Magazine Diario personale

Avrei ricordato tutto quello che avevo visto

Da Matteotelara

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Sono passati quasi venticinque anni dal giorno in cui la moglie di Jerzy Kosinski lo trovò nella vasca da bagno del loro appartamento di Manhattan col capo chiuso in un sacchetto di plastica.
Lo scrittore polacco naturalizzato statunitense era saltato agli onori della cronaca letteraria nel 1966 con The Painted Bird (L’uccello dipinto, 1967) il libro che lo avrebbe reso famoso nel mondo fino a fargli valere il National Book Award nel 1969.
Da quel momento in poi Kosinski fu indicato come uno dei più promettenti scrittori americani del dopoguerra e due dei suoi libri successivi, Steps (Passi, 1969) e Being There (Presenze 1973) divennero dei veri e propri classici (da Being There venne anche tratto un film di grande successo con Peter Sellers): l’autore comparve spesso in televisione, partecipando anche a The Tonight Show di Johnny Carson, recitò nel film Reds di Warren Beatty, presentò un Oscar per la miglior sceneggiatura e venne più volte messo sulla copertina del New York Times Magazine.
Ma la sua reputazione di grande romanziere non riuscì a sopravvivere al progressivo deteriorarsi della sua scrittura e agli scandali che lo travolsero durante gli anni ottanta. Il primo colpo arrivò con le rivelazioni apparse nel giugno del 1982 sul tabloid newyorkese Village Voice secondo le quali Kosinski – per il quale l’inglese era comunque una seconda lingua – si sarebbe servito di numerosi collaboratori e traduttori nella stesura dei suoi romanzi e avrebbe addirittura copiato alcune delle sue trame (in particolare quella di Being There) da opere pre-esistenti sconosciute a un pubblico di lingua inglese.
Le accuse del Village Voice, insieme allo scarso successo dei lavori successivi (la qualità dei suoi scritti andò senza dubbio peggiorando) segnarono profondamente il resto della vita di Kosinski fino al giorno della sua morte.
Già nel 1976, nell’Introduzione all’edizione in lingua inglese di The Painted Bird, l’autore si era dovuto difendere dai numerosi attacchi che gli erano stati via via rivolti, molti dei quali imperniati sul presunto fondo autobiografico del suo primo romanzo. Autobiografia o meno (in realtà la sua infanzia fu ben diversa da quella del piccolo protagonista di The Painted Bird) il romanzo di Kosinski resta un piccolo capolavoro i cui pregi superano di gran lunga le critiche di cui venne fatto oggetto (critiche in realtà rivolte più allo scrittore che all’opera) e che non merita di rimanere abbandonato per altri vent’anni nel dimenticatoio della Storia: sebbene sia stato provato che l’autore si servì di collaboratori e traduttori (pratica tra l’altro oggi ampiamente usata, tanto da essere divenuta una vera e propria professione, vd ghost writer) e malgrado oggi molti considerino Kosinski una sorta d’impostore che riuscì a farsi passare per qualcosa che in realtà non era (uno scrittore di talento) The Painted Bird resta un’opera capace di coniugare il racconto di una storia di fiction con la crudeltà di un momento storico e delle bassezze umane che lo caratterizzarono e continua ad avere pochi uguali nella storia della letteratura moderna (americana in particolare).
La vicenda si svolge nell’Europa dell’Est, ed è quella di un bambino d’estrazione borghese e di origini ebree inviato dai propri genitori lontano dalla città in cui vivono, nel tentativo di venire sottratto agli orrori dell’avanzata nazista: la morte improvvisa della persona alla quale era stato affidato darà il via a una serie infinita di fughe e peregrinazioni durante le quali il piccolo protagonista vagherà di villaggio in villaggio e sarà venduto e ricomprato più volte divenendo a sua volta vittima e testimone di abusi, violenze, assassini, crudeltà e stupri perpetrati con sorprendente naturalezza da un’umanità superstiziosa e bigotta.
L’opera di Kosinski, al di là dell’ambientazione storica e delle critiche che gli furono rivolte, appare fin dalle sue prime pagine come una sorta di grande parabola sulla crudeltà umana e sulla follia della Guerra, e si mostra di grande attualità in anni come questi caratterizzati dall’inasprimento dei conflitti in Medio Oriente e dal rinascere di scontri etnico-politici nei Paesi dell’Europa dell’Est. In alcuni dei capitoli del romanzo (in particolare il 15°, dove gruppi irregolari al seguito delle truppe tedesche danno libero sfogo ai loro istinti animaleschi) la descrizione delle violenze e degli stupri è resa con una tale vividezza d’immagini da rendere difficile il proseguo della lettura. Sono passati più di settant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ma non sembra che molto sia cambiato: a quante violenze continuano a essere esposti i bambini che vivono nelle zone di guerra? Quanti villaggi sono preda di razzie, stupri, conversioni forzate e pulizia etnica?
