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Aurelio Bruno: quando la mafia incendiò l’Ucciardone

Creato il 31 ottobre 2012 da Casarrubea
Il vecchio carcere borbonico dell'Ucciardone a Palermo

Il vecchio carcere borbonico dell’Ucciardone a Palermo

Campeggia su una parete della sua stanzetta, assieme a un’infinità di altre cose, medicinali, carte, giornale, schede, libri e mobili d’epoca, un articolo incorniciato di Ruggero Farkas che una volta ebbe pure l’idea di andargli a fare visita e di intervistarlo. Lo definì “l’ultimo cronista a piedi” e, per farci capire con chi avevamo a che fare, ce lo raffigurò in una pagina de “l’Unità” del 26 novembre 1995, accanto al capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, assassinato nel 1979 da Leoluca Bacarella con sette colpi di pistola alle spalle.

Naturalmente Aurelio Bruno, cronista di nera nella Palermo del ‘900 dominata dalla mafia, non aveva nulla in comune con quell’uomo baffuto non tollerato dalle cosche di allora. Volava a un altro livello rispetto ai mestieranti del suo tempo ma, come quello sbirro un po’ troppo curioso, la voleva sapere tutta su ciò che si decideva nelle aule dei tribunali e anche su quello che, senza avere il beneficio delle sentenze, restava nella cronistoria sconosciuto. In quel mondo ipogeo qual era allora tutta la città di Palermo, con il suo enclave provinciale e paesano attorno.

Giornalista all’antica Bruno è la memoria vivente della cronaca palermitana, interprete dei suoi simboli e delle sue cadenze, della sua gestualità carica di segni e di fatti comunicativi. Le sue strade erano i corridoi dei tribunali, gli uffici di polizia giudiziaria che spesso si rivolgevano a lui per avere le ultime informazioni. Non guidava la macchina, circolava sempre a piedi, arrivando per primo sul posto del delitto, come Sherlock Holmes, il famoso detective creato dall’immaginazione di Sir Arthur Conan Doyle.

L’uso delle gambe non lo scoraggiò mai e così, finito il suo giro di routine tra uffici giudiziari, aule di tribunali, spediva le sue notizie nelle tradizionali buste “fuori sacco”, affidandole agli amici delle corriere e dei treni con i quali i quotidiani stabilivano particolari collaborazioni.

Trascorse la vita dentro le aule dei tribunali, a contatto con giudici e criminali, avvocati difensori e avvocati della difesa, questori e uffici di polizia con i quali ebbe una certa familiarità in quanto il padre era un ufficiale della questura.

Nella sua carriera, iniziata nel 1940, con alcuni articoli scritti per il “Giornale di Sicilia”, lavorò per oltre cinquat’anni, prestando servizio anche per la Rai. Ha collaborato con il Mattino di Napoli negli anni ’60, e nel decennio successivo con Il Telegrafo della stessa capitale campana. Ma è stato anche redattore de “Il Giornale d’Italia”, e negli anni ’70 de “Il Mattino d’Italia”, diretto da Girolamo Bellavista. Dal 1967 al 2003 corrispondente de “La Sicilia” di Catania. Quando giunse il momento di andare in pensione dovette sudare sette camicie per avere riconosciuti i suoi diritti. E solo dopo una lunga vertenza aperta contro la Rai riuscì ad ottenerli.

Oggi vive isolato e dimenticato da tutti, alle prese con i suoi acciacchi nella sua casa di Palermo di via Massimo D’Azeglio, nei pressi di piazza don Bosco e della pasticceria Alba. Vi si reca quando può. Va a prendere una boccata d’aria, accompagnato dalla sua badante. Si siede in una delle panchine e legge il giornale.

Non è cambiato per nulla. Incontrare qualcuno gli apre nella mente un’infinità di ricordi. Una scheda ritrovata, un nome scritto in un pezzetto di carta, una piazza o una via gli rievocano fatti e misfatti della Palermo del secondo Novecento, anzi dagli anni della guerra.

Un appunto casualmente rintracciato in un cassetto. C’è scritta una data e un nome. La data è il 28 maggio 1959, il nome l’Ucciardone. E il cronista sbotta a parlare. C’era il fior fiore dei criminali di mezza Sicilia in quell’anno all’Ucciardone. Remo Corrao mafioso di Monreale, alcuni anni dopo morto sparato, Giuseppe Genovese e Salvatore Lombardo, parente per parte di madre del bandito Giuliano. Allora morì ammazzato, per un colpo di arma da fuoco sparato dalla polizia, Salvatore Tinnirello. L’incendio dell’Ucciardone. E quante volte era stato bruciato l’antico carcere borbonico?

E giù l’elenco di tutti i rivoltosi. Una trentina. Aurelio li legge da una scheda intestata a Zappia Agostino imputato per la rivolta e condannato a quattro anni e tre mesi di reclusione dalla Corte di Appello di Lecce. Seguono Vincenzo Teraca e tutti gli altri. E per ognuno di loro traccia un breve curriculum criminale. Non gli sto dietro con la testa. Mi devo riorientare in questa mappa criminale che è Palermo in quel tempo.

Se non fosse per l’età e per la difficoltà che ha nello scrivere, questo decano dei giornalisti siciliani, che a novantacinque anni tiene banco ai più scaltriti giornalisti della carta stampata, potrebbe scrivere la storia criminale dei siciliani. Ma già l’ha fatto raccogliendo molte notizie divenute ormai nella testa di quest’uomo, la memoria lucida e folle di un passato che è ancora tragicamente e pirandellianamente attuale.

Giuseppe Casarrubea


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