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Balcani, le rivolte dimenticate

Creato il 18 settembre 2013 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Da diverse settimane l’Europa orientale è in pieno fermento. Cortei di manifestanti attraversano le principali piazze di Sofia, Lubiana, Sarajevo e delle altre capitali dell’Est, tutti inneggianti contro la corruzione, il malgoverno e l’«autoreferenzialità» di classi politiche tacciate d’incompetenza, se non addirittura di vera e propria disonestà. Nell’Europa un tempo socialista, la legittimità dei vari governi è stata messa in forse un po’ ovunque. Eppure, al di fuori del perimetro dei Balcani, nessuno ne parla. Da un lato perché, com’è inevitabile, l’attenzione dei media internazionali è tutta concentrata sull’instabilità egiziana di ieri e sui vènti di guerra in Siria d’oggi. Dall’altro, tuttavia, emerge l’evidente contrasto tra le immagini degl’indignados spagnoli di due anni fa, trasmesse dai TG di tutto il mondo, e il silenzio sulle analoghe manifestazioni al di là dell’ex cortina di ferro.
Cercheremo qui di narrare quanto accade nell’altra metà dell’Europa.

Partiamo dalla Bulgaria, dove l’ondata di manifestazioni popolari si propaga a piú riprese dallo scorso inverno. In febbraio, piú di 100.000 persone invadono le strade di Sofia e d’altre quaranta città in segno di protesta contro gli eccessivi rincari delle bollette energetiche, divenute insostenibili in un Paese dove il salario medio mensile non supera i 440 euro. Sul banco degl’imputati c’è anzitutto il governo, allora guidato da Bojko Borisov, al potere dal 2009 e artefice d’una politica di «risanamento economico» fatta d’allentamento di vincoli e privatizzazioni indiscriminate, tanto appoggiata dall’Unione Europea quanto invisa ai cittadini. Ma non mancano slogan contro le multinazionali dell’energia e la stessa UE, additati come corresponsabili degli aumenti. Il 20 febbraio, Borisov è costretto alle dimissioni. Simbolo della protesta è Plamen Goranov, 36enne deceduto il 4 marzo dopo essersi dato fuoco proprio nel giorno del passo indietro del Primo Ministro.

Le elezioni anticipate di maggio – ma la legislatura sarebbe comunque terminata in luglio – sembrano addirittura peggiorare lo stallo politico. Il partito di Borisov ottiene il 30,1% dei voti; i socialisti di Sergej Stanišev, principale sfidante del Primo Ministro uscente, s’attestano al 26,1%; la quota d’astensionismo è prossima al 50%. Per uscire dall’impasse, l’incarico di governo è affidato al socialista Plamen Oresharski, sostenuto dal proprio partito e dal Movimento per i Diritti e le Libertà (che rappresenta gl’interessi della comunità musulmana), ma che per aver la maggioranza ha bisogno anche dei voti dei deputati del partito xenofobo e ultranazionalista Ataka («Attacco»), guidato da Volen Siderov. Ai bulgari il nuovo governo non piace: da un lato, perché Oresharski è visto come troppo vicino agl’interessi dei grandi imprenditori, a scapito di quelli della popolazione; dall’altro, perché l’esecutivo appare fin da súbito ostaggio dei capricci di Siderov, i cui voti sono necessari per la stabilità dello stesso esecutivo.

A metà giugno, la gente scende nuovamente in strada. Stavolta la scintilla è la nomina del discusso deputato Delyan Peevski, 32 anni, a capo dell’Agenzia di Sicurezza Nazionale – DANS, il controspionaggio – nonostante le resistenze dell’opinione pubblica. Rispetto a febbraio, però, la protesta è ben piú estesa e articolata. Se allora il malcontento era frutto d’un problema concreto, il caro bollette, stavolta la protesta dei cittadini esprime il rigetto nei confronti di quella che l’analista Georgi Gospodinov definisce «un’oligarchia dell’ombra che continua a dirigere il Paese». In Bulgaria, come sottolinea la Frankfurter Allgemeine Zeitung, «alcune consorterie provenienti dalla vecchia nomenclatura o dai servizi segreti comunisti hanno fagocitato un gran numero d’istituzioni dello Stato per poter condurre i loro affari in una vasta zona grigia che mescola politica, economia e crimine organizzato». L’apice delle proteste è raggiunto il 23 luglio, quando migliaia di bulgari manifestano davanti al Parlamento, impedendo l’uscita dei deputati, che riescono a evacuare il palazzo dietro la protezione d’un fitto cordone di poliziotti. Ma la protesta degenera, e la serata si conclude con una decina di feriti negli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine.