Di The Painted Bird riporto qui di seguito il capitolo 4° (la traduzione è mia, spero sia all’altezza) incentrato più su una violenza domestica che sulla guerra in sé. La bravura di Kosinski – o di chi per lui – nel coniugare registro narrativo, ambientazione storica e resa brutale dei contenuti raggiungono in queste pagine un livello di delicato equilibrio: da una parte l’orrore che si prova di fronte a ciò di cui si è appena stati testimoni, dall’altra il sentimento d’umana pietà che ne scaturisce.

Buona lettura.

Vivevo adesso dal mugnaio, che gli abitanti del villaggio avevano soprannominato “Il Geloso”. Era ancora più taciturno di quanto usasse nella zona. Anche quando i vicini venivano a fargli visita se ne restava per tutto il tempo seduto a dare occasionali sorsi di vodka e a biascicare una parola ogni tanto, perso nei suoi pensieri o con lo sguardo fisso sui resti di qualche mosca appiccicata al muro.
Abbandonava le sue fantasticherie solo nel momento in cui la moglie compariva nella stanza. A sua volta silenziosa e riservata, la donna si sedeva sempre alle spalle del marito e abbassava lo sguardo con umiltà ogni volta che un uomo entrava nella stanza e le lanciava un’occhiata furtiva.
Io dormivo nel sottotetto direttamente sopra alla loro camera e di notte venivo svegliato dalle loro liti. Il mugnaio accusava la moglie di flirtare con altri uomini e di mostrare il suo corpo in maniera lasciva alla presenza di un giovane bracciante che lavorava nei campi e al mulino. Invece di negare, la moglie restava seduta senza reagire, immobile e silenziosa. Alle volte il litigio non finiva. Il mugnaio, fuori di sé, accendeva alcune candele nella stanza e dopo essersi messo gli stivali picchiava la donna. Mi accucciavo su una fenditura del pavimento e guardavo il mugnaio colpire il corpo nudo della moglie con un frustino da cavallo. La donna si rannicchiava sotto una coperta sottratta al letto, ma il marito la tirava via, la gettava lontano sul pavimento e restava in piedi a gambe bene aperte sopra di lei a continuare a batterle il corpo paffuto con la frusta. Dopo ogni colpo, linee rosse rigonfie di sangue comparivano sulla pelle delicata della donna.
Il mugnaio non aveva pietà. Con un movimento ampio e circolare del braccio batteva le natiche e le cosce della moglie in maniera tale che la frusta le avvolgesse ad ogni colpo, squarciandole i seni e il collo e flagellandole le spalle e le tibie. La donna s’indeboliva sempre più e restava sdraiata a piagnucolare come un cucciolo. Poi strisciava fino a raggiungere le gambe del marito e lo pregava di avere pietà.
Il mugnaio allora abbassava la frusta e dopo aver spento le candele andava a letto. La donna invece rimaneva a gemere, e il giorno seguente, dopo essersi coperta le ferite, si muoveva con difficoltà asciugandosi le lacrime coi palmi tagliati e lividi delle mani.
C’era anche qualcun altro che abitava con noi nella baracca: era una gatta pasciuta e tigrata che un giorno cadde preda di una sorta di follia. Invece di miagolare cominciò a emettere gemiti semisoffocati e a scivolare lungo i muri sinuosa come un serpente, ondeggiando sui suoi fianchi palpitanti e artigliando la gonna della moglie del mugnaio. Ringhiava in maniera strana e gemeva, e le sue grida rauche rendevano tutti irrequieti: all’alba miagolava come fuori di sé sbattendo la coda sui fianchi e spingendo il naso in avanti.
Il mugnaio rinchiuse l’animale fuori controllo nello scantinato e disse alla moglie che sarebbe tornato per cena insieme al giovane bracciante. La donna, senza dire una parola, cominciò a preparare il cibo e la tavola.
