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Avere vent’anni: HYPOCRISY – Abducted

Creato il 28 febbraio 2016 da Cicciorusso

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Charles: Sono sicuro che per molti gli Hypocrisy siano quelli degli esordi o quelli di The Fourth Dimension, e posso comprenderlo benissimo ma, per quanto mi riguarda, i meriti che consegneranno all’immortalità le persone di Tägtgren, Hedlund e Szöke stanno tutti qui. Non voglio sminuire quanto fatto prima o dopo di esso, anche perché Abducted si posiziona in mezzo a due bombe H e tutt’ora gli svedesi producono dischi che reputo ancora ottimi, come in generale penso che non ne abbiano mai veramente toppato uno. Ma Abducted rappresenta, oltre a un momento di svolta stilistica ben preciso, anche qualcosa che va ben al di là della mera evoluzione musicale di uno dei tanti buoni, ottimi, gruppi di death metal.

Questo è un caso a parte: è il disco definitivo, quello che mandi giù a ruota senza stancarti mai e che ogni volta, ancora oggi, dopo vent’anni di reiterati ascolti, ti mostra dettagli nuovi e ti coinvolge nello stesso, identico, diretto e maledetto modo della prima volta in assoluto; è vivo, è il Golem musicale che prende forma e ti circonda il collo con le sue mani fino a spezzartelo; è autopoietico, crea e disvela ogni volta la sua dimensione e la sua alienante e personalissima cifra; è l’album in cui il tema di base dei testi si fonde finalmente col suono più adeguato ad esso e con un’articolazione dei brani assolutamente sui generis, con le distorsioni e le cacofonie, la voce strozzata, disumana che alterna urla altissime e straccia timpani a discese negli inferi del gutturale mostruoso e più profondo, dove la paranoia, l’angoscia dell’ignoto, la violenza, il lavaggio del cervello e lo stupro della mente, la paura, prevalgono sopra ogni altra possibile sensazione. Con le tre note cupe e pesantissime di Roswell 47 ti ritrovi immerso in un campo gravitazionale denso ed oppressivo, una distorsione spaziotemporale, un buco nero da cui non si esce. Adbucted è la perfetta summa di tutto ciò ed è l’album perfetto degli Hypocrisy. In quanto a tenuta del tempo lo posso paragonare solo a Slaughter of the Soul. È uno dei dieci dischi della vita e siano maledetti tutti quelli che non capiscono di che cazzo stiamo parlando qui e adesso.

Ciccio Russo: Abducted è il classico capolavoro talmente immane da pregiudicare inevitabilmente la percezione di qualsiasi cosa sarebbe venuta dopo. Oddio, non che gli Hypocrisy abbiano mai inciso un ellepì men che decente. Tuttavia già il successivo The Final Chapter – il quale, sulla carta, avrebbe dovuto essere l’ultimo sigillo della band di Tägtgren (che all’epoca giurava che si sarebbe concentrato d’ora in poi solo sul progetto elettronico Pain e sui suoi Abyss Studios) – mi deluse per il solo fatto di seguire un monumento consimile. Quasi viene da interpretare due lavori come gli ancora successivi, fra loro diversissimi, Hypocrisy e The Abyss come il tentativo di rimandare il più possibile un nuovo confronto con una pietra di paragone tanto pesante, pur non facendo altro che isolarne e approfondirne alcuni elementi.

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Abducted spiazzò e avvinse tutti per la sua capacità di inchiodare l’ascoltatore pur privandolo di ogni riferimento e sicurezza. L’incredibile varietà di registri (ci volevano le palle a piazzare in chiusura tre pezzi psichedelici e soffusi apparentemente scollegati dal resto del disco) riesce nondimeno a costruire un discorso sonoro dalla coerenza e unitarietà impressionanti. All’epoca mandò in crisi tutti i recensori e ancora oggi è difficilissimo anche solo capire da dove iniziare a parlarne. Lo stesso legame con gli stilemi del death svedese è, a ben vedere, più teorico che concreto, cosa che non si può certo affermare a proposito di formazioni conterranee altrettanto di rottura come gli At The Gates o gli Edge Of Sanity. La componente maideniana mutuata dagli Autopsy che è alla base di tutto il filone non era mai stata così secondaria. Certo, si sentono parecchio i Carcass di Heartwork (l’attacco di Roswell 47 continua a ricordarmi Buried Dreams una volta sì e una no), forse l’unica influenza davvero diretta. Si sente – e si sentirà ancora di più nei lavori successivi – il black metal norvegese. Io continuo a sentirci pure certo thrash sperimentale e destrutturato alla Coroner ma magari sono matto io. Sono comunque riferimenti che restano quasi sullo sfondo; poche volte il giochino dei paragoni tanto caro a noi scribacchini si era rivelato così futile. Non so, provate a descrivere a qualcuno una canzone come Paradox.

Condivido quanto scritto da Charles poco sopra: dei dischi di quell’ondata solo Slaughter of the Soul è invecchiato altrettanto bene. Slaughter of the Soul è però un disco che procedeva per sottrazione, è il Reign In Blood degli anni ’90, fissò dei canoni che poi verranno reiterati alla nausea da centinaia di mediocri gregari in quanto facilmente riproducibili. Gli Hypocrisy, invece, non hanno mai avuto veri imitatori, salvo loro stessi. Virus o l’ultimo End of Disclosure potranno pure essere professionali ricicli di  vecchie idee ma, per l’appunto, non sono accostabili a nient’altro che non siano gli Hypocrisy stessi. E questo lo si può dire davvero di pochissime band. L’elaborazione di una formula così raffinata e personale va collegata inevitabilmente all’attività di produttore di Tägtgren, e non solo per un’attenzione al dettaglio che un musicista con scarse nozioni in materia difficilmente può avere. Prendete Killing Art, forse il brano più aggressivo e d’impatto. I riff sono piuttosto semplici, la struttura è ben congegnata ma lineare. A fare la differenza è come suona. A essere originali sono anche le scelte produttive di un piccolo demiurgo che a un certo punto finì per imporre a mezza Svezia un sound che era stato concepito ad hoc per il suo gruppo. Il paradosso è che molte band che sarebbero passate per gli Abyss avrebbero finito per somigliarsi tra loro ma mai per somigliare agli Hypocrisy. Nessuno ha mai suonato come gli Hypocrisy, per le stesse ragioni per le quali – con tutti i distinguo di questo mondo, nessuno ha mai suonato come i Voivod. Perché è di extraterrestri che stiamo parlando qua. E, a prescindere dall’immaginario fantascientifico/cospirazionista, Tägtgren un alieno lo era sul serio.



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