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Back In Town. Mexico City Smog & Streets

Da Vfabris @FabrizioLorusso

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Da www.carmillaonline.com Messico, anno di grazia 2010. Siamo a cento anni dallo scoppio della Revolución e a 200 dall’inizio della guerra d’indipendenza vinta contro la Spagna decadente. Proprio quella Spagna che all’inizio dell’ottocento non poteva più permettersi di pensare all’America dorata e lontana e si trovava, invece, invasata, invasa e vagamente distratta dalle truppe napoleoniche dilaganti tra vigneti e mulini a vento. Insomma, c’è di che festeggiare per quest’anno. Non è che qui, in generale, manchino le occasioni, anzi, sappiamo che si segue scrupolosamente la regola della festa quotidiana di “non compleanno” per partecipare a sfide alcoliche improvvisate e ad assembramenti casalinghi incontrollabili e feroci.

Sono un sopravvissuto. Prima di tutto da me stesso, come tutti noi in fondo, anche se non lo sappiamo, e poi dalle strade, dalle gare di velocità e dallo smog patrio messicano, un fumo bizzarro generato da vetture ancestrali e inquietanti come i peseros (bus urbani) e i camiones (famigerati tir a doppio rimorchio modello TGV, cioè lunghi come il celebre treno francese): sono mostri grigioverdi, rosso bruni e arrugginiti di noia, con le scritte “Ford Boia” e “Mercedes ya se muriò” stampate in fronte, proprio sul radiatore, alla faccia loro.

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Le interminabili avenidas di Città del Messico, affollate ogni giorno da 5-6 milioni di auto libere e pericolanti, possono arrivare ad avere anche una decina di corsie per senso di marcia e fanno sembrare l’Autostrada del Sole una mulattiera provinciale ma non solo per la larghezza cui ho accennato. La ricerca nefasta della velocità, il tasso alcolico stimato del cittadino medio e il grado di competitività neoliberista superano di gran lunga i livelli italiani e danno vita a un sistema perverso di sopravvivenza veicolare che prende spunto dal modello darwinista: la fortuna, le potenzialità del mezzo di trasporto e la bravura del conducente mettono in atto una selezione della specie in un mercato perfetto del rischio che si dispiega lungo i 60 chilometri che si possono percorrere tranquillamente, o meglio, freneticamente, da un capo all’altro della città.

Devo dire che possiedo un veicolo sufficientemente adattabile alle situazioni più disparate e anche piuttosto pulito e distinto, come da foto, ma questo non serve. Si tratta di una moto piccola e agile, una Suzuki GN125 a 5 marce che ogni giorno raccoglie pazientemente l’adrenalina dall’asfalto per spararla fuori all’occorrenza, quando le sorelle maggiori marca Ducati e le jeep scintillanti dei fighetti chilangos (così sono chiamati gli abitanti della capitale) la fanno arrabbiare con le loro pretese di superiorità e con l’arrivismo yankee colato giù dal Rio Bravo.

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Delirio da inalazione tossica ripetuta? Sindrome da motociclista frustrato e frustato dal colpo della strega? Senza dubbio, ma anche un po’ di verità. Provare per credere. I tassisti e i choferes, veri e propri piloti professionisti dei minibus, tutti ex formula uno, sanno benissimo di cosa sto parlando, poveri incompresi. Siccome molti autobus sono di proprietà dei conducenti stessi o vengono a questi affittati da un magnaccio, ecco che si scatena una gara mortale per acchiappare più clienti possibile alle fermate ufficiali, pochissime a dir la verità, e all’angolo di qualunque strada ove pascolino persone in attesa.
C’è chi litiga con loro – parlo soprattutto dei tassinari a bordo dei vecchi maggioloni, cioè “gli irriducibili” – tutti i giorni e giustamente gli sputa dentro al finestrino e scappa via. Forse son maleducati tutti e due, ma non possiamo giudicare dall’esterno. “¡Por eso estamos como estamos!” (Per questo stiamo come stiamo!) è solita sentenziare la voce della saggezza popolare e del passante attento a questi casi d’inciviltà.

Comunque stiamo parlando di categorie soggette a stress cronico e al rischio di finire con una ruota in un tombino scoperchiato o in un buco apocalittico di 5 metri per 2 (e uno di profondità, un bel pozzo di petrolio abitato da scarafaggioni espressivi). Se così accade, perdono i guadagni del mese e le blatte sotterranee gli bucano la marmitta in cerca di monossido di carbonio allo stato solido.

Vale la stessa regola anche per i poliziotti che, in caso di sinistro, devono rimborsare di tasca loro i danni alle vetture in dotazione. Perciò le suddette categorie di utenti della strada possono arrivare a difendere le loro verità con le mani nude e incazzate e, all’occorrenza, con una chiave inglese Made in China, alzando ancor di più il livello adrenalinico e testosteronico nell’aria del vituperato Distretto Federale (D.F., noto anche come “Di-Fettoso”).

E’ anche per questo motivo che si respirano smog e tensione nonostante viviamo circondati da belle e invincibili montagne a 2400 metri sul livello del mare e quasi sempre splende il sole “dell’eterna primavera” messicana.
Alla fine, ad ogni modo, dopo i pestaggi da strada e le liti violente, paiono vincere la pace e la patria, basta una bandiera messicana esposta in bella vista a rasserenare gli animi in questi mesi di giubilo istituzionale e sentimentale. E poi non importa se si blocca il traffico e si sospende il gettonatissimo “servizio pubblico di trasporto collettivo” per comprare un po’ di frutta fresca e invitante (vedi foto del mega autobus fermo in seconda fila).