Il giovane bracciante era un orfano ed era alla sua prima stagione di lavoro nella fattoria del mugnaio: era un giovanotto alto e tranquillo, con dei capelli chiari che spingeva sempre indietro per rimuoverli dalle sopraciglia sudate. Il mugnaio sapeva che gli abitanti del villaggio spettegolavano sul conto della moglie e del bracciante: si diceva che la donna cambiasse ogni volta che fissava il giovane negli occhi azzurri e che d’istinto e senza curarsi d’essere vista dal marito si tirasse la gonna sopra le ginocchia con una mano mentre con l’altra spingeva in giù il corpetto in modo da mostrare il seno. E il tutto senza smettere di fissare il ragazzo negli occhi.
Il mugnaio tornò a casa insieme al giovane portandosi sulle spalle un sacco al cui interno aveva messo un gatto maschio preso in prestito da un vicino. Il gatto aveva una testa grande come una rapa e una coda lunga e robusta. La gatta intanto stava ululando con desiderio nella cantina e quando il mugnaio la liberò raggiunse con un balzo il centro della stanza. I due animali cominciarono a girare l’uno intorno all’altra con diffidenza, ansimando e facendosi sempre più vicini.
La moglie del mugnaio servì la zuppa e cominciarono a mangiare in silenzio. Il mugnaio sedeva a metà tavolo, con la moglie su un lato e il ragazzo sull’altro. Io consumavo la mia parte rannicchiato vicino al forno. Ammiravo l’appetito dei due uomini: pezzi enormi di carne e pane, buttati giù con l’ausilio di grandi sorsi di vodka, scomparivano nelle loro gole come noccioline.
La donna era l’unica che masticava il cibo con lentezza. Ogni volta che abbassava la testa sulla scodella il ragazzo lanciava un’occhiata più veloce di un fulmine verso il suo corpetto rigonfio.
Intanto, al centro della stanza, la gatta inarcò improvvisamente il corpo e dopo aver mostrato i denti e gli artigli balzò sul maschio. Quello si fermò, allungò la schiena e sputacchiò della saliva direttamente negli occhi arrossati della femmina, che gli si mosse attorno e fece un’altro balzo verso di lui per poi indietreggiare e colpirlo sulla bocca. Adesso il maschio la braccava con prudenza, annusandone l’odore inebriante: arcuò la coda e provò a sorprenderla da dietro. Ma la femmina non glielo premise. Appiattì il corpo sul pavimento e si rigirò come una macina, colpendo il naso del maschio con le zampe distese e irrigidite.
Affascinati, il mugnaio e gli altri due fissavano in silenzio la scena mentre mangiavano. La donna sedeva col volto accaldato, anche il collo le si stava arrossendo. Il giovane aveva sollevato gli occhi solo per riabbassarli subito dopo: il sudore gli scorreva lungo i capelli corti e lui continuava a spostarli dalle sopraciglia bagnate. Solo il mugnaio sedeva calmo a mangiare, osservando i gatti e mandando casuali occhiate alla moglie e all’ospite.
Improvvisamente il maschio sembrò aver preso una decisione: i suoi movimenti divennero più leggeri, avanzò. La gatta si mosse quasi in maniera giocosa come per ritirarsi, ma lui saltò bene in alto e le ripiombò addosso con tutte e quattro le zampe, le affondò i denti nel collo e minuziosamente e con fare concentrato la penetrò senza dimenarsi. Poi, una volta soddisfatto ed esausto, si rilassò. La gatta, schiacciata sul pavimento, lasciò uscire uno strillo e balzò via da sotto al maschio: saltò sul forno raffreddato e ci si rotolò sopra come un pesce, rigirandosi le zampe intorno al collo e strofinando la testa contro i bordi intiepiditi delle pareti.
La moglie del mugnaio e il giovane bracciante smisero di mangiare e si fissarono l’un l’altro con le bocche ancora piene di cibo. La donna respirava affannosamente: si mise le mani sotto i seni e, chiaramente senza accorgersene, li compresse. Il giovane ondeggiò con lo sguardo tra lei e i gatti e dopo essersi passato la lingua sulle labbra asciutte tornò con una certa difficoltà a piegarsi sul cibo.
Il mugnaio ingoiò quel che restava della sua cena, piegò la testa all’indietro e mandò giù d’un colpo un bicchiere di vodka. Sebbene ubriaco si alzò, afferrò il suo cucchiaio di metallo e facendolo tamburellare cominciò ad avvicinarsi al ragazzo. Il giovane sedeva confuso. La donna si tirò su la gonna e si mise a lavorare al fuoco.
