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“Bar Atlantic”, di Bruno Osimo

Creato il 06 aprile 2012 da Fabry2010

Pubblicato da giovanniag su aprile 6, 2012

Da Postpopuli.it

Recensione e intervista di Giovanni Agnoloni

“Bar Atlantic”, di Bruno Osimo

Bruno Osimo

Bar Atlantic

(ed. Marcos y Marcos)

Un’opera brillante ma dalla sostanza profondamente seria. Bar Atlantic di Bruno Osimo – studioso di lingua e cultura ebraica e traduttore – è un romanzo edito da Marcos y Marcos che ha per protagonista Adàm, un docente universitario parcellizzato fra tante sedi accademiche sparse per il Nord Italia. Tante quanti i sono i giorni lavorativi della settimana.

La sua vita è un mosaico di momenti vissuti al volo, tra carrozze ferroviarie, amanti diverse in città diverse e un beato stordimento, che lo porta a lasciarsi andare a questo flusso ininterrotto di esperienza con ironia e spirito giocoso. Lo stesso che l’autore mette nelle spassose note a pie’ di pagina, che costellano il libro con un tocco che mi viene spontaneo associare ad alcune delle uscite più felici di Woody Allen.

Ma i temi, dicevo, sono seri. Su tutti, il precariato; lo spaesamento che induce in chi lo vive e si ritrova spezzettato in una serie sfilacciata di momenti. Manca un baricentro. Per Adàm il surrogato di questo ancoraggio interiore è l’adorata moglie, che pur cornifica abbondantemente, e anche il bar del titolo dell’opera, dove si consuma una confortante ritualità di gesti.

Ma in questo suo mondo galleggiante sul mare dell’instabilità rientra anche la lingua ebraica, l’oggetto del suo lavoro, eterno ammiccamento alla radice del significato: il suono. Suoni, movimenti e percezioni tattili accompagnano tutto il suo sballottarsi qua e là. Tutti segni di una tensione vitale paradossalmente accentuata dalle incertezze del vivere quotidiano.

“Bar Atlantic”, di Bruno Osimo

Bruno Osimo (da tarjumalamagiadelleparole)

Intervista a Bruno Osimo:

- In fondo Adàm ama questa vita. C’è qualcosa di esaltante, in quest’assenza di certezze, esattamente come (lo dice lui stesso) il “posto fisso” molte volte è avvilente. Ma in fondo, qual è la tesi che volevi far passare, in questo libro?

Mi rendo conto che in questo momento storico quello che dico può essere interpretato come presa di posizione di tipo politico. Ma Elsa Fornero non c’entra nulla col mio ragionamento. C’entra semmai Čehov, quando parla delle persone “sazie” intendendolo in senso parzialmente metaforico: chi è totalmente appagato, chi non deve fare nulla per sopravvivere, s’imbestialisce, diventa un vegetale, non s’innamora più, non crea più, non scrive più poesia, tende a pensare solo al soddisfacimento dei bisogni primari. Chi è precario, per contro, è sempre in ripresa, è sempre in fase di sorpasso, gode molto di più per quello che ha e desidera in perpetuo. Vivere in uno stato di perpetuo desiderio fa molto bene alla salute, lo diceva anche Keats.

- La nostra epoca, con la crisi e i problemi del mercato del lavoro, spesso frantuma l’io, che non sempre sa reagire con la grinta di Adàm. Come si fa a vivere con un piglio del genere?

Occorre un marcato istinto di sopravvivenza, e una forte carica vitale. Adàm ci riesce perché ha vissuto l’abbandono paterno e materno come una sfida, non come una punizione. E quindi è pieno di energia per andare a cercare da un lato di far vedere quanto vale sul piano professionale, dall’altro di farsi accettare dalla donna, o meglio dalla Donna, al punto di vivere la vita da un punto di vista femminile per riuscire a capire meglio le Sue esigenze e soddisfarle meglio che può. Il desiderio stimola la sensibilità.

- Quanta parte di te c’è in questa storia?

Ho contratti di insegnamento in tre diverse università, sono stato trombato a diversi concorsi universitari perché non appartenevo alla cosca giusta, amo cucinare e le ricette riportate sono autentiche, studio la traduzione, frequento i cosiddetti nonluoghi e li trovo poetici, perlomeno più poetici dei luoghi-cartolina, scrivo poesie, corro. Tutto il resto è finzionale.

- Credi che le dinamiche del lavoro e quelle dei sentimenti vadano di pari passo? Insomma, lo “slabbramento” umano e sociale a cui assistiamo quotidianamente nasce dall’insicurezza verso il futuro? O si potrebbero migliorare entrambe le dinamiche ritrovando il centro di se stessi?

Penso che l’incertezza verso il futuro (che c’è sempre stata, solo che si fa presto a dimenticarsi quella passata) spinga alla coesione, all’amicizia, alla solidarietà anche nella coppia. La coppia libera storicamente è figlia del maggiore momento di benessere economico, i primissimi anni Settanta. Bisogna potersela permettere. Credo che lo slabbramento sia imputabile in particolare alla decadenza della famiglia. Nel sessantotto si è fatto l’errore grave di buttare il neonato con l’acqua sporca. La famiglia – magari allargata, magari basata sulla coppia omosessuale, magari non convenzionale – serve molto. I desperados che si vedono in giro di solito escono da famiglie disfunzionali. Ed è anche colpa nostra, che lasciamo che a riempirsi la bocca di “famiglia” siano soltanto i giovanardi di turno.

- Ti senti più scrittore o traduttore? Perché questo libro è in pari misura figlio delle due vocazioni.

Mi sento tutt’e due le cose, e le considero uno stesso lavoro. Unica differenza, nel primo caso l’originale è nella testa, ed è nebuloso, non stampato nero su bianco. E non c’è nessuno che ti commissiona il lavoro.

- A cosa stai lavorando, adesso, come autore?

Ho molte idee, ma confuse. Sto traducendo dal russo un bellissimo libro di racconti, costringendomi a tenere ferme le dita dalla tastiera di autore per far catalizzare una parte degli spunti in un quadro più chiaro prima di cominciare la stesura. E voglio capire come viene recepito Bar Atlantic. Mi sta a cuore il parere dei miei lettori, sballottati dal Dizionario affettivo della lingua ebraica a un romanzo così diverso…


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