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Attraverso la tela. Marco Bellini

Creato il 07 ottobre 2010 da Fabry2010

Attraverso la tela. Marco Bellini

di Nadia Agustoni

Leggendo la poesia di Marco Bellini si ha l’impressione che l’impegno che richiede seguirne il dettato sia dovuto ad un “cadere” verticale, un cedere alla profondità della parola. Questa breve raccolta Attraverso la tela Edizioni La Vita Felice 2010, con prefazione di Gabriella Fantato e postfazione di Piero Marelli, si apre con un intenso poemetto “…Della linea” in cui si riflette un dire che partendo dalle cose sembra ricordarci con Hofmannsthal che la profondità è nascosta proprio alla superficie. “Credevo di non poterla accettare/ quella linea tesa, annodata all’orizzonte/ e allora ho chiesto di uscire dal tempo/ […] per avere tutte le età […]”, e non inganni quell’uscire dal tempo perché Marco Bellini non ha tentazioni di fuga dalla storia e dall’epoca, ma piuttosto risponde a un andare oltre, tanto più nei momenti legati al quotidiano e a quella linea tesa iniziale, che se segna un confine, restituisce anche una misura. Piero Marelli parla, non a caso, di “una parola calma” (1), ma calma è tra virgolette per evidenziare che se la poesia di Bellini è lontana dal gridato, tuttavia non ha timore di darsi e dirsi a partire da un’infanzia ripercorsa quasi nei gesti oltre che nei giorni: giorni vicini a un ritmo che porta con sé vecchie campagne, ricordi, abitudini e uno sguardo che non perde nulla del mondo. Si interroga Bellini sul lasciare “ le domande al cancello” , ma di queste domande c’è l’eco nelle sue poesie, come fossero tracce nell’erba, quasi già coperte, ma non tanto da non intuire il percorso. E’ qualcosa di segreto il suo mondo, anche raccontato, perché è lasciato come tra parentesi tutto ciò che eccede ed è significato al di là della descrizione: “Rimane difficile trovare/ poche righe in cui ci siano/ quasi tutte le parole/ quelle che pesano e sanno stare vicine, formando/ con il fango il vaso sul davanzale/ e con i nomi/ un senso che gli cresca dentro/ fino a ricordare che tutto non può essere/ che tra parentesi/ se cambiato in parole che non sono/ ma soltanto dicono.”/ I ricordi e gli anni germinano da un’agenda e le cose e gli stessi nomi degli uccelli sono accostati a quello che è stato un solo momento, ma teso fino a colpire la memoria e a rifarsi tempo in un presente di schegge che sono somma dell’angoscia perché: “ Al telegiornale: “le piogge bruciano i boschi”/. Parola riflessiva quindi, che scava partendo da cose semplici, siano un “fiocco azzurro nel marmo” o “ il becchime per il giorno”, ma questa parola subito si sofferma dolorosamente in domande ed è con un dolore pacato e nella densità del dire che ci raggiunge, quando nella poesia “ Attraverso la tela” (per Artemisia Gentileschi), Marco Bellini scrive: “ Nel gioco dell’osmosi lì dove sei/ avrai trovato l’acqua per un bicchiere?”/
E ancora Hofmannsthal, da “Il libro degli amici”, ci soccorre: “ Chi afferra la massima irrealtà plasmerà la massima realtà” (2), e più volte nella poesia di Bellini si trovano tracce in tal senso. Il suo mondo – nel risalire dal passato – sembra a tutta prima solido, ma la lettura ci porta su un piano meno sicuro, che se non rovescia l’aforisma hofmannsthaliano, è perché alla precarietà dei giorni e delle parole fa certezza qualcosa di meno tangibile, ma di reale, che ci arriva con sensibilità priva di sentimentalismo: “ Non ci sono luci da lasciare accese/ ma una richiesta ( o forse una preghiera?/ a questo non ho risposta)/ che il buio sappia essere una cornice buona/ per i tuoi anni/chiusi in un riposo d’erba”/.
Non è consolazione quella che Marco Bellini ci propone, ma il senso di una presenza, che se non è nuova, ci può rendere nuovi nel nostro accogliere parole e tempo, nel nostro camminare tra umanissime tempeste, ma guardando avanti: senza il rifiuto del mondo e delle cose del mondo.

Note

1 – Piero Marelli; Marco Bellini. Attraverso la tela, postfazione; pag. 39. edizioni La Vita Felice 2010

2 – Hugo Von Hofmannsthal, Il libro degli amici, pag. 48, Adelphi 1996

…DAL BICCHIERE BUCATO

Sopra la strada il calore scarabocchia l’aria
che ci ospita dentro e attorno
i cornicioni delle case nascondono le stanze
che ci sputano fuori
dalle attese nell’ombra, lasciate
a chi del posto
ha indossato i pantaloni corti.
Al margine dei passi un bar
dove si vendono angoli
e l’aria in un bicchiere bucato.
L’aria che ha tutte queste forme
capaci di confondere le mani
e il fiutare dei polpastrelli.
E’ tutto così difficile da confermare
le ossa dentro il corpo anche domani
e sul crinale la terra
aggrappata al profilo della collina.
E allora, dentro quest’ aria
che non possiamo rincorrere ma soltanto incontrare
servono i nomi, non si può senza i nomi
tengono a posto le cose, le fermano nelle parole
per non dissolvere, per non dissolverci e accompagnano
dentro la mappa, profonda negli anni
dove il braccialetto con il primo latte
il cartellino legato all’alluce (nessuna corsa nella carne)
parlano il labirinto assegnato.

- E’ il nome che fa stare dentro l’aria
il vaso sul davanzale?-

Fosse facile come un cartello stradale, sul palo
il peso di una risposta senza esitazioni.
E allora uno zaino, gli scarponi, salire in alto
dove anche l’acqua è di pietra
e l’aria corre sul vento, salire
per ascoltare dove sentire è possibile
e poi riconoscere le cose
dove le cose sono, ancora distanti
ma disposte nella loro forma chiara
lavate nello spazio freddo, dove
il silenzio rende difficili le bugie.
Fino a sera. Te ne accorgi a sera
dal rumore che fa il buio
quando si riprende tutto
e ti chiude lo sguardo
sul cucchiaino dentro il caffè
che resta solo
poco fango sugli scarponi, lento
a trovare riposo
tra le ciabatte nell’ingresso.
Lo stesso fango che resta
graffiato sui muri:

Questo non può avere
le croste alle ginocchia e gli spigoli della fame
ma talvolta un telaio d’ossa
e la polvere dei vestiti lo invadono
ed è allora che si alza
- bosco di pietra –
in tutto il nostro andare.

Rimane difficile trovare
poche righe in cui siano
quasi tutte le parole
quelle che pesano e sanno stare vicine, formando
con il fango il vaso sul davanzale
e con i nomi
un senso che gli cresca dentro
fino a ricordare che tutto non può essere
che tra parentesi
se cambiato in parole che non sono
ma soltanto dicono.
L’intero scrivere tra due solide parentesi
mentre fuori le cose stanno, muovono
la sostanza dell’agire e dentro
un cantastorie racconta la sua voce, misura
il suono nudo del dire.



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