Il mugnaio si piegò sul ragazzo e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio arrossato. Il giovane saltò su come se punto da un coltello e cominciò a negare. Il mugnaio chiese, questa volta a voce alta, se il bracciante stesse cercando di portarsi a letto sua moglie. Il ragazzo arrossì ma non rispose. La moglie del mugnaio si allontanò e continuò a pulire le pentole.
Il mugnaio allora indicò il gatto maschio che camminava lì attorno e sussurrò nuovamente qualcosa all’orecchio del ragazzo. A questo punto il giovane tentò di alzarsi dal tavolo con l’intenzione di lasciare la stanza ma il mugnaio rovesciò lo sgabello, gli si fece sotto e prima ancora che il giovane se ne potesse accorgere lo spinse contro il muro, gli premette un braccio sulla gola e gli conficcò un ginocchio nello stomaco. Il ragazzo non poteva più muoversi. Terrorizzato, provò a balbettare qualcosa ansimando con veemenza.
La donna si precipitò verso il marito implorandolo e piangendo; la gatta, tornata in sé, guardava dall’alto del forno la scena, mentre il gatto maschio balzava spaventato sul tavolo.
Il mugnaio si liberò della moglie con un semplice calcio. Poi, con un rapido movimento simile a quello delle donne quando estraggono il marcio dalle patate che le pelano, affondò il cucchiaio in un occhio del ragazzo e ce lo rigirò dentro.
Il bulbo saltò fuori dalla faccia del giovane come il tuorlo da un uovo rotto e rotolò sulla mano del mugnaio fino a raggiungere il pavimento. Il ragazzo lanciava strilli disperati, ma la presa del mugnaio continuava a tenerlo inchiodato al muro. Poi il cucchiaio insanguinato affondò nell’altro occhio, che saltò fuori ancor più velocemente del primo. Per un momento il bulbo rimase sulla guancia del ragazzo, come incerto sul da farsi, poi, subito dopo, gli rotolò sulla camicia e cadde per terra.
Successe tutto in un istante. Non riuscivo a credere a quello che avevo appena visto. Qualcosa come un barlume di speranza che gli occhi cavati potessero essere rimessi nel posto da cui provenivano attraversò la mia mente. La moglie del mugnaio stava ancora gridando fuori di sé: corse nella stanza attigua e svegliò i bambini, che cominciarono a loro volta a piangere in preda al terrore. Il ragazzo dapprima continuò a gridare, poi si fece progressivamente silenzioso coprendosi il volto con le mani: rivoli di sangue gli filtravano dalle dita e scivolavano lungo le braccia gocciolandogli piano piano sulla camicia e sui pantaloni.
Il mugnaio, ancora fuori di sé, lo spinse verso la finestra come ignaro del fatto che non potesse vedere e il ragazzo inciampò, urlò e per poco non finì a sbattere contro il tavolo. Il mugnaio allora lo prese per le spalle e dopo aver aperto la porta con un calcio lo scaraventò fuori. Il ragazzo urlò nuovamente, incespicò e cadde nel cortile. I cani, sebbene all’oscuro di cosa stesse accadendo, cominciarono ad abbaiare.
I bulbi del ragazzo giacevano sul pavimento. Camminai intorno a loro osservandone l’espressione fissa. I gatti si mossero timidamente verso il centro della stanza e cominciarono a giocare con gli occhi come se fossero piccoli gomitoli. Le loro stesse pupille si rimpicciolivano per proteggersi dalla luce della lampada a olio. Fecero rotolare le palle degli occhi per un po’, le annusarono, le leccarono e se le passarono con gentilezza usando le zampette morbide. Adesso sembrava che gli occhi mi stessero fissando da ogni angolo della stanza, quasi avessero acquisito una nuova vita e potessero muoversi per conto proprio.
Li guardavo affascinato. Se solo il mugnaio non fosse stato presente li avrei presi io stesso. Di certo potevano ancora vedere. Li avrei tenuti in tasca e li avrei tirati fuori solo in caso di bisogno, posizionandoli sopra i miei. Poi avrei visto due volte meglio, forse anche di più. O magari avrei potuto attaccarmeli dietro la testa e mi avrebbero trasmesso, non ero ancora sicuro come, quello che succedeva alle mie spalle. O meglio ancora avrei potuto lasciarli da qualche parte e dopo mi avrebbero detto cosa era successo durante la mia assenza.