Le manifestazioni proseguono per tutto il mese d’agosto (anche tramite forme creative), ma la politica rimane indifferente alle istanze della piazza, permettendosi addirittura il lusso d’andar in vacanza. A nulla serve l’annuncio del governo d’un massiccio rimpasto ai vertici dei principali enti pubblici: il legame di fiducia tra il popolo bulgaro e i suoi rappresentanti appare definitivamente compromesso. La contestazione prosegue ininterrottamente da tre mesi. Ironia della sorte, l’unico a beneficiarne è l’ex Primo Ministro Borisov. Proprio colui ch’era stato spinto al passo indietro sotto pressione della piazza, infatti, ha pensato bene di mendicare il consenso perduto aggiungendosi alle centinaia di manifestanti che il 4 settembre hanno sfilato a Sofia, in occasione del rientro parlamentare dalle vacanze.

L’altro Paese dell’Est dove la protesta popolare ha costretto il governo alle dimissioni è la Slovenia. I movimenti di piazza iniziano alla fine del 2012, in reazione alla politica di rigore imposta dal governo di centrodestra di Janez Janša. Il sindaco di Maribor, Franc Kangler, è costretto a dare le dimissioni, mentre altri esponenti politici rimangono ai propri posti nonostante le analoghe richieste d’un passo indietro avanzate dai manifestanti. Coll’arrivo del nuovo anno, le manifestazioni di piazza calano d’intensità, e il nuovo governo – nato dal colpo di mano con cui Janša, dopo le elezioni, ha emarginato all’opposizione il partito Slovenia Positiva di Zoran Janković, che pure aveva ottenuto la maggioranza relativa – appare stabile e in grado di coprire l’intera legislatura.

Poi, un fulmine a ciel sereno. In gennaio, un rapporto della Commissione anticorruzione denuncia una serie d’irregolarità a carico dei leader dei due principali partiti, Janković e appunto Janša, sospettati d’arricchimento illecito. Benché i due non siano accusati di corruzione, l’esistenza di transazioni finanziarie occulte e di proprietà immobiliari non dichiarate risultanti dal rapporto in esame richiama il tema della scarsa trasparenza con cui i partiti maneggiano i soldi pubblici. La crisi politica porta alla caduta del governo, sfiduciato dal Parlamento in data 27 febbraio. La 42enne Alenka Bratušek, esponente di Slovenia Positiva, è incaricata di formare un nuovo esecutivo. Ma per Janša i problemi devono ancora venire: in giugno, l’ex Primo Ministro è condannato a due anni di prigione per un caso di corruzione legato all’acquisto di forniture militari dalla compagnia finlandese Patria nel 2006. È in corso un analogo processo in Finlandia, inaugurato a Helsinki il 20 agosto e che dovrebbe concludersi il 24 ottobre.

Ad alimentare la frustrazione dell’opinione pubblica concorrono poi le misure d’austerity cui la Slovenia deve nel frattempo sottoporsi per evitare di ricorrere a un aiuto esterno (ossia della «trojka», con tutte le conseguenze del caso). Per evitare il «bailout» (il quinto dellazona euro), a metà maggio il governo di Lubiana presenta un piano di riforme che prevede una serie di privatizzazioni nonché ulteriori prelievi fiscali (compresa una nuova imposta dell’1% su tutte le buste paga). Misure cui la gente s’oppone tornando in strada a protestare, esprimendo non soltanto la totale perdita di fiducia nei confronti d’una classe politica corrotta, senza distinzione tra maggioranza e opposizione, ma anche il disappunto verso la sottomissione dell’esecutivo alle decisioni dell’Europa. Le contestazioni sono tuttora in corso.

