animali deve assumersi la responsabilità della dichiarazione e deve essere in grado di provarne la pertinenza.
La forma della dichiarazione, l’immagine, segno figurativo o altro per indicare che non si è fatto ricorso alla sperimentazione animale sono libere, purchè siano soddisfatte le prescrizioni della normativa comunitaria che autorizzano l’uso di tali dichiarazioni.

(Corsivi miei)

Ora, ad essere ottimisti, la libertà è lasciata alle singole case per un motivo molto semplice: non essendoci più l’obbligo o la possibilità di testare prodotto finito ed ingredienti sugli animali, cessa di fatto il senso della scritta “Non Testato Sugli Animali”.
Ad essere pessimisti, ed anche un po’ cinici, il fatto che non compaia alcuna scritta o simbolo, perché, come spesso rispondono le ditte (tutte nello stesso modo! Ma il customer care lo tiene la stessa azienda?), l’Unione Europea ha suggerito di non apporre alcun simbolo finché non ne verrà creato uno… sa un po’ di arrampicata sugli specchi.
Io non sono qui a giudicare nessuno, né mi arrogo il diritto di salire sul pulpito ad arringare gli altri mostrando loro l’Unica e Vera via (l’ultimo che l’ha fatto è stato appeso ad una croce e non ho voglia di condividere l’esperienza, grazie), anche perché io stessa sono la prima che cade in tentazione, e con una facilità mostruosa. Però vorrei sensibilizzare l’opinione di chi mi sta intorno circa questo problema e circa la cattiva comunicazione che le ditte cosmetiche adoperano nei confronti del consumatore finale. In quest’incertezza, in questo clima di domande eluse o cui si risponde tramite giri diplomatici di parole e quasi mai con un no diretto, il consumatore cammina su pezzi di vetro. Certo, c’è chi si chiede cosa stia mettendo nel proprio cestino e chi ficca ad occhi chiusi nel proprio carrello quello che trova sugli scaffali, e sono due modi di vivere entrambi validissimi, ma io che passo le ore davanti ai vasetti delle creme spesso perdo un sacco di tempo perché non ho indicazioni e non sempre posso inviare e-mail alle case cosmetiche ed avere risposte immediate. Quindi? Che faccio?
La risposta è, purtroppo: un atto di fede. Puro e semplice. Si tratta di fidarsi delle case cosmetiche, e, soprattutto, di quanto siamo abituati ad essere assolti dai nostri peccati, per restare in metafora. Fare chiarezza non è impossibile, perché la legge parla chiaro: è ottenere chiarezza dalle azienda, che sgusciano come pesci unti in padelle imburrate, il difficile. Quindi, cosa possiamo fare oltre all’atto di fede di cui sopra?
Purtroppo niente. Effettuare, magari, un preventivo giro di e-mail indirizzando la domanda in modo chiaro e semplice (“Effettuate test sugfli animali?”) e giudicando le aziende anche in base alla risposta che forniscono, perché la qualità e la cura di un’azienda si vedono anche e soprattutto in quanto investe nel settore comunicazione. E poi, come diceva qualcuno, abbiate fede. Ma il problma resta: se uno la fede non ce l’ha non è che può darsela da solo, no?



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