Ma forse gli occhi non avevano nessuna intenzione di mettersi al servizio di qualcuno. Forse avrebbero potuto scappare con facilità via dai gatti e rotolare fuori dalla porta. Avrebbero potuto vagare nei campi, tra i laghi e i boschi, vedendo qualunque cosa intorno a sé, liberi come uccelli sfuggiti a una trappola. Non sarebbero più morti, dato che erano liberi, ed essendo piccoli si sarebbero potuti nascondere con facilità in molti luoghi e avrebbero potuto osservare la gente in segreto. Eccitato dall’idea, decisi di chiudere silenziosamente la porta e impadronirmene.
Il mugnaio, infastidito dal giocherellare dei gatti, allontanò le bestie con un calcio e schiacciò i bulbi sotto i suoi pesanti stivali. Qualcosa scoppiò sotto l’alta suola: uno specchio meraviglioso, che avrebbe potuto riflettere il mondo intero, era rotto. Sul pavimento rimase solo un po’ di gelatina spappolata. Sentii dentro di me un terribile senso di perdita.
Senza curarsi della mia presenza il mugnaio si sedette su una panca e oscillò lentamente mentre si addormentava. Io mi alzai con attenzione, sollevai dal pavimento il cucchiaio coperto di sangue e cominciai a radunare i piatti. Era mio compito tenere la stanza in ordine e il pavimento spazzato. Mentre pulivo mi mantenni a distanza dai resti spiaccicati degli occhi, incerto su cosa farne. Alla fine mi voltai dall’altra parte, e, di fretta e senza guardare, spazzai i grumi gelatinosi nella paletta e li gettai nel forno.
La mattina successiva mi svegliai presto. Sentivo sotto di me il mugnaio e la moglie che russavano. Preparai con attenzione un sacco con dentro del cibo, caricai la lampada da viaggio con della brace ancora calda e dopo aver corrotto con un pezzo di salsiccia il cane che stava in cortile fuggii dalla capanna.
Trovai il ragazzo sdraiato al muro del mulino, vicino al granaio. Dapprima pensai di superarlo il più velocemente possibile ma nel momento in cui realizzai che non poteva vedermi mi fermai. Era ancora sotto shock. Teneva il volto coperto dalle mani, piagnucolava e sospirava. Una crosta di sangue ricopriva la sua faccia, le mani e la camicia. Volevo dirgli qualcosa ma temevo che mi avrebbe chiesto dei suoi occhi e allora avrei dovuto dirgli di dimenticarsene, perché il mugnaio li aveva ridotti in poltiglia. Mi sentivo terribilmente dispiaciuto per lui.
Mi chiesi se la cecità privasse una persona anche del ricordo di quello che aveva visto prima. Se fosse stato così chi perdeva la vista non sarebbe più stato in grado di vedere neppure nei suoi sogni. In caso contrario, invece, se i ciechi potevano ancora vedere per mezzo della loro memoria, allora non era poi così male: il mondo sembrava essere più o meno la stessa cosa ovunque, e sebbene le persone differissero l’una dall’altra, come gli animali e gli alberi, ognuno poteva sapere piuttosto bene che aspetto avessero, avendoli visti per così tanti anni. Io avevo vissuto solo sette anni ma ricordavo già moltissime cose. Quando chiudevo gli occhi mi ritornavano alla memoria tantissimi dettagli ancora più vividi. Chi lo sa, magari senza occhi il ragazzo avrebbe cominciato a vedere un mondo completamente nuovo e più affascinante.
Sentii alcuni rumori provenire dal villaggio e temendo che il mugnaio potesse svegliarsi mi rimisi in cammino toccandomi di tanto in tanto gli occhi. Camminavo con più attenzione adesso, perché sapevo che i bulbi non avevano radici molto forti: quando si piegavano verso il basso pendevano come mele da un albero e potevano cadere con facilità. Decisi che avrei saltato oltre i recinti tenendo la testa sollevata verso l’alto, ma al mio primo tentativo inciampai e caddi. Allora sollevai le dita pieno di paura per controllare che i miei occhi fossero ancora al loro posto e dopo essermi accertato che potevano aprirsi e chiudersi come sempre notai con piacere le pernici e gli usignoli in cielo.
Volavano molto velocemente, ma il mio sguardo poteva seguirli e addirittura superarli mentre planavano sotto le nuvole divenendo piccoli come gocce di pioggia: feci a me stesso la promessa che avrei ricordato tutto quello che avevo visto e che se qualcuno mi avesse cavato gli occhi dalla faccia avrei mantenuto chiaro e vivo nella memoria, fino alla fine della mia vita, tutto quello di cui ero stato testimone.


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