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Le oasi di calore umano e gentilezza nella selva cementifera della capitale sono le stazioni di servizio della compagnia petrolifera statale, la Pemex o Petròleos de Mèxico, in cui la broda puzzolente costa appena mezzo euro al litro e funziona. Pericolose macchie d’olio sparpagliate in agguato all’entrata di tutti i benzinai sono la regola e puniscono con uno scivolone anche i più sobri, esperti e devoti centauri.

La Pemex è tra le più grandi imprese al mondo ed è il simbolo della nazione e della sovranità messicana però è ormai sull’orlo del fallimento a causa dell’endemica mancanza di fatturato e di utili. Questi denari servirebbero a effettuare nuove e costose esplorazioni delle riserve nelle profondità oceaniche del Golfo del Messico e a regalare un futuro roseo di idrocarburi freschi alle prossime generazioni, ma forse anche no.
I soldi vengono invece prelevati di default ogni anno dal governo con la legge finanziaria che li destina ai capitoli di spesa più interessanti e creativi come gli interessi sul debito pubblico e l’armamento dell’esercito impegnato nella “guerra al narcotraffico”. Non si spendono solo così, evidentemente. Esistono ancora un’austera politica sociale, una timida istruzione pubblica, la ricerca scientifica e una sanità universale al 50%, ma direi che si sta seguendo anche qui l’esempio del “nuovo miracolo italiano” in tutti questi settori vitali: stringere la cinghia, studiare da soli un po’ d’inglese e d’informatica e infine curarsi con rimedi caserecci, anche questi Made in China.

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Come ci ha dimostrato il disastro delle piattaforme per l’estrazione dei gas e dei petroli in acque statunitensi, causato dalla compagnia inglese British Petroleum l’estate scorsa, c’è poco da scherzare con le perforazioni in acque profonde e probabilmente Pemex non è in grado di realizzarle da sola, pertanto il Messico potrebbe dire addio al suo oro nero già a partire dal 2020 secondo le stime più gioiose.
Nella foto che ho scelto il patriottismo raggiunge una punta folcloristica e drammatica dato che lo scatto è dell’epoca dei mondiali di calcio sudafricani, un periodo piovoso e sornione in cui le attività del paese, e quindi anche quelle dei benzinai, si sono ridotte a zero durante le poche partite che il Messico ha potuto disputare (non che alla squadra italiana sia andata tanto meglio come sappiamo).

Saltiamo, ma sempre di fiestas patrias parliamo. A Oaxaca (e c’è anche una foto) per tutto l’anno ha funzionato un contatore gigante che segnava ore, minuti e secondi e che s’è azzerato alla mezzanotte del 15 settembre, la data fatidica del grido dell’indipendenza. Quest’anno il partito dominante di regime, quello della “prima repubblica messicana”, il PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale, famoso per la contraddizione nei termini che lo definiscono) ha perso il governo dello stato di Oaxaca per la prima volta.

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E così il repressore governatore Ulises Ruiz verrà rilevato da Gabino Cuè (eletto con una coalizione di partiti che va da destra, con il Pan, a sinistra, con il Prd) che, malgrado i suoi trascorsi nel Pri, non è ancora eccessivamente sputtanato e ci si aspetta, quindi, un cambiamento di visione e gestione della cosa pubblica in una delle regioni più povere ma splendide del paese.

Stavo affogando nel mezcal del tipo “minatore” (una bibita simile alla tequila per chi non bazzicasse la zona mesoamericana) quando tra spari e fuochi d’artificio una ventina di persone hanno accompagnato il bestiale governatore Ulisse nel suo ultimo grido ribadendo le consegne del movimento di protesta del 2006-2007, “ya cayò ya cayò, Ulises ya cayò” (Ormai è caduto, già è caduto, Ulisse ormai è caduto). E’ vero ma, purtroppo, è riuscito a cadere in piedi e con la fedina pulita nonostante le numerose condanne per violazione dei diritti umani ricevute da corti e organizzazioni internazionali.
La domanda (quasi) finale è: che senso ha una manifestazione o un atto pubblico in cui partecipano più poliziotti e funzionari del governo che cittadini comuni? Il pomeriggio e la sera del 15 sono stati una sequela di atti siffatti.

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Per finire con un tema più idilliaco, ricordo che in questo giro ho riappreso che l’orgoglio degli abitanti di Oaxaca riguarda anche il loro prodotto tipico distillato, il mezcal, al punto che tutti sostengono che la ben più nota tequila è semplicemente una sottocategoria di questo. Infatti l’agave azzurra, la pianta da cui si ricava la tequila, è un tipo particolare di maguey (o anche agave che è il suo nome scientifico) che, invece, dà origine e vita al favoloso mezcal, che è tale sempre e comunque e non importa che tipo di maguey si voglia utilizzare per ottenerlo (LINK culturale). Il verme sul fondo è solo un optional gradito e temuto. Ma l’importante è brindare e sopravvivere alla follia. Fino alla prossima vittoria. Sempre?

Continua…

Mi permetto di consigliare la lettura di Back In Town. Bovisa City Milano, post estivo che ha in qualche modo ispirato e preceduto degnamente questo primo sfogo autunnale su Città del Messico. Ed è sempre periferia…


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