In Bosnia, le manifestazioni di piazza hanno assunto caratteri molto particolari. Siamo a Sarajevo, a fine maggio. I medici diagnosticano una grave malformazione congenita alla piccola Belmina Ibrišević, una neonata d’appena tre mesi. Per sopravvivere, Belmina deve sottoporsi urgentemente a un delicato trapianto di midollo in Germania, ma purtroppo non può espatriare. Questo perché la piccola, come tutti i bambini nati dopo il 12 febbraio 2013, è priva del Jedinstveni matični broj građana («numero unico d’identificazione»), equivalente al nostro codice fiscale, che viene di norma assegnato alla nascita e che costituisce il presupposto per il rilascio di qualsiasi documento, compreso il passaporto.

La vicenda nasce da un’aberrazione prodotta dall’Accordo di Dayton, che nel 1995 mise fine alla guerra attraverso la divisione etnica della Bosnia ed Erzegovina – divisione alla base della stessa intelaiatura burocratica e istituzionale che amministra il Paese. Oggi la Bosnia è una federazione suddivisa in due entità nazionali: la Repubblica Serba di Bosnia e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, croato-musulmana, a sua volta ripartita in dieci cantoni su base etnica. È facile intuire come i nazionalismi condizionino ancora profondamente le dinamiche politiche interne alla federazione. Per esempio, ai politici serbi nazionalisti non va giú che i comuni della Republika Srpska siano ancora chiamati con la doppia denominazione, serba e bosniaca. All’inizio dell’anno, Milorad Dodik, Presidente della regione serba, adisce la Corte Costituzionale per impugnare la legge sull’attribuzione dei «numeri unici d’identificazione», che nell’assegnare tali codici identifica i comuni attraverso il criterio della doppia denominazione. La Corte dà ragione a Dodik, sospendendo la legge in questione. Ma, dal giorno seguente alla pronuncia, nessun bambino può piú ricevere il codice identificativo alla nascita; e non può riceverlo ancora oggi, perché in sette mesi il Parlamento nazionale non ha ancora trovato un accordo sulla riforma della legge.

In giugno, il caso della piccola Belmina diventa di dominio pubblico. Decine di cittadini si riuniscono intorno al Parlamento, manifestando silenziosamente. A poco a poco, i manifestanti diventano migliaia. Da Sarajevo, dove si parla già di beboluzione (la «rivoluzione dei bebè»), la protesta s’allarga ad altre località. Alla gente comune, che sfila esibendo le foto della neonata, s’aggiungono gli studenti di Banja Luka – scesi in strada nonostante il divieto di manifestare – e di Mostar. Il 6 giugno, i parlamentari sono addirittura posti sotto assedio dai manifestanti, decisi a non lasciar uscire i deputati dal Parlamento finché non sarà approvata una nuova legge. Il Primo Ministro Vjekoslav Bevanda fugge dalla finestra; gli altri politici vengono «liberati» solo grazie alla mediazione notturna dell’Alto Rappresentante dell’ONU per la Bosnia.
Sorpreso dall’intensità delle manifestazioni, il governo vara un decreto d’urgenza per consentire il temporaneo rilascio dei numeri identificativi, in attesa d’approvare una legge definitiva. La misura non basta ad aiutare la sfortunata Belmina, che nel frattempo viene a mancare. Ma la sua vicenda squarcia il velo s’una realtà troppo spesso sottaciuta: il risentimento dei bosniaci verso una classe politica capace di sacrificare tutto, perfino il buonsenso, sull’altare dei nazionalismi.

In Romaniatutto il 2013 – cosí come il 2012 – è costellato di scioperi e manifestazioni, quasi sempre per questioni salariali e di lavoro. Il caso piú eclatante è quello dell’Oltchim S.A., polo nazionale dell’industria chimica, che il 15 aprile annuncia il licenziamento senza preavviso di 1200 dipendenti (su 4000 totali). La decisione è frutto delle disastrose condizioni in cui l’azienda versa: il 2012 s’è chiuso con un passivo di bilancio pari al 20,9%, e quasi tutti i lavoratori non percepiscono lo stipendio da mesi.
A manifestare sono altresí gl’impiegati delle Poste, ente in perdita per 40 milioni d’euro e che il governo intendeva privatizzare entro il luglio di quest’anno. Decisione che preoccupa i dipendenti, in vista di probabili licenziamenti. Ma analoghe proteste hanno coinvolto anche i dipendenti delle ferrovie e gl’insegnanti, senza contare i lavoratori del settore privato.
In tutti i casi, i manifestanti convergevano verso un punto comune: l’esplicita richiesta di dimissioni dell’esecutivo guidato da Victor Ponta, accusato d’inettitudine nel far fronte all’attuale crisi.

Manifestazioni popolari si segnalano anche in Serbia e Croazia, senza dimenticare l’Ungheria di Viktor Orbán, dove la controversa riforma costituzionale voluta dal Primo Ministro ha messo in forse persino le libertà fondamentali.

In generale, dalla Slovenia alla Bulgaria, passando per le madri di Sarajevo e gli operai dell’Oltchim, c’è un elemento di fondo che lega tutti i sommovimenti in questione. A innescare la miccia delle contestazioni sono quasi sempre problemi locali, frutto di scandali circoscritti. Da qui, l’ondata del malcontento si diffonde rapidamente, accogliendo le istanze d’un numero sempre maggiore di cittadini, fino a metter in discussione la stabilità stessa dei governi di turno. Ciò appare stupefacente, alla luce d’un dato culturale: nei Paesi dell’ex blocco sovietico la gente non è abituata a scendere in piazza. È ancora forte il ricordo delle manifestazioni obbligatorie come esercizio di consenso al regime; non c’è da stupirsi che il ricorso alla piazza risvegli cattivi ricordi ancora oggi, perlomeno nelle fasce piú anziane della popolazione. Ma dalla caduta del Muro è trascorso ormai un quarto di secolo. Oggi, una generazione di giovani si sta affacciando sulla scena per chiedere diritti, lavoro e legalità istituzionale al cospetto di classi dirigenti incapaci e corrotte, aggregando a sé anche quelle fasce meno giovani la cui diffidenza verso la piazza è nota. I movimenti sono cosí passati da locali a nazionali, e in séguito a transnazionali, tutti accomunati dal rifiuto dei partiti e dei politici che li rappresentano.

In un tale contesto, stupisce la totale assenza dell’Europa, che sulle proteste di Sofia, Bucarest, Lubiana e cosí via non ha nemmeno preso posizione. Come se, tra i 27 Paesi dell’UE, i nostri cugini balcanici fossero membri di serie B. Per Bruxelles, le stelle che compaiono sulla sua bandiera non brillano tutte della stessa luce. Silenzio dell’Europa e silenzio dei media, come dicevamo all’inizio.

Peraltro, la rivolta in Bulgaria infiammava proprio nei giorni in cui era in corso un’altra protesta: quella di piazza Taksim, nel centro d’Istanbul, contro il governo Erdoğan, che intendeva abbattere gli alberi del parco Gezi per far posto a un centro commerciale. Tantoché il Corriere ne parlò in un articolo significativamente intitolato «La Taksim dimenticata». In Turchia, che non fa parte dell’UE (né, probabilmente, v’entrerà mai), c’erano le testate di tutto il mondo. In Bulgaria, che della grande famiglia europea fa parte ormai da sei anni, no. Famiglia di cui fanno parte anche Slovenia, Romania e – dal primo luglio – Croazia, mentre la Serbia è in procinto d’aggiungersi. Paesi tanto problematici quanto vicini a noi, dove le telecamere non sono però arrivate.

* Articolo originariamente comparso su The Fielder


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